Guida Galattica per i Lettori | Maggio 2025

AMICO ROMANZO

Le ragioni delle Madri. Imprevisti sguardi di donna ritrovano le origini del mito

di Gabriella NOTO

Giuseppina Norcia, Con cuore di donna. Alcesti. Teti. Atena, Milano, VandA Edizioni, 2024

Nel cimentarsi nella scrittura del volume in commento, possiamo immaginare che Giuseppina Norcia abbia saldamente preso la mano di Christa Wolf e seguito attentamente queste preziose indicazioni: “Se mi è concesso già ora di formulare un problema poetologico, questo è: che non esiste poetica, né può esisterne una capace di evitare che la viva esperienza di innumerevoli soggetti sia uccisa e seppellita in oggetti d’arte”.(1) E ancora: “Imparare a leggere il mito è un’avventura di tipo particolare; presupposto di quest’arte è una progressiva trasformazione di sé, una disponibilità ad abbandonarsi all’associazione apparentemente facile di fatti fantastici, di tradizioni, di desideri e speranze, di esperienze e tecniche magiche, adattati ai bisogni di gruppi specifici – in breve, a un altro senso del concetto di realtà.”(2)

Certamente l’Autrice ha potuto volgersi al racconto mitico e alla sua nuova tessitura, con la serena presenza della propria esperienza: siciliana della Sicilia greca, grecista e divulgatrice, docente di drammaturgia antica presso l’Istituto Nazionale Dramma Antico (Fondazione INDA) e allieva della Scuola Labodif  “Laboratorio delle differenze” istituto di ricerca, comunicazione e formazione che, nato venti anni fa da Giovanna Galletti e Gianna Mazzini, indaga la realtà con prioritaria attenzione alla differenza di genere. Ed è proprio abbandonando il senso comune del “concetto di realtà” che gli infiniti rivoli del mito assumono forme altre, possibilità solo sussurrate ma dalle quali è facile lasciarsi sedurre, che con raffinatezza, vengono schiuse dall’Autrice nelle tre “avventure” proposte.

Alcesti, Teti, Atena affrontano la loro storia, e, concedendosi finalmente una voce, interrogano sé stesse, le vite intrecciate alla loro, gettando anche sul nostro presente sguardi luminosi e inquieti. Raccontate da uomini, condotte da uomini, ingannate nella loro stessa natura, le tre eroine si scopriranno assenti dalla loro stessa storia, baluardi e simboli di valori in cui non possono riconoscersi.

Come trovare la voce per tornare a raccontare, ad affermare la propria esistenza a partire dal proprio cuore di donna? Tornare ad un’origine inedita, insieme ad un’altra donna, consentirà loro, sorprendentemente, di vivere o di ripensare da protagoniste la propria avventura.

Le tre storie vanno così nascendo nuovamente senza che l’autrice abbia alcuna pretesa di volerle concludere e definire. Il mito resta disteso e immenso, un labirinto di umanità e bellezza, eternamente aperto a nuovi sensi e a nuove svolte. E da questa incompiutezza risorge prepotentemente la sua capacità di inoculare il germe del dubbio, di interrogare il presente. 

Così, Alcesti, una delle figure più ambigue dell’opera euripidea, nel racconto proposto, trova nell’Ade, nell’incontro con Persefone/Kore la spinta di una nascita a una vita vera. Ritornata in superficie, misteriosa figura velata ricondotta da Eracle al palazzo di Admeto, ridisegnerà per sé sola i confini dell’onore, dell’eroismo, della vita. 

Teti ragionerà ancora dolorosamente sulla sorte di quel figlio eroe che ha lasciato al padre, sentendosi inadatta lei, immortale a crescere una creatura mortale. L’autrice ne segue pensieri e movimenti; non è la ninfa divina ma una madre perseguitata dalla sventura che tutto pensa e tenta per il figlio. Teti riconsidera l’arroganza di Agammenone (che sia sua la vera “ira funesta”?), la violenza della guerra, pensa con pietà alle giovani rese schiave. Piange nella morte di Patroclo la morte di Achille, e soffre, incapace di rassegnarsi al destino del figlio, al suo stesso destino. Rivive, nel racconto di Giuseppina Norcia, tutta la complessità di questa relazione madre/figlio, indagata con finezza da Rachel Bespaloff nel suo saggio breve dedicato all’Iliade.(3) Solo innanzi a Teti, Achille appare, finalmente umano, iracondo di una rabbia infantile e lacrimosa, destinato ad una gloria inscindibile dalla morte. 

