Tra conservazione e conservatorismo. L’uso della lingua italiana.
di Mirella SAULINI
Forse sono una conservatrice, anche relativamente alla cosiddetta evoluzione della lingua. Ad usare per me l’aggettivo conservatrice fu il prof. Mario Medici, uno storico della lingua italiana, scomparso ormai da molti anni, sotto la guida del quale studiavo allora le parole e le espressioni del linguaggio sportivo, cinematografico, teatrale e simili acquisite dalla lingua italiana, parlata e scritta.
Fanno ormai parte del nostro bagaglio linguistico sia espressioni come «stare in panchina» o «essere in pole position» delle quali tutti, non soltanto gli sportivi, comprendiamo il significato anche se oggi raramente capita di sentirle, sia espressioni come «l’ultima spiaggia», metafora drammatica alla quale probabilmente più che il romanzo, il cui titolo italiano è appunto L’ultima spiaggia, scritto nel 1957 da Nevil Shute, giovò il film, dal titolo omonimo, diretto due anni dopo da Stanley Kramer. Accanto alle espressioni – forse prima di esse – ci sono le parole; molte, per esempio, ne dobbiamo al teatro: spettacolo, sipario, sceneggiata, pantomima, burattino, marionetta e numerose altre.
Primo passaggio l’uso, solitamente con funzione polemica o espressiva, da parte dei giornalisti, anche politici; ad esso segue il nostro uso quotidiano, un uso che spesso ignora l’origine non tanto delle parole più comuni, quanto delle espressioni. L’ultimo gradino, una sorta di ufficializzazione, è la registrazione nei dizionari e nei vocabolari; per esempio, nel Vocabolario della Lingua Italiana di N. Zingarelli, alla voce spiaggia leggiamo «L’ultima s., (fig) l’ultima possibilità, l’ultima speranza». Il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di M. Cortellazzo e P. Zolli differisce un po’ e precisa la data della prima registrazione, nello Zingarelli minore, della locuzione: «Loc. ultima spiaggia ‘momento conclusivo della vita intesa come una lunga navigazione; ultima possibilità’ (1973) Zing. min.». Ottimo il Vocabolario Treccani online, che spiega l’origine della locuzione, facendola risalire al romanzo e non al film.
Quando lavoravo con il prof. Medici, guardavo con diffidenza tanto all’uso delle locuzioni acquisite quanto a quello, spesso esagerato, di alcune parole acquisite. Ancora oggi non amo il parlare figurato, sono però meno conservatrice. Diciamo che mi sono arresa all’evidenza: volere un lessico fermo nel tempo sarebbe antistorico, forse anche un po’ stupido. Fatta eccezione per il turpiloquio, ben vengano nuove parole, anche quelle che prendiamo dalle lingue straniere. Se diciamo o scriviamo, senza usare più il corsivo, obtorto collo, in primis, oppure film e bar, perché non dovremmo dire, per esempio, computer, andando a cercare nel nostro italiano chissà quale espressione, magari prolissa? Il farlo sarebbe un voler conservare esagerato, sarebbe quel genere di conservatorismo cieco e negativo sul quale Erasmo da Rotterdam nel Ciceronianus (1528) ci diede a suo tempo una bella lezione.
Non bisogna però cadere nell’errore opposto. Esistono infatti alcuni limiti all’acquisire e al rinnovare; uno di essi è quello posto della correttezza grammaticale e sintattica.
A tutti noi è capitato di sentire, guardando la televisione o ascoltando la radio, espressioni che fanno sobbalzare alcuni, forse pochi, e lasciano completamente indifferenti altri. Una di queste mi suscita un vero e proprio moto di ribellione; si tratta di dovuto/dovuta da, usata al posto di dovuto/dovuta a. Non sono intercambiabili: quando la frase corretta è, per esempio: «Il caldo è dovuto all’anticiclone…» non possiamo certamente dire: «Il caldo è dovuto dall’anticiclone…». Il significato della frase cambia, sfiorando addirittura l’assurdo e il ridicolo.
Che cosa dire dell’uso dell’accento e dell’apostrofo? Perché si sente comunemente pronunciare persuàdere, se il verbo deriva dal latino persuadēre della seconda coniugazione che come tale – ce lo potrebbe assicurare anche un mediocre studente del ginnasio – si pronuncia accentando la penultima e, non solamente in latino, ma anche in italiano? Dunque persuadére!
E che cosa dire di poco, trasformato in pò e non correttamente eliso in po’? Con quest’errore cominciano ad affacciarsi i motivi. Ormai si scrive prevalentemente al computer (evito di aprire il capitolo social, WhatsApp e quant’altro) e, battendo sui tasti, scrivere pò richiede due sole battute, mentre po’ ne richiederebbe tre. Quale spreco di tempo e quale scarso senso pratico! Meglio semplificare.
