Guida Galattica per i Lettori | Gennaio 2025

- AMICO ROMANZO Nando Paone – Ignazio Senatore, Io, Nando Paone. Un’intervista di Ignazio Senatore di Mirella SAULINI
- SIPARI APERTI La principessa di Lampedusa di Carmen LUCIA
- COME SUGHERI SULL’ACQUA O Dio c’è o non c’è. Oddio! C’è o non c’è? Che cosa? Dice un altro, e lei che ci risponde: il Tempo di Ariele D’AMBROSIO
AMICO ROMANZO
NANDO PAONE – IGNAZIO SENATORE, IO, NANDO PAONE. UN’INTERVISTA DI IGNAZIO SENATORE
di Mirella SAULINI

Ignazio Senatore,
Io, Nando Paone. Un’intervista di Ignazio Senatore
Prefazione di Vincenzo Salemme,
Volla (NA), Martin Eden, 2024, pp. 180 – ISBN 9788832064315 – € 15,00.
Questo elegante volumetto edito da Martin Eden si può definire un’autobiografia scritta a quattro mani. Non sembri un paradosso: nel libro è riportata una lunga intervista rilasciata dall’attore Nando Paone a Ignazio Senatore, psichiatra e psicoterapeuta prima che giornalista e critico cinematografico.
La prefazione di Vincenzo Salemme, amico di Paone dai tempi del liceo, divenuto più tardi suo compagno di lavoro, c’introduce a questo personaggio dall’apparenza eccentrica e dall’espressione a volte stralunata (si guardino, raccolte in Appendici insieme a Filmografia e Teatrografia, le foto della Galleria delle immagini che lo ritraggono in scena e fuori), a questo attore di cinema e di teatro, apparso anche in televisione, capace di spaziare dai ruoli comici a quelli drammatici, dai film d’autore a quelli che si definiscono di cassetta. Il libro è strutturato in capitoli, ciascuno dei quali si apre con una domanda dell’intervistatore. Alla risposta s’incatenano altre domande e risposte fino a comporre un quadro, un capitolo.
Immancabile quello che racconta la nascita della vocazione, dalle imitazioni fatte da bambino, al suo volersi avvicinare al teatro. Iscrittosi all’Istituto d’Arte, Nando conserva tuttora il gusto di «dipingere, disegnar, scolpire, intagliare» (p. 13). Dopo molti dubbi, fu il cinema, con L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski, a decidere: «Quel film mi folgorò, anche per la straordinaria interpretazione di Polanski. Decido: “Voglio fare l’attore”» (p. 14).
L’aneddotica ha una parte importante nella costruzione di questa intervista-libro. Dai fatti più o meno significativi, dagli aneddoti raccontati emergono tratti caratteriali e artistici non solamente di Nando Paone, ma di quelli che potremmo chiamare i suoi comprimari del momento. Personaggi anonimi, ma soprattutto imponenti figure dello spettacolo come Eduardo De Filippo, «il Grande Vecchio, con quella sua voce inconfondibile» nella cui compagnia il giovane Nando entrò inaspettatamente per recitare in La fortuna di Pulcinella. Paone chiude il racconto del loro primo incontro, conclusosi con l’accordo per il contratto, con una battuta che, sintetizzando la sua ansia, i suoi tremori e il suo rispetto per il maestro, rivela al contempo tratti della sua personalità quali l’ironia e, più che mai apprezzabile, l’autoironia: «Se non sono morto allora… sono immortale» (p. 18).
Il cinema si rivelò ancora decisivo per Nando, aprendogli, nella persona di Colette Shammah, sua partner nel film Il turno, di Tonino Cervi, le porte della compagnia di Eduardo. I due attori assistettero insieme a una rappresentazione della compagnia, La donna è mobile e, afferma Paone, «mi innamorai di un personaggio […] le dico: “Quanto mi piacerebbe fare quel personaggio”» (p. 17).
Casualmente, Giulio Farnese, interprete del personaggio in questione, stava lasciando la compagnia, così Shammah ‘procurò’ un appuntamento all’amico, il “Grande Vecchio” intuì quella che si suole definire la ‘stoffa’ dell’attore e tutto cominciò. La casualità, l’amicizia, si sommarono all’elemento di fondo: la capacità dell’attore di recitare in teatro; cosa diversa, dal recitare sul set cinematografico, poiché, come afferma Senatore, «vi è un coinvolgimento emotivo differente» (p. 119).
