Guida Galattica per i Lettori | Gennaio 2024

contenuti
- AMICO ROMANZO La sartoria di via Chiatamone di Sara CARBONE
- SIPARI APERTI L’esperienza “animale” dell’attore come smascheramento del soggetto. Un testo di Antonello Cossia di Antonio GRIECO
- COME SUGHERI SULL’ACQUA In punta di piedi di Ariele D’AMBROSIO
AMICO ROMANZO
LA SARTORIA DI VIA CHIATAMONE
di Sara CARBONE

L’opera prima di Marinella Savino, La sartoria di via Chiatamone, edita nel 2019 dalla casa editrice Nutrimenti e finalista al Premio Calvino 2018, è un romanzo che incrocia abilmente tre diverse dimensioni spazio-temporali e narrative: quella della scrittura, quella degli avvenimenti storici e quella della vicenda privata dei personaggi del racconto. Sembra proprio che l’autrice stia giocando una partita a tre con Adolf Hitler, il quale muove i fili dei fatti che accadono sullo sfondo, e Carolina, una sarta che vive e lavora in via Chiatamone a Napoli. Il romanzo si apre con due dichiarazioni di guerra, quella di Hitler alla Polonia e quella di Carolina alla guerra; tuttavia, la scrittrice ha anticipato entrambi con una dichiarazione “poetica” che inquadra immediatamente tempo, luogo, materia narrata e scelte stilistiche operate. Ponendo in esergo la celeberrima battuta di Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, «Ha da passà ‘a nuttata» e, alla prima pagina del racconto, la data 5 maggio 1938, seguita, non molto dopo, dalla frase «’A città er’ tutt’ annuccat’ a fest’», la Savino conduce il lettore nella Napoli del secolo scorso, dal giorno della visita del führer nel capoluogo campano fino alla fine del secondo conflitto mondiale, nelle maglie narrative che intessono trama della Storia e ordito delle storie, linguaggio della scrittrice e quello dei personaggi, oscillante tra l’italiano popolare e il dialetto.
Un laboratorio sartoriale in via Chiatamone fa da quinta alla vita della protagonista del romanzo, Carolina, una «semplice» che «non dava mai a vedere niente di quello che le passava per il cuore o nelle vicinanze». Presentata in medias res, punto di osservazione privilegiato dalla Savino, la quale indugia rarissimamente in scene in cui ella è assente, Carolina, solo in tarda età per i tempi, si è decisa a sposare don Gennaro, «quello che le aveva capovolto il cuore […] l’unico uomo capace di fermare quella guerra che aveva dentro»: dalla loro unione sono nati Anna e quattro figli maschi. Donna libera (l’etimo del nome “Carolina”, dice l’autrice, vuol significare proprio questo) e dotata di un forte senso pratico, la sarta di via Chiatamone è espressione di quella ingegnosità, di quella avvedutezza tutta femminile capace di mettere nel sacco, di gabbare una guerra “maschia” che ha puntato tutto sulla forza e ha ridotto i civili all’«urgenza del tutto». Convinta che la guerra assuma consistenza storica per i suoi effetti, che sia essa stessa più palpabile nelle conseguenze, ha provvidenzialmente intuito che il conflitto sarebbe durato a lungo e, dunque, il suo unico scopo diventa quello di portare tutta la sua famiglia «oltre la guerra». Ingaggia la sua partita contro la Storia, trafficando tra la sartoria e la cantina ancora prima della dichiarazione di guerra di Hitler alla Polonia: si fa un nome in città come sarta, è apprezzata per la qualità della confezione e dei tessuti che impiega nella realizzazione degli abiti, guadagna abbastanza, al punto da porre rimedio alle disavventure economiche del marito, e accumula conserve e provviste in cantina; per buona parte del conflitto, è accorta affinché, tra le entrate economiche della sartoria e i viveri in uscita dalla cantina, si registri un costante pareggio; alla fine del ’42, pur mantenendo in cuor suo una profonda avversione per Mussolini e il fascismo e conservando una dignità che «si piegava senza mai spezzarsi e continuava, malgrado tutto, ad andare contromano», si dimostra più pratica del “puro” don Gennaro che mai avrebbe teso una mano ai responsabili di tutta quella tragedia, e accetta di mettere a disposizione dei napoletani del regime la sua arte del cucito, visto che nessun altro in città può permettersi la confezione o la riparazione di un abito. La sartoria, da luogo fisico che consente una resistenza di tipo materiale attraverso i guadagni, diventa, col procedere del racconto, luogo di resistenza morale: a un certo punto, essa viene sacrificata per ospitare, assieme al resto delle stanze dell’abitazione di Carolina e don Gennaro, amici e parenti che hanno perso la casa con i bombardamenti.