Nell’ultima avventura troviamo Atena in tribunale, intenta ad ascoltare e giudicare il matricidio di Oreste. Il processo si svolge innanzi a lei, ma per la prima volta viene data voce ai suoi pensieri. Pallade ripercorre la storia di Oreste, rivede i delitti da cui è macchiata quella stirpe, i maneggi degli dei. Il filo dei suoi pensieri svolge e riavvolge più volte il corso degli eventi. Nelle parole dell’Autrice, Atena appare come sulla scena: il bel mento reclino, la fronte assorta, lo sguardo leggendario che guizza tra i contendenti. 

E in questo procedere del pensiero finalmente libero, lei, divinità del lògos, del Giusto, di ciò che è netto e luminoso viene finalmente assalita dal dubbio. La vicenda di Oreste la scuote e la interroga, l’innocenza e la colpa abitano insieme nei cuori delle vittime e dei carnefici. 

Atena ritrova il cuore della tragedia di Eschilo, lo sente pulsare terribile nei pochi versi nel dibattito tra Oreste e le Erinni: «E io sono forse del sangue di mia madre?» a questa domanda, di crudele arroganza, le Erinni incalzano: «Ti ha nutrito dentro il suo grembo, assassino! Rinneghi la cosa che più ti appartiene, il sangue di tua madre?» (Eumenidi, vv. 607-609). Poche parole racchiudono la rappresentazione di un mondo che abbandona l’arcaico, il materno ed il femminile per dichiararsi democratico, fatto di leggi e norme ineludibili eppure crudelmente ingiuste. 

E per la prima volta, in questo racconto, Atena si scopre figlia di una madre, arriva a sognare sé stessa come creatura imperfetta che cresce, lei che aveva affermato  Io non ho madre che mi abbia generato e sempre sto dalla parte del maschio – tranne che non voglio sposarmi. Con tutta l’anima perciò io sono tutta, tutta intera di mio padre. Perciò non posso appoggiare una donna che ha ucciso il suo sposo, colui che difende la casa” (ivi, vv. 736-739).

 La Dea arriva così a comprendere la rabbiosa disperazione delle Erinni che gridano le ragioni di un mondo più antico, un mondo di sensi  e intelligenze altre, in cui innocenza e colpa, buio e ombra, giusto e sbagliato non vengono annientati dal lògos, dalle leggi, dalla Verità.

Riemerge nei tre racconti il contrasto tra i motivi dei padri e quelli della madri. E se Alcesti si scopre a pensare che certamente sarà meglio per suo figlio avere una madre defunta ed un padre salvo, Teti coscientemente lascia l’amatissimo figlio a Pelia, sentendosi incapace di crescere, lei immortale, un figlio mortale. 

Atena riflette sull’impari colpa dell’uccidere un padre e dell’assassinare una madre; in questa inedita avventura solo l’indagine sulla sua origine misteriosa le farà scoprire il desiderio di rifondare il suo Tribunale: “Perché non ci sia una vita che valga più di un’altra. E’ importante ristabilire la verità eppure questo gesto di coraggio non basta, da sola essa può diventare condanna. Se non si nutre di relazione, di valore, la verità genera abbandono” (pag. 135)

Il racconto si dipana dolcemente, svolgendo le complesse trame di queste storie e lasciando che suggeriscano pensieri e azioni nuove alle tre protagoniste. L’autrice non dimentica la dimensione teatrale, che si ripropone con un gusto particolare nella struttura dei dialoghi, nei monologhi, nella descrizione di ambientazioni e voci. 