Forse non è diverso il rapporto dell’attore con il personaggio, ma lo è di certo quello con il regista. Ci aiuta a capire questo, ciò che Nando afferma di Matteo Garrone, il quale «gira in sequenza, secondo come procede la sceneggiatura, con un dispendio di energie e di denaro, ma à molto bello lavorare così, perché l’attore giorno dopo giorno vede crescere il suo personaggio» (p. 86).
Si legge molto direi, tra le righe di questa risposta che non è solamente un informarci, pur importante, del modo di lavorare di Garrone. Nella sottolineatura della libertà del regista, che non risparmia le energie proprie e altrui e non si cura delle spese, emerge lo spirito libero di Paone, ma emerge, soprattutto nella conclusione, il suo modo di essere attore, il suo modo di farsi personaggio momento per momento in una sorta di surreale collaborazione, attiva, certamente, e nel cinema e nel teatro.
Se Garrone si poteva permettere d’ignorare le spese, il denaro in altre parole, non altrettanto può dirsi del Nando degli inizi, dell’attore di teatro che esordì «al cinema nella commedia sexy all’italiana». Con una delle sue esclamazioni che dicono tutto, è lo stesso attore a motivare la scelta: «E chi li aveva mai visti tutti quei soldi? Accetto di corsa» (pp. 41-42). Fu soltanto una parentesi.
Umanissimo il capitolo nel quale Nando parla del suo rapporto artistico, ma soprattutto affettivo con la compagna Cetty Sommella, scomparsa il 9 marzo 2021. «Sto cercando di metabolizzare il lutto» (p. 103), dice, prima di parlare degli altri lutti che lo hanno colpito, del rapporto non semplice con la figlia Giada e di quello, ormai impossibile con la madre di lei, sua prima moglie.
Se questo ed altri capitoli, come quello che parla dell’amicizia Sodalizio con Vincenzo Salemme (pp. 69-77), ci parlano essenzialmente di Nando uomo, ce n’è uno in particolare, Sul mestiere dell’attore (pp. 119-132), nel quale leggendo i commenti alle affermazioni di colleghe e colleghi che gli vengono di volta in volta proposte dall’intervistatore, scopriamo il Nando Paone attore che supera il panico del palcoscenico trasformandolo in adrenalina, che, quando ha un ruolo importante, durante le pause studia e ristudia la sceneggiatura, perché «anche una scena minore richiede uno studio» (p. 123), che rimane comunque distaccato dai personaggi, perché «è un gioco. Se ti rimangono i personaggi attaccati rischi la schizofrenia» (p. 124).
La parola gioco non va fraintesa, non significa mancanza della gravitas del lavoro. L’attore deve farsi personaggio senza legarsi ad esso tanto da ammalarsene, ma non deve neppure essere visibile dietro il personaggio, come gli attori della vecchia scuola. «Il mio gioco – sostiene – è quello opposto; io cerco di far dimenticare al pubblico che sono Nando Paone. Non sono una maschera» (p. 121), e sottoscrive le parole di Verdone: «La recitazione è l’arte di nascondere l’arte» (p. 132).
SIPARI APERTI
LA PRINCIPESSA DI LAMPEDUSA
di Carmen LUCIA

Ruggero Cappuccio, regista, drammaturgo e scrittore, è in libreria con il romanzo La principessa di Lampedusa, un nuovo omaggio a Tomasi di Lampedusa e alla Sicilia, archetipi dominanti della sua poetica letteraria e teatrale.
Per Ruggero Cappuccio la Sicilia costituisce una fonte d’ispirazione, un radice, una memoria familiare e soprattutto un avantesto mitico di riferimento costante, con la presenza dominante delle opere di Tomasi di Lampedusa, mediate anche dall’amicizia con il critico Orlando e il nipote Gioacchino Lanza. Come in Desideri mortali (1997), opera teatrale ispirata alla morte e al desiderio, ai sogni e alle seduzioni della scrittura di Tomasi di Lampedusa, considerato da Cappuccio uno scrittore “unico, semplicemente straordinario, per la forza di materializzazione delle sue immagini, per la sapienza ritmica e fonetica della sua scrittura” (come scrive nella Prefazione all’opera teatrale), il Gattopardo rappresenta qui il vero sostrato e sottofondo onirico e immaginifico del romanzo, che – come in una riscrittura teatrale – ne fa rivivere memorie, echi, visioni.
