Guida Galattica per i Lettori | Marzo 2024

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AMICO ROMANZO

Una storia in bianco e nero

di Federica CAIAZZO

Nino Haratischwili, La luce che manca, Venezia, Marsilio Editori, 2023

«Quale storia è meritevole di essere raccontata: quella del traditore o quella del tradito?» 

La domanda appare come un’epifania, una rivelazione improvvisa e inaspettata, come se, dopo aver attirato e sedotto il lettore che le è rimasto fedele per oltre seicento pagine, la narratrice arrivasse dritta al cuore della storia: il tradimento. Continua Qeto, a cui è affidato il ruolo di voce narrante: «Un giorno, seduta in giardino a godermi lo splendore dei miei fiori, ho capito che in fondo si tratta di un’unica storia affrontata da due punti vista opposti, restituita dalla sintesi delle sue versioni […].» La luce che manca è dunque la storia di un tradimento, ma chi o cosa venga tradito non sarà chiaro neppure alla fine. La storia che Qeto ci racconta è una storia unica, tuttavia narrata da più punti di vista. È una storia che procede a ritroso e ha nella tensione e nella mancanza i suoi elementi costitutivi. 

Siamo a Bruxelles, ai giorni nostri, e, in occasione di una mostra fotografica, le tre amiche Qeto, Ira e Nene si ritrovano a distanza di vent’anni: sono superstiti, sopravvissute ai dolori della vita, ma ancora legate profondamente da una giovinezza trascorsa insieme, tra le strade di Tblisi, proprio mentre la Georgia costruiva a fatica il proprio futuro nell’era post-sovietica. La crescita delle protagoniste va di pari passo con quella del loro Paese, in una continua proiezione delle storie nella Storia, proiezione che aveva caratterizzato anche il felice romanzo di esordio di Nino Haratischwili L’ottava vita

La retrospettiva fotografica, a cui le tre amiche prendono parte, è dedicata a Dina, quarta componente del gruppo, morta tragicamente. Dina, determinata e libera, avventuriera e appassionata, è stata testimone, attraverso le sue fotografie, delle trasformazioni individuali ed epocali della Georgia durante il passaggio storico tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo; in bianco e nero ha rappresentato la vita in un quartiere difficile di Tblisi, dove vigevano le regole della violenza e della coercizione, della povertà e delle dipendenze. Questo quartiere, o meglio il cortile di vicolo delle Vigne, è il punto di partenza di ciascuna delle esperienze vissute dalle protagoniste: la loro prima fuga all’Orto botanico, i primi amori, i primi litigi, le prime faide tra bande locali, e poi le proteste dei georgiani contro il governo e la guerra in Afghanistan, e le perdite e la follia e, sopra tutto e tutti, l’amicizia.

L’assenza di Dina grava sui ricordi di Qeto, sottintende una rottura, un conflitto, che sarà via via chiarito nel corso della narrazione e che riversa sulle pagine un velo di attesa, di tensione e di incertezza. L’espediente narrativo è fornito dalle fotografie della mostra, che Qeto seleziona e osserva una ad una talvolta col distacco di un critico talvolta con intenso coinvolgimento. Il lettore, dunque, insieme alle protagoniste, viaggia tra passato e presente, rievocazioni e scene in presa diretta. 

Sebbene tale oscillazione dia dinamismo alla storia, l’espediente delle fotografie e della retrospettiva  risulta, in alcuni casi, forzato. A tenere saldi i filoni narrativi concorre in maniera determinante la prosa di Nino Haratischwili, che scorre chiara e sostenuta, la storia avvince col suo incedere sospeso, teso, emotivo. La forza del romanzo è, inoltre, nei personaggi femminili, sia principali sia secondari, che rifulgono nonostante il problematico contesto sociale in cui vivono, grazie alla loro capacità di ribellarsi e di sopportare, di partire e di restare, di cambiare pur restando ancorate al passato. Leggere questo romanzo alla luce della storia recente, della guerra in Ucraina e in Medio Oriente, spinge il lettore a interrogarsi sulle dinamiche che costantemente dominano la Storia, e sull’iniqua e crudele condizione in cui versano quei luoghi, ora come allora martoriati, disperati, senza pace. 