Lettrici e lettori si scopriranno assorti a considerare le nuove svolte proposte dall’autrice, avvinti, ancora, dalla bellezza di queste antiche storie ricostruite e ripercorse con rara semplicità e grazia e con un’autorevolezza che non ha bisogno di ricordare il profondo studio ed il rigore necessario ad affrontare questi miti colossali.

1)Christa Wolf, Premesse a Cassandra, ed. e/o, Milano 2018, pag. 7
2) Ibidem, pag. 65
3) Rachel Bespaloff, Sull’Iliade, Adelphi eBook, Milano 2018




SIPARI APERTI

A Napoli con Massimo Troisi. Il napoletano di San Giorgio a Cremano

di Mirella SAULINI

Donatella Schisa,
A Napoli con Massimo Troisi. Il napoletano di San Giorgio a Cremano, Roma, Giulio Perrone Editore, 2024, pp. 196, ISBN 9788860047335,
€ 16,00

Sulla quarta di copertina di questo libro si legge una frase: «Non poteva sapere Massimo che nessuno lo avrebbe dimenticato». Essa ci permette di identificare all’istante nel volume un omaggio a questo «napoletano di San Giorgio a Cremano» scomparso d’improvviso e prematuramente il 9 giugno 1994.

Del perché accettò con entusiasmo la proposta dell’editore Perrone di scrivere un libro sulla Napoli di Massimo Troisi a trent’anni dalla morte dell’attore, Donatella Schisa dà conto nella Prefazione (pp. 9-15) da lei stessa scritta: i ragazzi che appartengono alla mia generazione, afferma, hanno amato Troisi come uno di loro e Napoli ha sentito la sua morte come un lutto comune, con un dolore fatto anche di riconoscenza e di rimpianto.

L’attore, sappiamo, era molto noto e apprezzato in Italia e fuori e questo ha fatto sì che molto sia stato scritto su di lui. Ma essere noto ed essere davvero conosciuto sono due cose diverse e dunque l’autrice, pur dicendo ovviamente anche cose già dette, in questo suo libro che è un po’ saggio un po’ romanzo, cerca di dire qualche cosa di nuovo. Il detto e il non detto emergono nel corso di una passeggiata ideale attraverso Napoli. Come è nelle intenzioni della collana all’interno della quale è pubblicato il libro, Passaggi di dogana – della quale, alla fine del volume, sono elencati i titoli – nel corso di questa passeggiata attraverso i luoghi della Napoli a lui cara, facendosi guidare dalle voci e dai ricordi di chi ne ha fatto esperienza insieme a Massimo, l’autrice ce ne restituisce l’immagine nota e meno nota. Possiamo dunque dire che il libro, strutturato per capitoli, il più lungo dei quali è, neppure a dirlo, quello intitolato Il cinema (pp. 143-189) è una biografia molto particolare di Massimo Troisi.

Ma perché il sottotitolo Il napoletano di San Giorgio a Cremano? Sembra una sorta di ossimoro, un napoletano di un luogo che non è Napoli! Ma non è un ossimoro; San Giorgio a Cremano è infatti un comune a sé che fa oggi parte dell’area metropolitana di Napoli, pur distando dalla città partenopea solamente quattro chilometri. Un tempo, e da qui nasce probabilmente l’assimilazione di Troisi a Napoli, i due comuni erano un tutt’uno «che si traduce in identità di lingua, di sguardo, di sentimento, in uno stesso modo di stare al mondo e nella stessa fede calcistica» (p. 33).

Già, fede calcistica, la fede azzurra, la passione di Massimo e di Napoli che rende inevitabile fare dello stadio Diego Armando Maradona, un tempo stadio San Paolo, la pima tappa della nostra passeggiata napoletana. Per l’attore il calcio non era soltanto una passione, era piuttosto un sogno sfumato. Avrebbe voluto infatti diventare un calciatore, ma la precoce malattia cardiaca glielo aveva impedito. Non rinunciò però a giuocare nella nazionale Artisti, facendosi valere e facendosi ascoltare dai compagni; la passione prevalse sul timore e sulla prudenza, associandosi alla generosità allorché l’incasso veniva devoluto alle cause più diverse.