Il romanzo La principessa di Lampedusa nasce da evocazioni simboliche e suggestioni suscitate dalla figura della madre Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, madre dell’autore del Gattopardo e autrice a sua volta di un’opera abbozzata e rimasta incompiuta, che Cappuccio ha potuto studiare a Palermo, insieme ai suoi diari conservati dal nipote:
«Quando capì di aver vinto il duello con se stessa?…Non ho mai capito di averlo vinto. Ho capito soltanto che i duelli tra l’amore e il dolore finiscono sempre in parità.» (pag.188).
L’eterno dissidio tra eros e thanatos, tra istinto e ragione, tra natura e cultura, la presenza del mondo onirico, elemento fondamentale nell’opera di Cappuccio, l’incanto e il sortilegio della visione del palazzo di Lampedusa, saturo di memorie, misteri e segreti di famiglia, si incarnano nell’ardita e moderna figura di Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, principessa di Lampedusa, che, nel maggio del 1943, cammina sola tra le rovine di una Palermo distrutta dai bombardamenti alleati. La storia di Beatrice è un nòstos, un ritorno fisico e onirico nel palazzo di famiglia:
«Dopo tutto, palazzo Lampedusa è il perimetro in cui ho vissuto la mia felicità e la mia infelicità. Mi creda non c’è un solo pezzo di intonaco crollato che non sia per me come un pezzo di carne mutilata. Ma non è soltanto casa mia, tutta Palermo è il mio corpo» (pag.38).
Tra soffitti crollati e macerie, si riattiva la memoria dei giorni in cui la città era simbolo di grazia e splendore, sogni, fantasie e amori immaginati e forse vissuti.
In una visione sospesa tra morte e seduzione del sogno, mentre gli Alleati stanno per sbarcare in Sicilia e si disgrega un mondo, Beatrice piena di vita e coraggio, non si arrende all’agonia del corpo ferito di una città distrutta: protegge gli sfollati, difende donne vittime della violenza dei soldati, esorta le masse popolari, si espone e sfida la morte. Nell’eclisse di un mondo ormai perduto, così come si intitolano le carte autografe del suo romanzo incompiuto, Beatrice consegna, con l’ostinazione delle sue azioni e la fierezza delle sue parole, la sua testimonianza di una vita spesa per il bene e la sua grande eredità morale al malinconico figlio e all’acerba vitalità di Eugenia, giovane appassionata di stelle e pianeti. La ragazza, privata della libertà dalla famiglia che l’ha costretta a interrompere gli studi, viene rapita dalla seduzione dei racconti della principessa, dalla ribellione naturale e dalla sua ostinazione. Per lei, giovane interlocutrice della principessa e per il figlio, la principessa prepara progetti ambiziosi che sfidano il tempo. Mentre Palermo viene bombardata, la principessa di Lampedusa «con la fierezza d’un tempo» e con l’aiuto della gente del quartiere organizza un ricevimento al quale saranno invitati i più grandi nomi del bel mondo palermitano, dai Lanza di Trabia ai Florio, dai Valguarnera ai Moncada. E così come in un teatro fatto di irredimibili seduzioni e inganni, ma anche di verità mai raccontate va in scena l’ultimo atto di un mondo che la guerra spazza via e che non ritornerà più.
Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, madre dell’autore del Gattopardo, ardita figura di donna che investe nell’educazione dei figli seguendo un progetto di formazione spirituale e culturale di grande modernità, è autrice a sua volta di un’opera incompiuta, L’eclisse. Questo abbozzo di romanzo diventa un’allegoria parlante della sublimazione della bellezza che si cristallizza nella radice delle memorie familiari, nel valore ineludibile della testimonianza e della trasmissione ereditaria. Come spiega spesso nelle interviste Ruggero Cappuccio, la memoria familiare non riguarda unicamente i segni tangibili, come il colore degli occhi o le malattie, ma anche schemi di pensiero e materiale onirico tramandato:
“Molti sogni che facciamo sono frutto della nostra regia personale e di detriti che provengono da vite precedenti. Conoscere il passato vuole dire capire qual è la nostra vera voce. Accade che quando compiamo un’azione, siamo doppiati dalla volontà dei nostri genitori o dei nonni. Ma è fondamentale comprendere chi siamo realmente”.
