di Antonio GRIECO
Un bravissimo Tonino Taiuti in scena al “Teatro Trianon Viviani” con Play Viviani , spettacolo-omaggio al grande autore attore di cui proprio in questi giorni cade l’anniversario della morte.
Andato già in scena nei giorni scorsi a Castellammare di Stabia, Play Viviani di Tonino Taiuti, che consideriamo ormai da anni tra i più rigorosi interpreti del drammaturgo stabiese-napoletano, è stato riproposto in questi giorni (il 19 gennaio) a Napoli (prodotto dal Teatro di Napoli -Teatro Nazionale) al “Teatro Trianon Viviani”. In una scena scarna (ai lati solo bianchi scheletri di sedie classiche, due casette delle Guarattelle; sul fondo semibuio, una chitarra elettronica poggiata a terra, nel suo supporto), l’artista attore napoletano costruisce un mosaico di brani teatrali, canti e suoni vivianei di sconvolgente attualità: dal dramma dei migranti, alla storica condizione di sfruttamento dei lavoratori con la poesia “Fravecature”, dove l’incidente mortale dell’operaio edile viene reso in tutta la sua commovente drammaticità; ma l’esempio, a nostro avviso, più visionario del “Teatro civile” di Viviani, quello che più colpisce oggi le nostre menti e i nostri cuori e che Taiuti ci restituisce con straordinaria intensità drammatica, è il tema della guerra ripreso qui da “I Dieci Comandamenti”, dove Giovanni ritorna dalla prigionia distrutto fisicamente e moralmente e trova Nannina, sua moglie, che per non cadere nella miseria si è unita a un altro uomo: «E nun l’avive ‘a fa‘! – le dirà con grande delusione e amarezza – T’avive murì ‘e famme! T’avive mettere ‘a fa‘ ’a femmina malamente! Chesto è chello ca avive ‘a fa’ tu! Avarrisse avuto a suffrì ‘e stesse pene ‘e l’inferno ca suffrìve io dint’a na baracca, mmiez’a tanta povere disgraziate comme a me…». La commedia, un decalogo di prosa e musica composto da dieci quadri e un prologo, racconta una Napoli del dopoguerra – quasi con lo stesso sdegno civile dell’eduardiana “Napoli milionaria! – distrutta materialmente e moralmente dal conflitto mondiale. Ma il messaggio è più profondo e riguarda tutti noi travolti oggi da una nuova, micidiale e criminale ondata di violenza globale che non sembra avere mai fine. Universali però sono anche un po’ tutti i personaggi del grande autore napoletano che Taiuti fa vivere in scena come in un sottile gioco di specchi, a tratti surreale, come quando sbuca col suo volto stralunato dai teatrini delle marionette per recitare brani di delicato lirismo. Ma qui crediamo sia giusto tentare un discorso più generale sulla storia teatrale di Taiuti, che ha guardato a Viviani come ad un modello fondativo della propria identità culturale e artistica, cogliendone il suo più intimo afflato umano e poetico. Seguendo questo suo personale approccio alla drammaturgia del suo maestro d’elezione, non è poi difficile scoprire che gli spettacoli vivianei si presentano in generale sempre come vitali riattivazioni teatrali; approcci analitici che, come in questo caso, se da un lato evocano un universo poetico, quello di Viviani, intrinsecamente legato, a partire da un dialetto straordinariamente espressivo, alla vita del proletariato e sottoproletariato napoletano, dall’altro tendono a mettere in moto un dinamico processo decostruttivo della sua scena, in cui entrano tra loro in relazione linguaggi espressivi diversi – dalla musica alla poesia, all’arte: insomma, l’impressione è che l’attore napoletano non abbia mai smesso di guardare in questi anni a quella straordinaria drammaturgia – seguendo le tracce dell’indimenticato Enzo Moscato, suo amico e maestro, scomparso proprio in questi giorni un anno fa – con uno sguardo che non resti mai prigioniero di un fragile orizzonte identitario e si apra in ogni momento alle esperienze più autentiche della scena artistica contemporanea. Sono qui, a parer nostro, i cardini dell’originale sguardo di Taiuti su Viviani: sottrarre il grande autore napoletano ad un mero orizzonte localistico, dando vita ad una inedita formalizzazione scenica dove possano incontrarsi (interagire e contaminarsi) tradizione