La domanda iniziale resta senza risposta, ma, una volta concluso il romanzo e chiusa l’ultima pagina del libro, un dubbio fa capolino, sussurrato, esitante: che sia forse la speranza la vera tradita e traditrice della storia?



SIPARI APERTI

Totò l’inimitabile, ovvero La formazione di una maschera

di Annamaria FERRENTINO

Totò. Des origines à l’original. La figure d’Antonio de Curtis dit «Totò» dans le cadre de la dramaturgie comique

Ad un giornalista, che chiede come sia stato possibile che in un’austera genia di origini nobili sia nato un comico, Totò risponde: “C’è chi nasce gobbo, storto, io son nato comico”, riconoscendo la sua come una condizione originaria ed ineluttabile. Essere nato comico, infatti, vuol dire riunire in sé l’assurdo degli opposti, riconoscere che il motore primo della comicità non è altro che una profonda lotta con la vita e contro la morte. Così come quando Vittorio De Sica dice del suo “L’oro di Napoli, che vede nel cast numeroso anche Totò: “Il mio film è una commedia e per questo l’idea di morte è costantemente presente in filigrana”. 

Ancora, vuol dire essere consapevoli di avere una sorta di superpotere, che permette, ad esempio di mostrare impavidamente il ridicolo di uno spaventoso nemico pubblico come Hitler, che Totò imita nello spettacolo di rivista del 1944 “Con un palmo di naso”. Vuol dire, particolarmente, reinventarsi continuamente avendo come punto di partenza la propria maschera. È questa l’attività distintiva del comico, Pierpaolo Pasolini ce lo ricorda, proprio parlando di Totò: “L’attore comico crea se stesso, inventa se stesso, quindi compie un’operazione poetica, artistica, di carattere e livello estetico e non semplicemente comunicativo e strumentale”. 

Il volume di Elodie Hachet, pubblicato per Éditions Mimésis nella collana di Cinema, nel 2023, dal titolo “Totò. Des origines à l’original. La figure d’Antonio de Curtis dit «Totò» dans le cadre de la dramaturgie comique”, indaga, per l’appunto, l’operazione poetica che è la formazione e la reinvenzione della maschera incarnata di Totò, nelle sue stratificazioni di miti primigeni del popolo napoletano e dell’incarnazione della napoletanità e di tradizioni e prassi teatrali. La pubblicazione è il frutto della densa ricerca di dottorato iniziata nel 2017, cinquant’anni dopo la morte dell’attore napoletano, presso l’Università di Paris 8 Vincennes Saint-Denis e in co-tutela con l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, sotto la direzione del Professore Augusto Sainati. 

L’attore napoletano negli anni è stato eletto, a malincuore più dall’iniziativa di privati cittadini che dalle istituzioni, nella schiera dell’olimpo partenopeo e la sua effigie ricopre le strade di Napoli e non solo, dalle attività commerciali ai murales nel suo quartiere di origine, La Sanità, o nei Quarteri Spagnoli, diventando mito etimologicamente inteso, ovvero narrazione della città e della napoletanità. È singolare, dunque, leggere del mito da una focalizzazione che non ha vissuto e introiettato tale mito e che, di conseguenza, non ha timore di scendere in profondità desacralizzandolo. Elodie Hachet, infatti, ha raccontato in occasione di un seminario, di aver conosciuto Totò per caso, ad una cena a Parigi da amici napoletani, che avevano portato con sé proprio un’effigie dell’attore. Da quel momento non lo ha più abbandonato e l’inaspettata scoperta si è rivelata decisiva per il suo percorso accademico. 