La guerra è, innegabilmente, la vicenda segnalibro del romanzo; richiamata nelle diverse fasi del suo svolgersi, essa si insinua nelle vicende private dei personaggi fino a violentarne il pensiero e gli stati d’animo, come accade quel venerdì primo novembre quando, ancor prima che le bombe cadano sulla città, gli occhi di Carolina «non si volevano chiudere» perché «tutto, le veniva in mente […] tranne che il sonno». Il racconto del conflitto e dei disagi che da esso scaturiscono si avvale di una grammatica insolita, quella delle vicende sartoriali di Carolina e delle sue dipendenti: si passa dal confezionamento di abiti con stoffe preziose e ricercate prima della guerra, al loro restringimento nei primi mesi del conflitto, visto che tutta la popolazione tende al dimagramento; si procede, poi, con riparazioni e colletti da risvoltare quando le tasche dei clienti cominciano a svuotarsi, fino ad arrivare alla realizzazione di capi per i napoletani del regime i quali, a un certo punto, si vedono costretti a pagare in natura. La semantica stessa si fa racconto: il lessico della guerra viene assimilato a quello napoletano per cui i bambini, costretti a dormire in due nello stesso letto, si dispongono «cap’ e cor» e gli ordigni piovono dal cielo come «cunfiett’»; il lessico quotidiano, in modo speculare, viene corrotto da quello bellico per cui i numerosi bambini che, a partire dal ’43, si trovano nell’appartamento di via Chiatamone, costituiscono un «battaglione».
I maggiori effetti prodotti dalla reiterata violenza bellica sembrano essere due: la paura e il senso della perdita.
Se tutto è raccontato dalla prospettiva e dal sentire della protagonista, a partire da quella notte in cui le prime bombe cadono sulla città, Carolina e tutti i napoletani, ogni volta che corrono verso i rifugi in vista di un nuovo bombardamento, indossano la paura «per cappotto». Quella paura che infurbisce la gente, che «s’aveva piglià pe’ fess’» e che si trasforma in terrore, traducendosi sul foglio in una scelta stilistica coraggiosissima: la ripetizione ossessionante del verbo “correre”, presente, con diverse declinazioni, ben ventuno volte in una pagina e ventitré complessivamente se si considera il primo paragrafo della pagina successiva, produce nel lettore lo stesso affanno di chi nella storia sta correndo lontano dalla morte.
Quel senso di diminuzione, di perdita prima materiale e poi morale viene vissuto sia da coloro che sono rimasti a casa sia da coloro che sono impegnati nelle operazioni militari. In seguito a un incidente domestico, don Gennaro subisce l’amputazione di una gamba; per effetto di un bombardamento che le distrugge la casa, Irene, una ricamatrice, amica di vecchia data di Carolina, va a vivere con la sua famiglia in via Chiatamone e perde l’uso della parola. La perdita di un arto così come quella della parola e, con essa del pensiero correlato, incarnano insieme la privazione fisica e spirituale a cui condanna l’orrore della guerra. Luisella, la sorella di Carolina, a un certo punto, non riceve più le lettere del figlio Mario, partito per il fronte russo; nel gennaio del ’43, riceve un telegramma con il quale viene informata che di suo figlio non si hanno notizie per cui è considerato “disperso”: un disperso è una persona di cui «a un certo momento, ti avvisano le autorità, si [sono] perse le tracce», di cui si sono smarriti i riferimenti spazio-temporali del dove e del quando così come quelli identitari. Anche quando il “disperso” non diventa “caduto”, per tutto il tempo in cui non si hanno sue notizie, egli non esiste, la sua identità è sospesa, non riconosciuta.