La generosità apparteneva a Massimo che la sperimentò nel dare, ma anche nel ricevere. Con l’avanzare della malattia, si rese infatti necessario l’impianto di una valvola cardiaca; per l’intervento occorreva andare a Houston e fu la comunità a raccogliere la cospicua somma necessaria.

Massimo Troisi possedeva questo sentimento che accomuna e non fa distogliere lo sguardo dall’altro, un sentimento che era umano, ma anche politico. Leggendo il capitolo La politica (pp. 96-104), non direi che egli avesse un’idea politica, tanto meno ‘partitica’. Anche qui si rivela importante oltre all’esperienza personale di figlio d’una famiglia tanto numerosa da non potersi più definire, da un certo momento in poi, piccolo-borghese, l’esperienza di Napoli. Della Napoli del dopo terremoto, distrutta nel corpo e nello spirito, bisognosa di tutto, insieme coccolata dalle promesse e saccheggiata nei fatti. La politica sarebbe dovuta intervenire, ascoltando e risolvendo, il politico avrebbe dovuto concretizzare l’appartenenza al partito traducendo in atto ciò che la teoria predicava. Astrattamente e distrattamente, lasciava invece che i napoletani affidassero ai santi e a Dio la speranza nel futuro.

Lo facevano spinti da una fede di popolo, profonda ma spontanea perché trasmessa attraverso le generazioni. Leggendo il capitolo intitolato appunto La fede (pp. 105-111), veniamo a sapere che la sentiva dentro di sé anche Massimo, pur senza identificarla nella religione e nei suoi riti.

Chiudiamo inevitabilmente con un breve sguardo al capitolo Il cinema. L’autrice vi sintetizza le trame e le circostanze delle sue pellicole, ma fa centro sul film Il postino del 1964, un film candidato a più Oscar, che ne vinse uno per la colonna sonora, quasi un segno dell’amore dell’attore per la musica. È un film che «è stato il testamento spirituale di Troisi, […] che ha raggiunto e toccato gli spettatori di tutto il mondo» (p. 173). Volle testardamente girarlo fino alla fine, parola che assunse poi un significato tristemente preciso. Le riprese finirono infatti il 3 giugno 1964 a Cinecittà; la vita di Massimo finì il giorno successivo, a Ostia, durante il sonno, stroncata da un infarto.

A questo punto non possiamo non chiederci se sia vero che nessuno di noi ha dimenticato Massimo Troisi. Diciamo che lo è, anche se non tutti lo ricordano con il medesimo affetto e la medesima intensità.

Scorrevole e ben documentato, il volume di Donatella Schisa non aggiunge probabilmente nulla a quanto un po’ tutti sapevamo dell’attore Troisi. Viene infatti da pensare che, anche se guardate superficialmente, quelle che Donatella Schisa elenca come Fonti (pp.196-198), sarebbero bastate a documentare la sua versatilità d’interprete, la sua ironia e autoironia, le sue battute stranianti. Senza questa lettura non avremmo però potuto conoscere tanti piccoli particolari, né scoprire per esempio quello che c’era all’origine della sua riservatezza quasi timida, né sapere che conservò gelosamente una medaglietta con il volto della Vergine regalatagli da sua madre nel 1993, quando dovette tornare a Houston per la seconda operazione. Non avremmo insomma conosciuto tanti aspetti della vita e della personalità dell’uomo Massimo.



COME SUGHERI SULL’ACQUA

La sottile sostanza

di Ariele D’AMBROSIO

Jolanda Insana
A schiere le parole,
Milano,
MARCOS Y MARCOS, 2024,
Pagine 504
Euro 23,00
Info:
https://it.wikipedia.org/wiki/Jolanda_Insana

La sottile sostanza per A schiere le parole

Copertina inquietante, calcografia di Luca Mengoni, viola, con un tronco spinoso – spine violente e lunghe, quasi lame, quasi spade – che in orizzontale sembra nascondersi e avvolgere, con una testa tronca di marziano alieno che sembra guardarti con un occhio piccolo e unico e senza capire se l’altro è chiuso o non c’è. In quarta: «Quando è il caso / mi calo la visiera / e do coltellate di bellezza». 

