Gli sguardi e le maschere del teatro espanso di Giacomo Casanova

Di Gius GARGIULO
In un passo delle sue celebri Memorie, Casanova paragona le donne ai libri. Bello o brutto – egli scrive – un libro si comincia ad apprezzare con attenzione nelle parti esterne. Allo stesso modo, le donne devono essere prima di tutto osservate e apprezzate nel loro aspetto esteriore, nell’abbigliamento, quello che corrisponde nei libri alla copertina ben rifinita in cuoio con fregi dorati e poi nella parte interna con il frontespizio. Lo stesso interesse che un uomo di lettere ha per l’indicazione della casa editrice e per le note a piè di pagina, lo hanno i bei piedi e il gusto delle calzature delle donne che la maggior parte degli uomini trascura come la maggior parte dei lettori non si interessa alla casa editrice. Quindi, prosegue il memorialista veneziano, le donne fanno bene a dedicare tanta cura al loro volto, ai loro abiti perché proprio dalla loro «veste tipografica» possono far scattare quella curiosità di leggerle in coloro che «la natura non ha fatto nascere ciechi» (Histoire de ma vie, Paris, 1993, tome I, p. 156).Questa analogia tra aspetto della persona e libro vale anche per le donne nei confronti degli uomini ma il nostro Giacomo, cavaliere di Seingalt, sa bene che le lettrici settecentesche erano già molto allenate in questo tipo di decodifica e toccava agli uomini “femminilizzarsi” nell’osservazione attenta della realtà soprattutto nella sua componente visiva esteriore che doveva essere poi la presentazione e la via di accesso a quella interiore della qualità dei contenuti. I libri prima si guardano, si toccano, si carezzano, si sfogliano, si annusano fino all’intimità della rilegatura con odori di carta, inchiostro e colla rappresa. Si tratta di preparativi necessari al successivo piacere della lettura come potrebbe confermarci qualsiasi lettore abituale, editore, operatore pubblicitario o libraio. L’analogia casanoviana erotizzante tra libro e aspetto del corpo femminile che probabilmente avrebbero condiviso anche Oscar Wilde e Marcel Proust, è già in sintonia con un’idea di moda e di marketing editoriale che ricicla concetti di origine rinascimentale del libro come prodotto di consumo. Prima di entrare nell’intimità della donna o nella sua lettura, si può gustare tutto quello che potremmo definire il «packaging» del libro stesso e il look di colei che abbiamo di fronte. Saperla leggere e capire per meglio interagire con lei rispettando la sua sensibilità e la sua cultura. Casanova reclama un «altro sguardo» più attento, semiotico e analitico sulla donna secondo il concetto di moda che si andava diffondendo dall’aristocrazia alla borghesia. Il Settecento inglese e francese è un secolo in piena estesìa. È all’origine della mentalità del nostro mondo contemporaneo, prepara la rivoluzione industriale, è già una società dello spettacolo e dell’immagine. L’enciclopedismo di Wikipedia, la robotizzazione come la conosciamo oggi, hanno origine in questo secolo che a scuola viene liquidato con generiche e frettolose nozioni sull’Illuminismo con il suo epilogo della Rivoluzione francese per dare spazio e importanza alle successive malinconie romantiche postnapoleoniche. Il Settecento europeo è il secolo della diffusione allargata del romanzo e del teatro come il Novecento sarà quello del cinema e della televisione. Assistiamo ad una teatralizzazione delle convenzioni sociali ben codificate di cui Casanova saprà darci le dimostrazioni più documentate, efficaci e appassionanti, attraverso i suoi scritti e specialmente nelle sue Memorie, lette come un grande affresco di tutto il Settecento francese ed europeo così come quelle di Saint-Simon lo sono state per l’epoca di Luigi XIV, il Re Sole e la Recherche di Proust per fine Ottocento e inizio Novecento. Casanova aveva respirato la Venezia settecentesca, capitale dell’editoria europea, del sapere letterario e scientifico con le sue accademie e la prestigiosa università di Padova, l’equivalente