Nel volume si incontrano due prospettive: quella prettamente contestuale e storica, nella terza parte del testo, dedicata al dialogo tra l’attore e differenti realtà del suo tempo, come il Neorealismo, il sodalizio con il regista e intellettuale Pasolini o la complessa attività cinematografica durante il Fascismo; parallelamente l’approccio di Hachet è precipuamente multidisciplinare, facendo ricorso al carnevale come categoria antropologica ad esempio, alla gestualità come mito fondativo della città di Napoli o ancora all’incarnazione della marionetta futurista da parte dell’attore napoletano.

La studiosa scandaglia le matrici alla base della costruzione artistica unica della “masque incarné” che è Totò, partendo dall’imitazione di Gustavo De Marco, l’ispirazione petroliniana, il ruolo centrale della Rivista. 

L’artista, ci ricorda Elodie Hachet, per la sua caratura è capace di dialogare con personaggi comici internazionali monumentali, quali Chaplin e Keaton, pur vivendo un momento della storia del cinema differente e distinguendosi per una peculiare tendenza metamorfica. Mentre Keaton muore in corrispondenza dell’avvento del sonoro e Chaplin perpetua la strada del muto, Totò si trasforma, senza obliare l’attività teatrale che fino a quel momento ha coinciso con la sua carriera artistica. Traspone i meccanismi del Music Hall al Cinema, donandogli tridimensionalità e reinventando continuamente la sua maschera, tanto da essere lui stesso soggetto di gran parte della propria numerosa filmografia. 

Come Jean A. Gili sottolinea nella prima introduzione del volume, il testo di Hachet costituisce una tappa fondamentale per la conoscenza di un artista dalla personalità unica come Totò in Francia, ma non solo. L’autrice, infatti, senza farsi intimorire dal dialetto, attraverso analisi filmiche di alcune delle scene che maggiormente hanno segnato la sua carriera, legge l’attore in tutte le sue dimensioni, dall’irridente corpo esplosivo, alla lingua giocata, al fine di cogliere la peculiarità della sua maschera. La seconda introduzione è firmata da Elena Anticoli de Curtis, la nipote dell’attore, che ha incoraggiato la studiosa nella sua ricerca e che continua quotidianamente la battaglia intrapresa dalla madre per promuovere l’iniziativa di un museo dedicato a Totò nella sua città natale. 

Che il volume possa essere un ulteriore tassello in tale battaglia e che possa contribuire alla diffusione e valorizzazione dell’artista anche oltralpe!



COME SUGHERI SULL’ACQUA

ZUM-BA-BA

di Ariele D’AMBROSIO

Zum-ba-ba

Ho preso tra le mani questo piccolo libro, libro leggero dai colori freschi e caldi di panna e di nuvola. È un libro di poesie. 78 pagine, 13 euro, costa poco. Come sempre lo guardo, lo annuso. La grafica che lo rappresenta mi appare elegante, assai sintetica, essenziale. Leggerò poi essere di Claudia Ferrari. Brava per la capacità anche di usare linee come fili che sembrano uscire dai margini della copertina per andare a cucire un altrove. Leggo il titolo, Versi d’amore erotico per Nalie Zumab, e quando leggo erotico, mi fermo sempre perplesso. Solo Patrizia Valduga è tra le poche che su questo tema mi ha convinto. Ma non mi voglio far condizionare da preesistenti esperienze, né partire prevenuto. Natalie poi è un nome francese che mi conduce subito a quello splendido film “Il favoloso mondo di Amélie”, e subito con una rima che mi spinge a pensar bene. Natalie è natalis, il Natale, la nascita, e mi mette di buon umore e che legato a questo strambo cognome Zumab, tra l’oriente ed una inusitata vibrazione sonora di labbra, mi mette persino allegria.

Vado quindi a leggere la poesia in copertina: «Nel passaggio / dall’infusione al lavaggio, penso / e col pensiero vago: / ma come hai fatto Natalie, a entrare nella mia vita? / Risposta scema, dall’ago.». Il quarto verso è spostato un po’ verso destra, ma accenneremo poi del lavoro anche grafico della poesia contemporanea: la posizione del verso all’interno del testo e del testo all’interno della pagina vuota. Rileggo, e tutte le perplessità sulla poesia erotica vanno via, spariscono. La metafora mi sorprende, l’uso di un certo vocabolario è assolutamente spiazzante. È un bel testo, una bella e raffinata poesia.