Ancora una volta mi capita tra le mani un poderoso volume antologico di questa poeta, come lei preferisce dirsi, Jolanda Insana, tra le più significative ed incisive del 900, ed è lei stessa a definirsi scannaparole e gabbalessemi. Fabio Pusterla nel risvolto di sinistra ci dice e ci indica: “Da leggere, rileggere e trileggere: assolutamente!” ed ha ragione. Ha ragione perché Jolanda Insana è nel suono oltre che nel ritmo, nella parola d’invenzione e nel lessico e per questo aggiungo che il rileggere o il trileggere dovrebbe esser fatto a voce udibile, ad alta voce, così, come a mio parere, dovrebbe essere sempre per la poesia da dire anche a se stessi. 

La prima sezione raccoglie poesie da: Sciarra Amara o vero Faccia Di Stìcchiozuccheràto Non Aspettarti Gioie Da Minchiapassoluta (1976-1977); Schitìcchio E Schifìo (1976-1977); Lessicorìo ovvero Lessicòrio (1976-1980) I. il dialetto sputafonemi e la lingua malata – II. la disonesta ristorazione – III. esculpazio et accusazio; Fendenti Fonici (1976-1980); Il Collettame (1980-1982); La Clausura (1982-1984); Medicina Carnale (1985-1991); L’occhio Dormiente (1987-1994); La Stortura (1995-2000); la Tagliola Del Disamore (1999-2002); Turbativa D’Incanto (2003-2010); Cronologia Delle Lesioni (2008-2013). Dopo le poesie c’è una seconda sezione, PROSA che bene inquadra il suo lavoro mentre la terza raccoglie Versi Rari e Inediti. E già dai titoli sopra citati e da quello che ho appena riferito – tra ricerca linguistica e lessicale, il rapporto col dialetto, l’ironia, lo spiazzamento, il sociale femminile-femminista, la minchia e lo sticchiu, la sicilia che inverte il maschile e il femminile, l’oralità e la phonè, quella performativa – che ritengo questa poetica in stretto rapporto con la teatralità ed il teatro.

Subito qualche esempio tra le invenzioni e le ‘s’ che invertono o negano o rafforzano il senso della parola usata: mammalucchito, tremolizio, strambatizza, trovatura, vogliadesìo, annérico, frastocchiara, strudosa, giostròta, sfessazione lessicale, smallazzo, sfaldellare, affrena e le ‘s’: sbattagli, slombano, sgradinando, sdimenticando, stramonta, sgalleggiante, sgraffia, smuscola, sdesolata, e ancora, ancora tanti altri. 

Ma per inquadrare subito questa raffinatissima poeta, non a caso, riconosciuta e sostenuta da Giovanni Raboni, riporto in successione dall’ottima prefazione di Maria Antonietta Grignani: “Insana ha percorso gli ultimi decenni del secolo scorso e oltrepassato il primo del Duemila con una vocazione costante ad andare controcorrente, a tenere gli occhi aperti, a frequentare la tastiera vastissima e stratificata del nostro patrimonio di tradizioni e lingua: dalle forme antiche ai dialetti e agli stereotipi contemporanei, dal parlato alle nomenclature settoriali della medicina, della botanica, della coltivazione e perfino della oreficeria, praticando punte di espressionismo per le interferenze di repertorio poste da lei a stretto contatto testuale. […] La sua è sostanzialmente una poesia orgogliosa della propria scelta civile, schierata contro il conformismo e irta di asprezze e intenti parodici nelle sequenze o lasse di misura variabile, talvolta atteggiate come forme aperte e a bella posta poco connesse tra loro. Dalla Seconda Sezione “Prosa”: “E nella tensione verso il segno e il disegno mi domando quale sfida o tentazione o dannazione, nell’intraducibilità dei linguaggi e nell’improbabilità dell’ut pictura poësis, spinga il pittore a fare ‘versi’ e il poeta a fare ‘segni’.”. Dalla Nota della Curatrice Anna Mauceri: “… una delle voci imprescindibili del nostro panorama letterario, per l’attualissima inclinazione alla denuncia e alla ribellione, e per l’uso espressionistico della lingua, piegata nei più vari registri e forme.”.