Ma è proprio il tempo della guerra, quando è rotta ogni legge ordinaria, a essere un tempo sospeso; Carolina e don Gennaro, che «si diedero il voi e il don per tutta la vita», sono pronti, come tutto il resto dei napoletani, a licenziare temporaneamente il rispetto di ogni regola morale e civile, in nome della libertà e nella speranza di potere «fare fesso» il destino. Ricorrendo a un ritmo narrativo più serrato, la Savino racconta che, dopo il proclama di Scholl, il quale ha ricevuto da Hitler l’ordine di non abbandonare la città senza averla prima ridotta a un cumulo di «cenere e fango», Carolina e il marito, assieme a tutti i rifugiati in casa loro, lasciano l’appartamento di via Chiatamone e partecipano attivamente agli avvenimenti delle “Quattro Giornate” mettendo a ferro e fuoco la città e colpendo i tedeschi con armi di fortuna e olio bollente. Il ritorno insperato di Mario dal fronte così come quello dei protagonisti nella casa di via Chiatamone lasciano credere che «la vita [sia ritornata] al suo posto» così come le lancette dell’orologio e che Carolina abbia vinto la sua partita. Ma è proprio allora che il destino si prende la sua rivincita.
SIPARI APERTI
L’ESPERIENZA “ANIMALE” DELL’ATTORE COME SMASCHERAMENTO DEL SOGGETTO. UN TESTO DI ANTONELLO COSSIA
di Antonio GRIECO

Antonello Cossia è stato tra i protagonisti dell’evento Vita Immaginaria di Antonio Neiwiller 1948>1993 che si è tenuto alla Sala Assoli di Napoli (promosso da Casa del Contemporaneo e da Teatri Uniti e riproposto al Piccolo di Milano il 9 novembre) – quattro giorni (dal 19 al 22 ottobre) tra teatro, musica, arte – per ricordare il regista, attore, artista visivo napoletano a trent’anni dalla scomparsa. Neiwiller è stato un suo indimenticabile maestro e a lui, nell’ambito delle serate nel vivace spazio dei Quartieri Spagnoli, ha scelto di dedicargli un commosso omaggio con la performance Il maestro è nell’anima. Parole, musica e immagini con e per Antonio Neiwiller, titolo mutuato da uno dei brani più suggestivi di Paolo Conte, pittore e pianista di formazione Jazz che Neiwiller considerava tra i più originali cantautori italiani. La parte più intensa della sua pièce ci è sembrata quando, con umiltà e rigore attoriale, ha “riattivato” alcuni frammenti drammaturgici neiwilleriani – da La natura non indifferente (1989) o dal testo (quasi “un manifesto di poetica”) Per un teatro clandestino, che accompagnava, nel 1993, L’Altro sguardo, il suo ultimo spettacolo, di cui nel corso dell’evento è stato anche proiettato il video del Monologo di Neiwiller, realizzato dalla filmmaker Rossella Ragazzi. Ora, sul suo lavoro di attore – iniziato, tra l’altro, proprio con Neiwiller intorno alla metà degli anni Ottanta – Cossia ha pubblicato un piccolo ma prezioso volume, L’attore è l’animale. Artigianato teatrale tra natura corpo e metamorfosi (Iuppiter edizioni, prefazione di Marco Baliani e postfazione di Giulio Baffi, 2023), in cui ricostruisce il suo complesso percorso pratico-teorico dentro il teatro, a partire dai decisivi incontri con famosi registi – tra gli altri, oltre lo stesso Neiwiller, Reina Mirecka, Leo de Berardinis, Renato Carpentieri, Marco Baliani, Mamadou Dioume, Yoshi Oida, Germana Giannini, Carlo Merlo. Il suo maggior merito nella ricostruzione del suo vissuto artistico, è di aver ridato al comportamento attoriale un ruolo decisivo all’interno di un necessario processo di innovazione drammaturgica; una centralità, questa dell’attore, talvolta negata – come denunciò con amarezza Leo de Berardinis negli anni Sessanta – da una sperimentazione