COME SUGHERI SULL’ACQUA
O DIO C’E’ O NON C’E’. ODDIO! C’E’ O NON C’E’? CHE COSA? DICE UN ALTRO, E LEI CHE CI RISPONDE: IL TEMPO
di Ariele D’AMBROSIO

L’ARIA È UNA
Torino, Giulio Einaudi Editore, 2023
Pagine 179
Euro 13,00
Info:
https://it.wikipedia.org/wiki/Anna_Maria_Carpi
Quale altro poeta italiano di questi anni ha saputo parlare di ciò che è quotidiano e dell’assoluto ignoto che lo assedia? È nella semifollia dei versi, è in una poesia «sorella pazza della prosa» che Anna Maria Carpi ci fa vedere e vivere nello stesso istante il diritto e rovescio del vivere così come è. In questo modo si conclude la recensione di Alfonso Berardinelli che mi ha “costretto” a comprare questo testo per approfondirlo e regalare all’autrice e al suo lavoro anche questo contributo di riflessioni ed emozioni.
L’aria è una è il titolo di questo libro di poesie, importante e significativo, di un poeta di ottantacinque anni rilevante nell’ambito della nostra letteratura contemporanea, nonché germanista, scrittrice e traduttrice. La collana bianca di Einaudi ne raccoglie centodiciotto tratte da varie sillogi, dal 1993 al 2020 e divise in otto sezioni.
Quando ho chiesto un’interpretazione sul titolo mi è stato risposto che l’aria essendo una, almeno questa è gratuita, ho sorriso ricordando “l’aria di Capri” che si vendeva in una boccettina di vetro con tappetto e un’etichetta incollata sul suo vetro trasparente. Sì, anche questa un’interpretazione di libertà rispetto a quell’aria intrappolata e venduta, di libertà e di uguaglianza senza discriminazioni socioeconomiche, ma preferisco sentirmi abbracciato da questa trasparenza che mi circonda e che mi entra dentro col respiro, abbracciato insieme agli altri fuori e dentro le case, consapevole che penetra dovunque, che avvolge ogni cosa, consapevole della sua levità, del suo essere anche gelida o rovente, vento impetuoso o brezza tiepida, fiato carezzevole o fuggevole e che ti sfiora appena in silenzio.
Quanto c’è in un titolo scelto da un poeta e quanto se ne potrebbe dire ancora. È che leggere un libro di poesie è come entrare in un museo, in una pinacoteca, e per dirla alla Philippe Daverio, non guardare frettolosamente il tanto, il troppo, ma scegliere un’unica opera e contemplarla almeno per una giornata intera, sperando così di scoprire le illimitate emozioni custodite negli innumerevoli dettagli da scoprire. Ebbene, è così anche per un titolo, per non dire di una poesia intera. A volte non basta una vita; una poesia che ti parla ogni volta e ti sussurra, e ti dice, e ti suggerisce sempre nuove cose.
Solo una breve chiosa sulla semifollia dei versi e sulla «sorella pazza della prosa». Certo Berardinelli è stato colorito ed accattivante con queste definizioni un po’ mitiche, un po’ abusate, – la seconda mutuata dal titolo dato dal poeta stesso alla terza sezione – ma questa poesia in particolare, che racconta con semplicità e con limpidezza la complessità della vita e della morte, tutto è tranne che follia o pazzia. E rispondo anche ad un dire frequente di Umberto Galimberti che spesso definisce la poesia come prodotto della follia, lì dove essa invece usa molta ragione per rompere sistemi e crearne di nuovi. Solo in questo senso la parola “follia” come utopia, quella di voler mutare attraverso le parole, il linguaggio, il lessico, il suono, sistemi già codificati, per leggerli e testimoniarli nella loro possibile nuova verità e contrastarne altre che si vuol far credere totali, assolute, perenni.
Non ci sono titoli ma solo quelli delle sezioni. Parto dalla terza Sorella pazza della prosa che parla di poesia: poesie di poesia e di poeti. «Così si chiama, / poesia, e mai / le daranno altro nome. / Pochi sanno che viene / da un verbo greco che diceva «fare». // Ma perché ci esalta / perché ci dà speranza / questo modo d’esprimerci traslato / questo parlar diverso dal parlato? // Poi anche i bravi vanno nell’oblio / ma bravi che vuol dire? / Quel che fa un pesce: un attimo la testa / fuori del mare, / schiuma rimbombo d’onde / ansar di branchie, / un guizzo e riprofonda.». In pochi versi cos’è la poesia e la condizione del poeta bravo. È così senza che si aggiunga altro.