In questi tre passaggi la sintesi di un polimorfismo semantico sia nelle forme che nei contenuti che fa di questa poeta un punto di riferimento a mio avviso imprescindibile per comprendere il coacervo di direzioni che la poesia contemporanea ha intrapreso nel nostro Paese e forse anche altrove. E dico questo per una piccola chiosa che avrò piacere poi di affrontare.

Ma subito entro nel vivo e scelgo di evitare estrapolati per dare ai lettori la possibilità di leggere un componimento compiuto. Da La Stortura, il titolo è Il martòrio: «disorientata va a tentoni e risospinta da ogni canto / s’inarca s’inalbera s’allunga / si ritrae e sbatte / torna a riaffacciarsi e rientra di corsa / saggia gli anfratti e inciampa negli spigoli / si sgraffia e scappa / non trova riparo e si taglia / perché non sa dove sloggiare / tanto è indemoniata // estenuata si storce a sinistra e si posa / e quando si leva verso l’uscita indocile sbanda / e starnazza imprigionata // cecata s’inerpica e strapiomba / si rialza e stramazza / perché pure marciando in avanti è sghemba / sulla traccia che slemba bislacca // disarmata non è sciolta né pronta / né lascia impronta / e poi che non riesce a levarsi i peli / non dà né prende e si strapazza / e però non ha più niente sulla punta // enfiata e bianca si vergogna / perché sogna d’essere rosea / ma resta imbrogliata e unta // intossicata ha perso il piacere e il gusto / poi che adusto fu il nucleo della papilla / e più non riconosce manco camomilla // frastornata quando il tatto l’inganna / non capisce se rotola spongilla / o si dibatte su un pezzo d’anguilla / sicché s’annebbia e lacrima la pupilla // scorticata sguizza e ribatte / sale e scende per guidare il sorso oltre l’istmo / e dalle fauci alla faringe / con forza sospinge il boccone / che ogni tanto resta a galla nel palato / e viene vomitato // incatenata non si gloria dei suoi fiori / poiché ha finito per essere comune / e non è più figurata // straziata non è più sana né mala / è povera e non si fa vedere / per non essere smaneggiata // ricacciata si smuscola e affrena / e non ha cuore e si morde / tanto è diventata incerta bassa e purgata // arrotolata si scioglie dai drappeggi dell’ambiguità / sostenendo che è imperfetta e s’è involuta / sotto il ruggito del male / dell’oasi assetata e trista / sicché si attiene al particolare / senza pretesa di universale // insaziata non cessa mai di mostrarsi / anche se è tarda e non sa più / cos’è la solennità sonante / e sente che è stridente // tagliata e senza osso non è più tagliente / e dispera che l’uso sia ancora il suo signore / schiacciata al suolo si alza e si segue / e poiché volteggia ma non si snoda / e non può tirarsi fuori / implora d’essere affrancata da tanto rigore // legata non è più taglio malandrino di prima qualità / e si rammarica di non arrivare al mare / e tanto si smuove che articola infuriata // inarticolata fallisce e ciondola / nelle fiumare abbandonate / torna schietta e abbaia per troppa bestialità // screpolata non mastica né inghiotte / non è liturgica né sacrilega / è franca e bastarda e non se ne vanta / poi che è uscita dal corteo della vanità // sfrenata si srotola nella cavità e si sfessa / e non trovando il giusto appoggio non consuona / sicché s’affloscia sul pavimento / e fa fatica con la effe fessa / finché divien tremando muta sotto la volta crollata // straniata nella sua Tebe / non ritrova la casa con angoli e pareti / la lingua martoriata».