neoavanguardistica che tendeva (e in parte ancora tende) invece a confinarla ai margini della macchina scenica. Sin dall’inizio della sua riflessione, Cossia, quasi sulle sue tracce, ci tiene a sottolineare che nel tempo tutta la sua esperienza attoriale “si è arricchita con la cura e il rigore dell’artigiano che si dedica a fare e disfare il proprio lavoro, nella ricerca di un equilibrio tra le cose, che aiuti a rendere visibile l’invisibile, che altro non è che la magia del teatro”. Siamo qui, ci sembra, ad un nodo cruciale di un orientamento drammaturgico – per molti aspetti “ibrido”- che se da un lato, come abbiamo fatto cenno, rimanda al teatro di Leo e Perla, dall’altro ci ricorda il Neiwiller del Progetto Klee (1987), quando il poliedrico regista napoletano nei suoi laboratori non si stancava mai di raccomandare alla sua giovane comunità teatrale che l’arte dell’attore doveva cercare “l’oltre”, ciò che sta dietro lo schermo mimetico, per mostrare appunto – incrociando lo sguardo del pittore svizzero – “ciò che non vede”, l’Inesprimibile della nostra stessa esperienza umana, anche per evitare un preoccupante scivolamento del teatro verso un vacuo conformismo estetico. Particolarmente stimolante della sua investigazione è, poi, l’idea che in scena occorra ispirarsi – probabilmente pensando qui ad Antonin Artaud, secondo cui “il linguaggio puro sfugge alla parola” – “all’istinto, al grezzo mondo animale”. E, dunque, guardando al teatro come ad un atto essenzialmente esperienziale alimentato dagli esercizi, gli allenamenti, la fisicità della scena e del corpo, l’Improvvisazione. Un vitale approccio drammaturgico, insomma, questo di Cossia, che in qualche modo richiama alla mente quel lavoro sulle azioni fisiche che costituì la parte più vitale del laboratorio di Grotowski a Pontedera. Più avanti, nel capitolo Metamorfosi, egli ci ricorda anche che Mejerchol’d parla dell’“l’animalità in scena come un atto rivoluzionario”. Una citazione per nulla casuale, quest’ultima, perché rivelatrice di un comportamento attoriale fondamentalmente volto alla eliminazione dell’io, allo “smascheramento del soggetto”: e dunque “liberatorio”, perchè guidato dalla ferma convinzione che il gesto teatrale possa certo permetterci – come osserva Baliani nell’introduzione – di ritrovare un’animalità originaria, ma anche di riscoprire oggi, in questo tragico passaggio d’epoca, insieme alla estrema fragilità della nostra condizione umana l’Altro che è in noi, la parte più vera e segreta della nostra esitenza.
COME SUGHERI SULL’ACQUA
IN PUNTA DI PIEDI
di Ariele D’AMBROSIO

I BUCANEVE DELL’ALTROVE
con una nota
di Antonio Devicenti
Book Editore, 2023
Riva del Po (Fe)
pagine 224
euro 24,00
info:
https://www.bookeditore.it/libri/i-bucaneve-dellaltrove-di-rene-corona/
https://it.scribd.com/document/367304464/Biografia-Prof-Rene-Corona
In punta di piedi
Il fiore è il Bucaneve. L’Alrove è l’altrove. Sì, perché è in questo Altrove che s’incontrano le poesie di René Corona, con l’immagine attrattiva e attraente di Diego Donolato: il fiore e l’altrove. E sì, perché questo disegno-dipinto fa della copertina un piano assai raffinato sia nei colori sia nelle linee e che di fatto, spostandone la prospettiva, girando attorno alla sua cornice quadrata, ci regala il senso antropomorfo e geometrico del fiore che poggia su una base matematica di trasparenza lieve: il segno di un uguale che si allunga in parallele ed un punto subito dopo anch’esso quadrato, a divenire icone e metafora della poesia stessa, del senso e della struttura profondi che la stessa poesia porta con sé.