Poi come sempre vado in quarta di copertina e leggo le poche righe su Mario Esposito: è giovane, – i poeti non conosciuti, anche a cent’anni, sono chiamati giovani poeti, che vuol dire emergenti, alle prime armi: mi viene da ridere – ha quarantaquattro anni, “è nato a Napoli, vive a Milano, dove lavora in pubblicità”. E già qui mi fermo a pensare sul rapporto tra pubblicità e poesia di cui parlerò poi. Continuo a leggere: “Nell’aprile del 2021, ha scoperto di essere affetto da Sclerosi Multipla.”.

Mi si apre un mondo, il mio mondo, quello di essere stato per tanto tempo medico ospedaliero, clinico medico specialista in medicina interna, e con la passione per la poesia, la canzone ed il teatro. Per questo ho da sempre indirizzato i giovani medici verso letture che prescindevano dai testi esclusivamente scientifici e di settore, leggere altro – poesia teatro narrativa –, per meglio rapportarsi al malato, capirlo oltre l’organo colpito, ed allenare così la loro empatia, bagaglio anch’esso necessario e imprescindibile, che attraverso l’anamnesi e la visita medica, insieme producono sempre una più precisa diagnosi ed un migliore indirizzo e risultato terapeutico. E mi perdonino i lettori questa breve divagazione personale, coerente però con quanto vado e andrò a scrivere. Perché Nalie Zumab è il Nalizumab, anticorpo monoclonale, farmaco che tra i vari, cura la sclerosi multipla, malattia autoimmune.

Subito penso alla capacità del poeta e della poesia di mutare con un guizzo lessicale, un dolore in amore. Sorprende come alla creatività sia bastato dividere un vocabolo in due, aggiungere una piccola ‘e’ per trasformare in un nome e in un cognome il titolo di un farmaco. Ma non solo, trasformare un prodotto chimico in una donna che lo penetra e lo cura. Qui un percorso d’amore che mi ricollega a questo splendido verso di Gregory Corso che recupero in parte da una sua memorabile poesia intitolata Matrimonio: … l’amore per me è strano come portare scarpe. Ebbene sì, perche è in queste scarpe che identifico il percorso, il cammino che Mario Esposito ha già compiuto con questo libro, ricucendo in modo sorprendente la malattia alla vita e all’amore, e prendendo anche in giro la morte.

Il cucire col filo che riunisce il taglio, la faglia, la dicotomia. E l’arte della poesia ha fatto sì che questo avvenisse per me tra medicina e umano, ed ora, per Mario Esposito, tra malattia e vita. E questo filo è fatto col Kinzugi che ripara e ricongiunge con l’oro sulla lacca urushi, per dare splendore alle ferite, all’imperfezione, impreziosendole senza dissimularle, nella bellezza di nuovi intrecci e nuove strade. Il Kinzugi dell’ironia e del gioco, della leggerezza che capovolge il tema e lo trasmuta.

«Il nostro amore è nato lì, / in una sala / d’ospedale. // Mia porno-Natalie.», e subito mi sono chiesto del perché il titolo del libro parla d’amore erotico, mentre in questa poesia introduttiva Natalie diventa porno. È sempre la poesia che ribalta la bruttezza pornografica della malattia – bruttezza perché il male sviscera l’interno nella sua cinica crudezza, in cui anche la dignità ed il pudore si perdono e si spezzano –, per approdare alla bellezza dell’eros che da sempre combatte τάνατος con la gioia della vita e della nascita.