e avanguardia, spontaneità popolare ed elevata coscienza dell’agire attorico. Va inoltre sottolineato che in questa sua costante tensione riflessiva dei codici propri dell’arte scenica, Taiuti, come ci è capitato di osservare in altre occasioni, attua una sorta di resistenza culturale, rifiutando ogni forma di compromesso con i sempre più pervasivi processi di mercificazione artistica della postmodernità. E il risultato di questo suo personalissimo attraversamento critico del nostro teatro di tradizione, come possiamo constatare anche in Play Viviani, è la costruzione di una macchina attoriale estremamente duttile in cui in ogni istante la poesia del nostro grande maestro sembra farsi corpo, volto e anima di un popolo, quello napoletano, che racchiude in sé altri mondi, altre vite, altre culture. Così, non è certo casuale che per il tramite del suo visionario orizzonte, Taiuti evochi le drammatiche storie di questo tragico inizio di millennio – come appunto quelle cui accennavamo all’inizio dei migranti, dell’incubo della guerra o delle forme sempre più violente di razzismo, ormai sdoganate senza vergogna, e in ogni latitudine del nostro pianeta, dalla nostra cosiddetta civiltà occidentale. Merito di Taiuti in questi anni è dunque di averci regalato, tutte le volte che ritorna al suo Viviani, la possibilità di riscoprirlo “altro, “diverso”, per coglierne tutta la sua unicità nella forza di una lingua antica e moderna, ma anche in un gesto comune, in un verso, in straordinari frammenti teatrali, che lui talvolta accompagna con brani musicali di noise-jazz, al fine di cancellare qualsiasi interpretazione naturalistica di quella eccelsa scrittura drammatica. Musica per decostruire, dunque. Perché la musica in Viviani – come sovente ci ricorda Antonia Lezza, sua acuta studiosa – non è mai una componente esterna del suo teatro, ma una necessità poetica indissolubilmente legata alla propria invenzione drammaturgica. L’altro aspetto che colpisce in questo Play (una formula, questa dei Play, ideata qualche anno fa con Lino Musella, che durante la Pandemia, ci ha regalato gli spettacoli più interessanti visti negli ultimi anni a Napoli), si deve alla scelta di Taiuti, che ha riproposto i personaggi vivianei come anime che ritornano e riaffiorano in scena circolarmente come una in una moderna “Spoon River”. Ma forse ciò che rende ancora più vivo il suo Viviani, è poi anche l’idea (sotterranea e indiretta) – che il fondamento del teatro – come non si stancava mai di ripetere Leo de Berardinis in polemica con la neoavanguardia – sia l’attore, e che il comportamento attoriale (in cui una funzione decisiva assume l’improvvisazione) è la chiave insostituibile per salvarne la memoria, per costruire ponti tra passato e presente, tra la commedia dell’arte il Varietà e il Jazz; in un innocente gioco scenico (play, appunto) che in ogni istante, con l’incanto del sorriso e della autoironia, ci aiuta a vivere il nostro precario Presente. Taiuti – che ha ricevuto meritoriamente qualche anno fa il premio Maschere del teatro italiano per la sua interpretazione in Circo equestre Sgueglia, per la regia di Alfredo Arias- sin dall’inizio del suo viaggio nel mondo del teatro, ha scelto Viviani come la sua fondamentale guida spirituale e artistica. E così, come raramente capita a teatro, con la sua voce e la vitalità della sua lingua e dei suoi gesti frantumati carichi di energia – a tratti espressionisti come nella sua efficacissima restituzione di Festa di Piedigrotta – dalla platea abbiamo ancora una volta sentito battere il cuore pulsante di un immenso maestro del nostro teatro, che tra le strade e i vicoli di Napoli continua a parlarci di una umanità dolente che resiste alla Storia con la innocente poesia della vita. Il pubblico ha applaudito calorosamente la magistrale prova d’attore di Taiuti ( sue è anche la regia). Eccellenti anche tutti gli altri suoi collaboratori: da Luca Taiuti, assistente alla regia, a Sara Marino. costumista, all’attrezzista Michele Lubrano Lavadera, al direttore di scena Domenico Riso.