Nel risvolto destro di copertina leggo dell’autore docente di Lingua e Traduzione Francese presso l’Università di Messina e delle sue traduzioni dei poeti Gozzano, Caproni, Cattafi, Ripellino, Magrelli. E mi limito alla sfera dei poeti italiani citati, solo per dire che ne rilevo subito le scelte d’interesse e l’attenzione per poetiche precise che hanno segnato e segnano uno specifico virtuoso della poesia italiana tra ottocento e novecento, fino ad oggi.
Ma subito in quarta, e: «sulla punta dei piedi per non disturbare / per non intralciare il corso degli eventi / tacere tacere tacere / a che pro dire il proprio parere / nessuno ascolta e poi cos’è un parere? / … ». E mi ritrovo subito in armonia con chi ha scritto, con chi vive lo stesso contesto storico difficile ed aspro per chi pensa e dubita, e dubitando capisce forse di più, e comprende l’inanità del dire senza però avere il coraggio di non sperare nel viaggio. E la poesia continua: «… rinchiudersi nella stanza degli amici silenziosi / che attendono il loro turno / dove la polvere sembra celebrare le loro lodi / e aspettare con loro il taglio della torta / come da bambini / una bella porzione da portarsi via / per il viaggio / in punta di piedi». in punta di piedi, ed ecco il primo tratto che mi pare sia una delle caratteristiche di questa poesia: la levità della scrittura, insieme al tema dell’inquietudine: sentirsi insieme e soli nello stesso tempo, immersi nel doloroso silenzio che sovrasta ogni cosa: la difficoltà di comunicare, l’inutilità che spinge a cercarlo.
Centotrentaquattro poesie divise in: preludio in brutta per un quaderno di bella a righe; I. infanzie in bianco e nero; II. Quote musicali di solfa quotidiana; III. Il lucernario autunnale; notti bisbigliate; IV. scavate scritture gli anacoluti della memoria; i bucaneve dell’altrove; adieu. E mi soffermo per un attimo nell’indice, che indica a pagina 120 un titolo cancellato e riformulato: da una felicità malinconica a la malinconia della felicità, segue una malinconia felice. Un guizzo in questi tre passaggi che già, dalla scelta di questi titoli, ci orienta e c’indirizza e ci dà subito conferma del talento raffinato di René Corona. Perché con quella linea esplicitata di cancellatura – che per incapacità grafica riesco a tracciare solo come sottolineatura – riesce, con l’inversione dei vocaboli, con la trasformazione dell’aggettivo in sostantivo, ad espandere l’emozione di una complicità ossimorica e struggente verso la consapevole dimensione della perdita. Per recuperare poi quel felice nella poesia che segue: «… quel sospiro malinconico del sentimento di qualcosa / che puoi afferrare che stai per e che nello stesso istante / in cui lo sfiori è già distante un miglio come un’ultima pagina / che si gira nel libro che si chiude una tazzina che si rompe / un caffè che spegne tutte le luci delle candele e chiude // e così ci ritroviamo fuori nel freddo della notte austera e buia / senza più veramente sapere dove andare». Gli sbalzi di vissuto tra il libro ed il caffè senza che si usino i “come”, perché non c’è confine tra spazio e tempo, ma solo la contrazione di fotogrammi in un istante. E non è poca cosa riuscire in così “poco” a dire tanto, e con una semplicità solo apparente che maschera invece una complessità di pensiero e di forma. Qui, anche in questo, la capacità ed il talento di un poeta.
Libro spesso, pregno e corposo, con l’ottima ed esaustiva introduzione di Antonio Devicenti che sintetizza bene i vari aspetti di questa poetica che raccoglie le dimensioni del ricordo, dell’invettiva, della satira, della dicotomia cucita di un bilinguismo, italiano e francese, che appartiene al poeta, ed ancora le caratteristiche degli eserghi numerosi, i paesaggi dell’infanzia. Ma di cosa si può scrivere se non del proprio vissuto anche di studioso, ed essere testimonianza del proprio tempo?