Ma lungi da me medicalizzare questa presentazione. Troverei solo ovvietà nel cercare sottolineature alla dimensione auto terapeutica della scrittura tutta e delle arti tutte. Ed allora mi fermo qui, e subito elenco le parti di questo bel libro: Prima parte  – Ventotto Poesie Sporche; in conclusione per la ventinovesima;  Seconda parte – Dieci Volte Ti Amo con le sue dieci poesie; Dopo la fine – Salomè Zumab con la sua unica; Beyond con le sue otto pagine di poesie; un P.S. finale.  E subito ne elenco le principali caratteristiche, per una poesia costruita col talento di una τέχνη approfondita e solida: l’attenzione al ritmo serrato con spezzature e accapo sapienti, lo spiazzamento di senso, l’attenzione agli spazi vuoti, l’uso delle rime, quest’ultima, a mio parere, rilevante se non predominante.

Erotic juise è il titolo: «ciò che mi rovina / è la mielina. // Signorina- / Natalie-medicina. // Ma tu sei dolce come il miele / e io voglio che mi buchi. // E che mi inondi tutto coi tuoi succhi.». La sillabazione si organizza in versi apparentemente liberi, ma si notino l’‘ina’ di rovina, mielina, Signorina, medicina e quell’‘ele’ di miele con ‘eli’ all’interno di mielina, ed ancora quell’‘uchi’ di buchi con ‘ucchi’ di succhi. E tutto giocato tra rime precise ed altre imperfette consonanzate. Gioco raffinato quindi, organizzato con grande perizia e che ancora una volta capovolge e muta la mielina – guaina isolante che avvolge le fibre nervose e che alterandosi provoca patologie – nel miele di una donna che penetra la vita con la sua dolcezza e la cura e la fa vivere. E in questo fare non dimentico Patrizia Cavalli che così ci dice: le parole esistono grazie a ciò che manca, ed ancora: Amor che fa la rima / sta un po’ meglio di prima. / Amor che rima fa / tanto male non sta.

«Al solo pensiero / sclero / divento scemo. / … // Per te signorina Zumab mi viene la / Scèmosi Multipla.». Sembra semplice ed è di una leggerezza straordinaria, lo sembra e lo è, ma contiene una fantastica complessità. Il poeta non sclera né scemunisce per la sclerosi multipla, il poeta s’innammora e scemunisce per la signorina Zumab e si “ammala” di Scèmosi Multipla. Che meraviglia! E quanto sorriso m’induce, mai amaro, persino allegro! Quale capacità ha questa poesia, che in una frazione minima di tempo si rapporta alla possibile scempiaggine comportamentale di chi s’innamora, e inventa la parola Scèmosi. Inventare parole. Chi più dei poeti ne è capace, e ricordando un caposcuola come Gabriele D’Annunzio con la sua “Rinascente” e il suo “Tramezzino” per citarne solo qualcuna, e rapportandomi anche al lavoro in pubblicità dell’autore. E sì, perche c’è un rapporto diretto tra pubblicità e poesia. Ambedue lavorano sulla parola, sul lessico, sull’immagine, sul suono, malgrado l’una ha il fine di una vendita e di un consumo, l’altra quello di aiutare e far crescere il mondo attraverso le domande e i dubbi che pone, e così testimoniarlo anche emotivamente. E poi questo rimbalzare continuamente tra l’amore anche scemo ma che ci fa nascere e la natura anche scema ché ci fa ammalare. Cosa dire, per ringraziare Mario Esposito.

Ecco perché all’inizio ho scritto che questo libro costa poco al confronto di quanto regala in termini di riflessioni e di emozioni. Ecco perché scrivo di come la poesia sia lontana dalla merce supportata dalla pubblicità. E non posso non citare Pasolini che ci parla della poesia come di un prodotto inconsumabile. Un’altra abilissima capriola che la poesia riesce a fare trasformando in elaborato inestinguibile, utopicamente per questo anche non vendibile, la merce di consumo che solo sa esprimere e generare la società del capitale. Anche qui il valore collettivo della poesia e che fa del poeta anche un intellettuale.