È una sequenza cinematografica questo poema, è un monologo teatrale che racconta una storia di donna da donna, mentre l’abilità e il talento si rivelano tra gli asticci tragici e le sonorità ritmiche di accenti assolutamente in avanti e che non permettono a nessuno di sedersi placidamente a meditare, piuttosto ad insorgere, alzandosi in piedi e persino a gridare. Non sarebbe stato possibile estrapolare versi, sarebbe stato togliere quella forza che caratterizza questo poema con tutto quello che descrive e dice anche del silenzio nelle pause bianche della carta tra strofa e strofa. La condizione femminile che s’incrocia con quella esistenziale della vita e della morte, senza che manchi l’ironia che sfocia nel sarcasmo dove nemmeno Dante si salva col suo Dolce Stil Novo: finché divien tremando muta, “e li occhi no l’ardiscon di guardare” quest’ultimo sostituito con: sotto la volta crollata. Semplicemente meraviglioso e stupefacente, vero ed adeguato. E il dialetto, in altre poesie, che s’innesta deformando altre parole per renderle più sonore, più incisive, più emotive, anche più vulnerabili.

Sono poemi quasi sempre lunghi e suddivisi in strofe, solo a volte numerate, di versi liberi non liberi, perché sempre assai controllati sia sul piano lessicale che fonetico e che fa di Jolanda Insana una poeta assolutamente performativa.

A volte sembra far capolino il prosastico ma che non ha nulla a che fare con la prosa mentre narra e riflette: «…  conosco il beneficio della festa e dei banchetti e volevo / dividerlo con chi seppe il maleficio di dissetarsi / all’altrui fonte come se fosse sua e l’abbandona sdesolata / rifluendo a un altro altrove dove spostare la sorgente …», da La parabola del cuore. Ed ecco la piccola chiosa di cui prima.

È che ogni tanto spuntano i piripicchi della presunta critica che utilizzano la patafisica come sinonimo di gioco, svuotandola di senso e di tecnica, ed il racconto come unica forma presente e possibile di poetica contemporanea, relegando la funzione e la ricerca di suono e di ritmo a mero decoro obsoleto. E sì che le avanguardie storiche e le neoavanguardie, fin dal surrealismo di Louis Aragon, hanno sempre eretto i loro monumenti sulle ceneri altrui, ma è anche vero, che gli epigonici, a cui attribuisco l’agonia degli epigoni, compresi anche nel sessantatreese, nel sanguinetese, oggi carenti di ismi e gruppi di appartenenza continuano a giocare, troppo spesso, soltanto con parole vuote.  E non finirò mai di ringraziare Edoardo Sanguineti per quell’’ese’ di sua invenzione, che dal poetese si è esteso fino al politichese che così orribilmente ci circonda. Come ho già riflettuto in una precedente recensione, questo periodo storico manca della massa come organismo sociale e politico ben definito – mi “diverto” a chiamarla matassa – e per questo motivo non consente, come ha ben detto Philippe Daverio, e già tanto tempo fa, il costituirsi di nuovi ismi a cui ancorarsi, ed allora si assiste anche a tentativi inadeguati di ricerca definibili soltanto di retroguardia, o di sconfinamenti buonisti in cui comprendere qualunque mediocrità narrativa in forma di poesia.

«… è un reticolo la rima / e volutamente interrotto è l’arco delle sopracciglia …». Da La sottile sostanza.

A volte capita anche che i versi si avvicinino agli aforismi, a volte ai proverbi, a volte a minime filastrocche che mi riportano alle Fiabe italiane curate da Italo Calvino: «… a ogni amico che perdo / è scalino che scendo …»; «… la morte / come le santocchie / ama dio e fotte il prossimo …»; «… mìscola milla mìzzica / che stracchìme di scatafascio / mette in scena la pezzente / che ci scippa peli e denti …». 

Insomma l’alto e il basso, per un dire abusato, sono piattaforma per l’ironico e il tragico, la carezza e l’invettiva. Da Il Collettame, il titolo è Hai detto poeta?: «… ma il cor mi trema e bùccina / così mi fermo alla berlocca e berlingo meco bestialissimamente // non distinguo tra pésca e pèsca / e così quando vado a pescare / sconfino dalla pescaia al pescheto vicino». Solo per dire che un gioco così sottile e variopinto, anche tra suono e ritmo, mi conduce per mano nel non distinguere che diventa un curiosare nelle differenze, e mi fa cercare, anche trovare. 

Napoli aprile 2025