Subito qualche esergo in italiano che mi sta a cuore, tra quelli in francese, inglese, spagnolo, tedesco: “Ciò che chiamiamo pace / ha solo il breve sollievo della tregua” da Notti di pace occidentale di Antonella Anedda; “Sono solo un poeta, un radar sotto i tigli. / Non sta a me rispondere. Io domando.” da Il colore del silenzio di Jan Skacel; “A tarda notte i treni / diventano parole.” da poesie di Marco Visconti. E non è esibire letture, ma solo dialogare con esse, con altre parole, farsi accompagnare in una strada simile, da compagni di vita e di scoperte, e questa poesia di René Corona la scrivo per intera, come dovrei riscrivere per intero le altre se lo spazio me lo consentisse, il titolo è exit: «il sasso che rotola sotto la mia scarpa sa / tutto il peso del dolore accumulato alla sera / sotto i balconi del cielo così tanto da titubare / con il rischio di inciampare e cadere / rotolando giù a mia volta capitombolando / e capitolando definitivamente da questa mia / assurda professione ingrata di essere umano».
Sfioro qualche analisi, il tempo di una recensione non mi consente altro, ed allora la perizia delle spezzature e degli enjambement, l’attenzione alla phonè con la î dall’accento circonflesso e l’uso di iuncturae foniche e omofonie ricordando l’asticcio di Giacomo da Lentini: «… / iene sciacalli varî vaioli peste con canotte / …», «sfila la folla falotica delle domeniche /… »; «… strambi strambotti apotropaici / …», «verso per verso / perverso il refuso s’insinua / fuso confuso refuso / …», «struscia striscia fiacco fiocco fico foco / faina del tuo sacco secco disse la farina all’acqua / metti su la polenta dài facciamoci un lento // …». I paesaggi dell’infanzia tra piante e uccelli ben definiti: l’oriolo, l’assiolo, la buglossa, l’euforbie, le tifacee, la borragine, la festuca. Il lessico che recupera parole non d’uso per una lingua da salvare, e che si traduce nella verità emotiva della parola stessa regalandoci il senso lucido del vivere: ringavagnata, cavagna, bruzzolo, apotecario, grimorio, falotica, antociani, circassiano, mirifiche, calaverna, iemale, bastingaggio, abituri, aggricciata, catafratte, occaso, ciangottano, sifolina, arrubinati, scilocco, quisquiano, trenodie, spigolistra, bubbolavano, caligando. Parole che lette all’interno dei versi, nella struttura del testo, ci trasmettono sonorità sorprendenti, impreviste e visionarie. Ed ancora le figure retoriche mutate in versi: «… / mentre le paronomasie da paroliere pantofolaio / …», «… / o forse solo sinestesie complicate dell’animo umano / …», persino un titolo: anacoluti della memoria, ed ancora «… / calamita di metafore e allitterazioni / iperbati della memoria / ipallagi e ossimori anche a buon mercato / che importa / …», e trovo che questa invenzione approfondisca ancora una volta, anche emotivamente, la riflessione, il suono, l’immagine all’interno del testo. Composizioni “libere” che contengono in Esther Williams due versi fatti di un doppio settenario e di un quinario più un settenario con rimalmezzo in consonanza, solo per fare un fugace esempio: «… / come acqua di torrente che scorre fino al fiume / e poi giù al mare ma alla fine si perde / …». Tutto questo mentre «… / i versi zoppicarono / sotto il cornetto vuoto nel cielo biancastro / la musa ti sorrise non te la prendere / poeta / prima di tornare nel tuo universo piovoso e parigino / troverai il modo per aggiustare l’insieme / ascolta le voci amiche della solitudine e del bosco / anche qualcuna telefonica / quando la linea non è occupata dal quotidiano invadente // …».