Una presunta volontà di semplificare e di sveltire sembra all’origine di molti dei cambiamenti avvenuti nell’uso della lingua italiana, tanto di quella parlata che di quella scritta. Un motivo sul quale sono a dir poco perplessa. Certamente esprimersi, come molte persone, anche di buona cultura, fanno, ricorrendo, per esempio, ad un uso eccessivo di intercalari quali praticamente o cioè non richiede di certo lo sforzo richiesto da un parlare più controllato, ma non mi sembra che sia più semplice e più rapido; senza voler tener conto della sensazione, a dir poco sgradevole, che la frammentazione del discorso risultante da quell’uso può causare a chi ascolta, anche se non è un interlocutore. Non per niente, talvolta verrebbe la tentazione di domandare alle persone: «Ma ti ascolti quando parli?». Penso proprio che ci guarderebbero sbalorditi, senza rispondere. Forse tutti noi, quando parliamo, ci sentiamo, senza però ascoltarci; allo stesso modo, tutti noi sentiamo, senza però ascoltarli, gli altri.
Con molta probabilità, la volontà di semplificare, o meglio, diciamolo pure, la pigrizia mentale che porta ad evitare ogni impegno intellettuale, ogni sforzo, è all’origine non soltanto degli errori che abbiamo fin qui segnalato, ma anche della povertà lessicale che caratterizza oggigiorno tanto la lingua parlata quanto quella scritta.
Che cosa risponderemmo noi a Michele Murri, il personaggio non del tutto sano di mente, ma a suo modo lucido e intuitivo, protagonista di Ditegli sempre di sì, commedia scritta nel 1928 da Eduardo De Filippo, allorché ripeteva come un mantra: «C’è la parola esatta, perché non la dobbiamo usare?». Risposta saccente, pretenziosamente colta: «Si possono usare i sinonimi!». Ma non è vero, c’è sempre una sfumatura di significato a distinguere i cosiddetti sinonimi. Risposta corretta: «Non solo non la usiamo, ma non la cerchiamo perché sceglierla non c’interessa. Tanto, l’importante è parlare, magari urlando per imporsi sull’altro. Chi capisce, capisce, chi non capisce…». Cosa c’è da capire? Secondo me soltanto una cosa: che il pressappochismo, la sciatteria, la superficialità sono imperanti, e – per inciso – non soltanto nel parlare e nello scrivere.
Chi è responsabile di questa deriva linguistica, chiamiamola così? Non voglio puntare il dito, atto decisamente sgradevole, ma di certo la scuola, di ogni ordine e grado, ha le proprie responsabilità. Se tutti i maestri facessero ripetere ai propri alunni, fino alla noia, lo ammetto, la differenza che c’è tra il filo, i fili, la fila, le file, le fila, come faceva la mia maestra, che mi permetto, ricordandola con riconoscenza, di citare con il proprio nome, Laura Di Girolamo Giannuzzi, non sentiremmo fior di giornalisti (si fa per dire) riferire, per esempio, che un certo diplomatico sta tessendo le file (sic)…
Non voglio essere fraintesa e non intendo ‘sparare a zero’ sui giornalisti in quanto tali; ce ne sono infatti molti, mi permetto di citare per tutti Antonella Rampino, che non trascurano l’attenzione alla lingua. Cerchiamo di essere tutti più attenti, persone comuni, docenti, politici, giornalisti….
Per chiudere, torno a muovermi nell’ambito all’interno del quale mi sento più a mio agio, quello teatrale o, per meglio dire, quello del teatro tragico. Come sappiamo, il limite non è un semplice ostacolo che si può, con maggiore o minore sforzo, superare; esso è per definizione invalicabile e, cosa che ci hanno magistralmente insegnato i tragici antichi, quando l’eroe prova a cimentarsi, quando l’eroe sfida il limite, scoppia la tragedia ed essa lo conduce all’inevitabile catastrofe.
Qualcuno di certo rabbrividirà. Parlare e scrivere male è dunque una tragedia, è dunque una catastrofe? Non esageriamo; meglio esprimersi abbondando in intercalari o usando una sintassi elementare e un lessico inappropriato che rimanere vittime di un terremoto o morire per una pallottola vagante sparata da «un chissà chi di chissà dove» (cito dalla versione italiana del film Il grande Gatsby, diretto nel 1974 da Jack Clayton); ci mancherebbe altro! Chi di noi considererebbe al pari di un eroe colui che rimanesse ucciso da… una costruzione sbagliata? Non scherziamo.
Sottolineiamo però come quello che, con una brutta parola di nuovo conio, viene chiamato benaltrismo, nel nostro ambito non funzioni. Ci vorrebbe altro, di certo, per tornare a parlare e scrivere non magistralmente, ma semplicemente bene; a questo punto, è meglio lasciar perdere i cosiddetti massimi sistemi, vale a dire i traguardi fittizi perché tanto alti quanto irraggiungibili, e cominciare a curare un po’ di più il nostro parlare e il nostro scrivere, magari premendo, obtorto collo, tre tasti e non due per scrivere correttamente po’ e non, erroneamente, pò.