Entro solo un momento nello specifico del fare. Non sono versi liberi, ma versi sciolti, assai controllati. Ed è per quel fare che mi attardo un attimo, per dire del lavoro che c’è dietro, di quello che c’è prima nel suono della mente. In questa poesia si alternano sempre endecasillabi con settenari, due quinari iniziali e per il quartultimo ed il penultimo verso per tempi in sospensione. Tutto il libro ha queste caratteristiche, tutte le poesie che contiene, sempre attente, con qualche dialefe in soccorso e qualche quaternario e dodecasillabo per sporadiche aritmie inaspettate che arricchiscono la fluidità scorrevole del ritmo. E pare ogni tanto di ascoltare Giovanni Pascoli e Guido Gozzano per una musicalità che non è né antica né passata perché resta nel corpo genetico della contemporaneità. Ancora più intensa questa poesia, per la consapevolezza d’essere pesce: un guizzo e riprofonda. Dove, mi chiedo? Nell’oblio, ed è qui che fa già capolino la sparizione con il suo silenzio.
Un grazie sentito ad Anna Maria Carpi, oggi che si svolazza a destra e a manca nella mediocrità mascherata da istinto, nel desiderio egotico di esserci: «… Sono i poeti dell’io scrivo ergo sono, / e l’uno ignora l’altro. Ascoltare invidiare? / Come potrebbe chi come il poeta / spera imperterrito / d’esser figlio di Dio, figlio unigenito? / Su, allegri, amici, dopo viene un drink.».
Sorella pazza della prosa? M’interrogo sul titolo, ma lo stesso poeta mi risponde: «… Poesia? No, in cima c’è il romanzo: / quella prosa slabbrata ci descrive.». E intanto «… artisti a centinaia di migliaia, / dietro il folle sogno del Sé. / È il mestiere più sconcio che c’è. / Che cosa resterà di tutto questo, / di esorditi e abortiti, / di tutti noi che facciamo un po’ per amore, / un po’ per bisogno, ma soprattutto / per l’ansia di apparire / un istante / sullo sfacciato video del tempo. …». E quanta sana autocritica in questa poesia che appartiene a molti.
Sempre in questa sezione una biografia di Gottfried Benn un poeta tradotto dalla stessa autrice e da lei molto amato. Ma si badi, una biografia che diventa un canto che narra senza che sia narrativa, senza che abbia nulla a che fare con la prosa o con una poesia di tipo prosastico tanto per intenderci e troviamo questo grande poeta tra i nazisti del suo tempo, prima accettato, poi espulso, alla fine invecchiato: «…Invecchiare problema per artisti, saggio del ’51 – / ancora cinque anni in questo mondo. / «Io sono stato quello che sarò», / e «l’ingannarsi è pure prestar fede / al proprio interno: giacché l’uomo è questo, / e al di là di vittoria e di sconfitta / comincia la sua gloria». / Plagia un salmo o plagia l’ateo Nietzsche? / … / Frammenti chiama e Distillazioni / le ultime, gioielli / della malinconia del venir meno. / «Io so solo di me, solo parole, / le mie di clandestino e poche cose». / È un canto postumo e non sa più per chi.».
Poesie senza titoli, ma con capitoli tematici che ne indirizzano il senso e lo stato emotivo di un percorso. Ed il poeta parla degli altri, con gli altri ed anche di sé come se dialogasse in una stanza per dei lettori che sono spettatori in un teatro.
In Da un abbraccio la sua infanzia, i suoi genitori descritti anche con durezza, per capirsi insieme nella verità del vivere e che solo un poeta può spingere nella profondità del dolore. «… La macchia dell’origine perdura, / sono quei due che parlano e che dicono: / tu non ci hai riscattati. / … / La mia ora di gloria è nell’infanzia, / nell’attesa dei due, / per questo li amo e per questo li odio / sopra ogni cosa.», «Una madre io l’ho avuta, / viva ardente / sempre via con la mente / inetta a vivere. … // Così io non ho misericordia di me stessa, / e non ho niente che mi abbracci dentro.»; «… Mi rotolo negli sguardi, nelle mani, altro non cerco / che un padrone, che un padre.»; «… Sa dov’è nata, nelle notti insonni / di sua madre nel letto solitario, / da suo padre che dorme una stanza più in là, / profondamente, anche se il mondo ha detto / non sei nessuno. …». La poesia non fa sconti per essere tale, la poesia dichiara quello che si è vissuto, e se qualcuno si scoprirà in sua compagnia, troverà la forza di accettare una verità smascherata che aiuta a capirsi, ad accogliersi, a volersi anche bene, senza più le colpe che non erano proprie. E all’io disfunzionale si apriranno nuove finestre da cui vedere nuove angolazioni, nuove verità della vita variegata e complessa.