Ancora ricordi di vita che raccolgono nomi del proprio tempo e dei propri incontri: canzoni, versi, cantori, poeti, tra nostalgie che si fanno leggère: «… / una sonata di Schubert o di Mozart / e rondini sotto il tetto // … comperato l’ultimo ellepì di Bob Dylan / o una ristampa di Leclair / ascoltato in silenzio Bllie Holiday e Otis Redding / e alla vecchia radio le cantate profane di Bach // …», «… / poi alla stazione bere un caffè / ascoltare Moustaki lo straniero / e leggere Linus e a seconda dei giorni difficili / sentirsi un po’ Linus un po’ Snoopy / e il più delle volte Charlie Brown / intanto aveva ripreso a nevicare / …», «… / amore che vieni amore che vai / amor ch’a nullo amato amar perdona / vuol dire non dire mai mi dispiace / sai», e se la vita non fosse altro che un paradiso di bugie? «… / picnic con le canzoni di Nino Ferrer / non so se sia vero ma qualcosa forse c’è / …», «… / intanto il vecchio attore della compagnia / striscia lungo i marciapiedi / e qualche volta declama versi di Shakespeare / e prose di Čechov / …», «… / altri con le parrucche da Marx Brothers / incendiarono di risate le platee del paese / la Carrà locale ex Crazy Horse cavallina storna locale / alzava la gamba fino al lampadario / …», «… / tu come Ginsberg e Kerouac sai che vivere è / dire addio in ogni momento / un lungo addio aggiungerebbe Philip Marlowe //…», «… / con endecasillabi zoppicanti / e quartetti di Dvorak // …», «… / e ascolta alla radio Caterina Valente ballare il cha-cha-cha / …». Ed ancora Zivago, Roger Nimier, James Dean, Georges Perros, Montaigne, Brassens, Eschilo, Anacreonte, Prévert, Kurt Weill, Cardarelli, Saba, Brandys, Andrzej Szczypiorski «… / … (io stesso avevo / avuto difficoltà a scrivere correttamente quel nome) / …», e tutto mentre incontriamo Leopardi: «… / e si ripara dal vento senza guardarti mai / negli occhi suoi ridenti e fuggitivi // …» ed anche Baudelaire: «… / rimanevi solo davanti alla tua tazza di caffè / con i fiori del male in una tasca / …».
M’intenerisce «non si dovrebbe mai dare retta ai morti / con i loro ruscelli pieni di diamanti gioiosi / le loro albe mirifiche / mentre invadono i nostri silenzi //… », e mi sembra che questi versi del XXI secolo dialoghino perfettamente con quelli del mio adorato Pascoli: … // Bada, che vengono i morti! / i tristi, i pallidi morti! / Entrano, ansimano muti. / Ognuno è tanto mai stanco! / E si fermano seduti / la notte intorno a quel bianco. // … . E m’intenerisce quel «… // siamo foglie di ulivo secche / sotto il passo del viandante solitario / scalpicii // …» perché quello “scalpiccio” era la voce di mio padre che mi diceva D’Annunzio e il suo settembre. Anch’io dialogo con il poeta che leggo e che penetra nei miei ricordi con la sua narrazione mutata in racconto, perché la sua scrittura diventa parola e voce che mi parla vicino.
Ma dove posizionare queste poesie e la poetica che esprime. Lungi da me costruire quadratini e gabbiette. Questo periodo storico manca della massa come organismo sociale e politico ben definito – mi “diverto” a chiamarla matassa – e per questo motivo non consente, come ha ben detto Philippe Daverio, e già tanto tempo fa, il costituirsi di ismi e di gruppi. Mi resta ora solo il dettato di Iosif Aleksandrovič Brodskij sulla funzione sociale del poeta che consiste nello scrivere, cosa che egli fa non per incarico della società ma per una sua libera scelta. L’unico dovere lo ha verso la sua lingua, ed è il dovere di scrivere bene. Qui, in questo pensiero si colloca il fare di René Corona che con la sua professionalità da artigiano del verso trasforma la sua artisticità in un bene prezioso.
Quanto c’è in questo libro! Cultura e cura, controllo e leggerezza, tradizione e generazione, riflessione ed emozione, ma ho l’impressione che tutto sia pervaso da un tempo in sospensione, come quei dormiveglia in cui né il sogno né il vero, s’impongono o prevalgono, e lo stesso ragionare nel fare ricerca in poesia, si fa poesia nel luogo della meditazione che cerca l’altrove: «il mercante della fiera ha gabbato la luna / spolverandola di zucchero filato /…». E il bucaneve, pianta perenne dal fiore candido e puro del colore del latte e della neve, mi appare improvviso, sbucare spirituale e inaspettato e «… // mi disse che avevo sbagliato strada / e che l’altrove stava altrove / …» oltre il metafisico, tra tenerezze passate e squarci d’amore ancora da raggiungere.
Napoli dicembre 2023