Ancora giochi raffinati: «… // Per te, Lady Zumab, io / Stra- / vedo // doppio. // Ma stravedo.», con gli accapo che non solo diventano spezzature ritmiche, ma che citando la diplopia – anche in nota – del vedere doppio, vedere sdoppiato, del vedere due volte, consentono di guardare oltre, e di stravedere. E mi soffermo sulla notarella a piè di pagina di Quando hai le tue cose «Ogni ventotto / giorni, ogni mese / hai le tue cose / ….», che ci dice che le infusioni di Natalizumab si possono programmare ogni ventotto giorni. Ed ecco che Natalie Zumab ci diventa ancora più corpo di donna, con il suo ciclo vitale e fecondo. E poi «… // (Colgo qui l’occasione / per dedicarti una canzone… / Ma prima, Signorina… //  Sarebbero / passati ventotto / giorni, facciamo // l’amore // come ci insegna il dottore // io fuori e tu dentro // e dentro e dentro e dentro) / (Così godo e mi calmo) // E penso sono / salvo.». Questo finale che con i suoi tre versi dà il suo ritmo con un settenario, un quinario ed un bisillabo per ancora capovolgere il sistema: l’uomo che accoglie la donna e il suo amore di guaritrice: e dentro e dentro e dentro, che ai giorni d’oggi ci fa pensare e non poco.

Una poesia che ci dona anche l’alternanza tra la verità amara del reale e l’ironia che si fa maestra per portarci nel profondo di una riflessione esistenziale: «… // Sexi Lady, / cosa credi che non sappia che in tutto c’è il bene e il male? // Io per capirlo bene / sono finito in ospedale.», e ancora magnifiche rime sdrucciole: «… // Mia musa porno-erotica / Fatina porno-eretica // (Ma purtroppo non sei l’unica / a essere / magnetica).», di tre settenari e un ottonario.

In Canzone d’amor porno c’è un verso che mi attrae e mi risuona: «… // Zum-ba-ba Zum-ba-ba  Zum-ba-ba… // …» e che si ripete, riprendendo la successione prima invertita della ‘a’ con la ‘b’, in un ritmo di danza «… // ZumabZumabZumabZumab…» nel finale della poesia Invisibile della sezione Salomè Zumab. Ma perché soffermarmi su questi versi sonori, e sull’ultima parte del libro Beyond, che vede il verso o il titolo, La vita dopo di te, – delle successive poesie che si riducono man mano in numero di versi: cinque, cinque, quattro, due, due, due, uno – scritto di grandezza superiore, in grassetto ed in basso alla fine della pagina? Perché qui si concentra tutta la lezione delle avanguardie storiche, delle neoavanguardie, nel tipo, nella disposizione e successione dei versi – ricordando Stéphane Mallarmé e Guillaume Apollinaire e tutto quello che ne è seguito dopo per noi attraversando il novecento, da Aldo Palazzeschi a Giuseppe Ungaretti fino a Giorgio Caproni, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, per citare i più visibili –, riportandomi poi, per le sonorità di quei versi,  persino allo Zaum del Futurismo russo che contemplava la ricerca del “transmentale” facendosi anche ponte con rituali popolari antichi. E per la grafica come non pensare al nostro futurista Francesco Gangiullo, ed alle neoavanguardie per il recupero del gioco in poesia che accoglie in sé l’ironia, l’allegria, prodotte anche dalle rispondenze delle iuncturae foniche e delle omofonie. Insomma per dire che questa poetica si colloca bene e in modo virtuoso sulla scia di quelle tradizioni.

Quanto sarebbe utile che questo piccolo grande libro fosse prodotto e sostenuto dalle case farmaceutiche del Natalizumab, e possa essere distribuito gratuitamente ai medici ed ai pazienti affetti da Scèmosi Multipla.

Un libro sapiente, amorevole, tenero, che induce alla carezza e all’abbraccio, e che fa di un farmaco un’entità antropomorfa capace di trasformare il dolore in sorriso, il male in vita, e invita –  che i lettori consentano anche a me di saltellare appena in questo piccolo gioco di parola – noi altri a capire che “l’Aiuto È la Cura”, tra poesia e scienza, tra scienza e poesia.

Napoli  dicembre 2023