Altri capitoli: Se tu mi amassi, col suo quotidiano: «Missioni in Siria, / che la città di Hohm è «rasa al suolo» / non si sa bene cosa voglia dire, / i notiziari esagerano, si sa, / ma poi c’è Rakka / hai presente dov’è? E poi Mossul. // A noi qui sul divano / rimane impressa solo la rovina, / … / con un sospiro / uno propone all’altro andiamo a letto.»; Anni con noi: «… Solo quei grandi spiriti / noti viandanti della storia umana / vorrei sapere dove li hanno messi, / sapere i luoghi andarci / dirgli tu non sei qui, / tu sarai sempre ovunque / fino a che dura l’anomalia dell’uomo. …»; Venezia si chiamava: «Anni felici quando tutto ami / e in leggerezza lasci / perché nulla è perduto e tornerà. …»; Non c’è più tempo: «Una lettera giunta ieri sera / sul mio tavolo, / indirizzo, testo, tutto scritto a mano: / una scrittura come una foresta / inquietata dal vento che rovina dall’alto, / un rotolare in basso, lunghi rami / e ramoscelli storti con dei buchi, / qua e là come uccelli le maiuscole. / … / L’antica allieva s’impressiona e dice / per me sarà diverso, / e prende il largo come un’anatrella.», «… Io non so abitare / che la giovinezza / io nello zaino ho solo la speranza.». E sempre s’affaccia la riflessione sul desiderio di vita, su quello di cancellare la morte con le sue malattie, ed anche quella sulla vecchiaia con le sue malinconie e le sue grandi tenerezze.
La carne è un altro è il titolo della seconda sezione che desidero far precedere l’ultima, l’ottava. Perché mi è successo di spostare questo tempo? Perché la carne precede il metafisico, ma convive con esso ponendosi domande con l’angoscia della sparizione e la solitudine che attanaglia anche se si è tra la folla col suo silenzio paradossale. A volte ho la sensazione che le parole non parlino con i loro grafemi silenziosi, con i suoni fantasma di quando si legge in silenzio, ma dicono e ridicono anche se muti: «… Nel metrò agli aeroporti / sui treni della notte, oltre confine / ora li vedo / uno per uno, vedo che stortura / è avere un corpo, un volto, quello solo, / e che è soltanto carne, / la data di scadenza scritta in piccolo, / o dentro o sotto, dove nessuno legge. / Si aspetta il verde, si attraversa la strada, / si scende nel metrò, si fa la spesa, / si prenotano viaggi, si entra in banca. / Singoli alieni con tatuaggi e piercing, / singoli con figli da mandare a scuola, / singoli come me soli e scontenti. / E dopo e dopo e dopo? / Dove guardano tutti questi occhi? …». Ma poi «… Felicità, è strano ci sia ancora, / questo riso segreto sotto il cuore, / la voglia d’essere / d’esserci in mezzo agli altri, / e che tutto ha senso / e che c’è l’avvenire.», e ancora «… perché, pensavo, / là dove si è in tanti / qualcosa si farà contro la morte.». E tutto prende suono tra la terra e il cielo, col “gioco” della parola tra paure e speranze, con questi versi che hanno il timbro della leggerezza, quella che accarezza e seda.
O Dio c’è o non c’è: «… Il mondo è in confusione, / non è più umano, è solo una poltiglia. …», «… Ma quale abbraccio ci vorrebbe ormai? / Soltanto uno, / del Tempo, il sommo ingiusto, / che proclami: ma su, o figli miei, / che per voi io non passo!». E finisco con quest’ultimo titolo, ringraziando Anna Maria Carpi di vero cuore per questa lettura che mi ha donato. Finisco “giocando” con lei e le rispondo: “Oddio! C’è o non c’è?” “Che cosa?” dice un altro, e lei che ci risponde: “il Tempo”.
Napoli dicembre 2024