FOTOGRAFARE IL TEATRO: UNA MOSTRA DI MAURO ABATE

di Antonio GRIECO

Nel corso del Novecento, Il rapporto tra teatro e fotografia ha avuto straordinari interpreti che si sono posti il problema di andare oltre il pur importante documento visivo della messa in scena, per raggiungere attraverso il medium fotografico una autonoma espressione creativa. Ma questo percorso, dall’utilizzo della fotografia come specchio rifrangente della rappresentazione alla fotografia come rivelazione di un segreto mondo poetico, non è stato un passaggio né semplice né lineare, perché sino agli anni Settanta del Novecento l’atto stesso del fotografare, salvo pregevoli eccezioni, non è mai stato considerato vera forma d’arte – al pari, ad esempio, della pittura o della musica – bensì  un’attività di mera finalità descrittiva, nonostante grandissimi artisti – da Man Ray a Andy Warhol, solo per citarne qualcuno – abbiano visto in questo duttile strumento ottico una eccezionale possibilità per “liberare – come osservò Walter Benjamin – l’oggetto dalla sua aura”. A Napoli, che è la realtà che più conosciamo, il disconoscimento della fotografia come nuovo linguaggio visivo, fu interrotto nel 1972 dalla VII Rassegna d’Arte del Mezzogiorno, a cura dell’artista critico Paolo Ricci, che per la prima volta propose all’attenzione del pubblico e della critica giovani fotografi come Mimmo Jodice, Luciano D’Alessandro, Franco Vergine, Gianni Cesarini, Fabio Donato, che possiamo considerare i grandi maestri della ormai riconosciuta e apprezzata Scuola fotografica napoletana. La cosa singolare, soprattutto nella fase iniziale della loro ricerca, fu che la maggior parte di questi artisti riuscirono a stabilire un rapporto particolarmente vitale con il teatro d’avanguardia.
Così, dobbiamo a Mimmo Jodice le rare immagini del gruppo teatrale Vorlensungen, creato da Mario e Maria Luisa Santella intorno alla metà degli anni Sessanta dello scorso secolo, e a Fabio Donato quelle del Living Theatre in scena, nel 1969, al Teatro Mediterraneo di Napoli, con Paradise Now; immagini, queste ultime, di straordinaria potenza espressiva, che forse più di molte acute esegesi critiche ci parlano della rivoluzionaria innovazione teatrale del gruppo americano.
A Napoli, la scoperta, attraverso il medium fotografico, dello spazio scenico come spazio poetico, avviene, in anni più recenti, soprattutto da artisti come Cesare Accetta e Antonio Biasiucci, che ripresero splendidamente gli spettacoli e i laboratori di Antonio Neiwiller – regista, attore, e prima della sua innovativa ricerca teatrale anche fotografo – prematuramente scomparso trent’anni fa.
Mauro Abate – nato a Napoli, presidente del Circolo Fotografico Culturale “L’altro sguardo” di Formia, medico di professione nonché attore e tecnico delle luci nei primi spettacoli di Neiwiller – ha anch’egli da sempre fotografato la scena teatrale, a cominciare proprio da quelle indimenticabili immagini delle azioni performative del regista napoletano con i bambini dei Quartieri Spagnoli di Napoli, intorno alla metà degli anni Settanta. Ora – dopo un periodo non breve in cui ha realizzato splendidi reportage (dal racconto visivo della vita del popolo Saharawi profugo nel deserto dell’Algeria, alle immagini della scena urbana delle grandi metropoli europee) – negli spazi del “Piccolo Teatro Iqbal Masih”,  ha presentato (sino al 15 aprile) Tea-tri, un selezionato gruppo dei suoi scatti prevalentemente relativi agli spettacoli promossi dal Collettivo Teatrale Bertolt Brecht di Formia, un vivace gruppo teatrale che anche durante questa tragica emergenza pandemica ha continuato a svolgere una importante azione culturale nell’intero territorio formiano. Di particolare interesse è l’indirizzo sperimentale di questa comunità teatrale che si ispira liberamente al “Terzo Teatro” di Eugenio Barba e al “Teatro Povero” di Jerzy Grotowski; e proprio il metodo di lavoro del regista polacco che orienta la poetica del gruppo guidato da Maurizio Stammati, crediamo ci  dia  la chiave interpretativa delle immagini di Abate sugli spettacoli del Brecht: perché, viste nel loro insieme, esse sembrano avere un comune denominatore nella ossessiva attenzione agli elementi corporei e rituali della messa in scena;  e dunque, soprattutto di fronte ai suoi trittici, abbiamo la sensazione di trovarci in presenza di un occhio fotografico autoriflessivo che all’interno della scena seleziona, isolandole, proprio quelle “azioni fisiche” che – come osservò Thomas Richard, testimone dell’esperienza grotowskiana a Pontedera – costituiscono “la chiave del mestiere dell’attore”. Ci consente, tra l’altro, di scoprire quell’”arte come veicolo” con cui Grotowski, attraverso il metodico lavoro di gruppo, cercò di andare oltre la recitazione convenzionale “per strappar via –  come sottolinea nel suo Per un teatro povero – le maschere dietro le quali ci nascondiamo ogni giorno”. Ora,  osservando più da vicino le foto di scena di Abate esposte a Formia (“venti anni di fotografia e di Teatro”) ci accorgiamo, a partire dal trittico di Pulcinella, che esse ci invitano a leggere la gestualità “pura” degli attori come allusione alla spontaneità di un soggetto che nel suo atto performativo tende in ogni istante a liberarsi dalla maschera (e dunque dalla finzione); un comportamento attoriale, a tratti surreale, che in fondo – come sostenne Anton Giulio Bragaglia a proposito proprio di Pulcinella – rimanda alle più audaci sperimentazioni artistiche del Novecento. Questa tensione nel cercare nei corpi in scena il nascosto della rappresentazione, la incontriamo nella esposizione formiana di Abate sia nelle singole foto come in quei trittici che fanno appunto pensare ad una estrema libertà espressiva che si accompagna all’inafferrabile fluire della vita e del tempo.  Una ricerca visiva essenzialmente analitica, come questa del fotografo napoletano, che non solo ci aiuta a tener viva la memoria della resistenza teatrale in questi tristi anni pandemici, ma ci consente di guardare all’esperienza del teatro come ad un insopprimibile bisogno interiore, individuale e collettivo, che non smette mai di interrogare l’indecifrabile mistero della vita.