di quella di Harvard di oggi. Capitale del teatro, ne aveva 13 rispetto ai 3 di Parigi nello stesso periodo, della musica, della pittura e dell’architettura, del gioco d’azzardo che insieme alle 75000 prostitute di ogni ceto, etnia e cultura, facevano della città lagunare un mix unico di Atene e Las Vegas. Tutta la vita di Casanova si è svolta sotto il segno del teatro, figlio e fratello di attrici, musicista, drammaturgo, romanziere, giornalista e saggista, matematico, filologo latinista e grecista con dottorato conseguito all’Università di Padova, uomo di spettacolo egli stesso, si direbbe oggi multimediale, fu un convinto assertore del realismo goldoniano da giovane e collaboratore di Mozart e Da Ponte a Praga, in occasione della prima rappresentazione del Don Giovanni. Anche se pochissimi e ormai introvabili sono, nell’ambito della vastissima produzione letteraria di Casanova, i testi destinati alla scena, l’unica commedia integrale, scritta in francese, giunta fino a noi, Le Polémoscope ou la lorgnette menteuse ou la calomnie démasquée par la présence d’esprit (Il Polemoscopio o l’occhialino bugiardo o la calunnia smascherata dalla presenza di spirito), scritta negli ultimi anni a Dux, testimonia questa rifrazione di sguardi sulla messa in scena dei comportamenti in società che anticipano istanze e tematiche sviluppate sulla scena nei secoli successivi. Ispirata ad un fatto realmente accaduto a Cremona, durante al guerra di successione d’Austria, nel 1748, la pièce racconta di un ufficiale francese irruente e sprezzante, Talvis, che corteggia una giovane e sensuale contessa italiana sposata ad un anziano signore locale. Nel frattempo, un altro ufficiale francese sensibile e riservato, Gissor osserva a teatro la bella contessa con un « polemoscopio » o binocolo a lenti prismatiche (lorgnette) che consente di vedere di lato pur avendo puntato l’occhialino in direzione di un’altra aristocratica italiana sentimentalmente libera, per salvare le apparenze come indica il primo sottotitolo della tragi-commedia, « l’occhialino bugiardo ». La contessa che ha un debole per Gissor, venuta casualmente in possesso del polemoscopio, scopre l’interesse del discreto ufficiale per lei ma suscita anche l’ira di Talvis che afferma di essere già andato a letto con la bella aristocratica e scommette una somma di denaro con Gissor sulla verità della sua affermazione chiedendo alla contessa in persona di confermarla pubblicamente. La presenza di spirito della donna, da cui un altro sottotitolo dell’opera, «La calunnia smascherata dalla presenza di spirito», assegna la vittoria a Talvis. Ma proprio assecondando nel suo disegno colui che mente, ella lo smaschera. In pratica nega con una affermazione, il no si nasconde dietro il sì. Il discorso della contessa è analogo alla direzione dello sguardo deviato dalle deformazioni prospettiche del polemoscopio. Si confermano le apparenze, ma secondo i codici interpretativi della società aristocratica settecentesca, regolata dall’ambiguità a più volti della maschera come succederà in seguito per quella borghese. La risposta della Contessa trova la piena approvazione del marito che vede così premiata la virtù della moglie. La nobildonna se avesse dato torto a Talvis, sarebbe risultata colpevole agli occhi della società che l’avrebbe giudicata ipocrita; invece, dando ragione alle insinuazioni dell’insolente ufficiale che sarà poi misteriosamente assassinato (per questo l’opera è definita una tragicommedia), la contessa preservava la propria virtù. L’espediente macchinoso del polemoscopio mette in risalto non solo la cultura scientifica di Casanova, ma gli permette di teatralizzare il concetto chiave della tragicommedia: l’analogia tra le leggi della fisica e quelle del comportamento. Come il polemoscopio crea delle false impressioni a chi non conosce il suo funzionamento, permettendo di mascherare la direzione dello sguardo, così i sentimenti vengono ugualmente mascherati, in quanto, si punta una donna guardandone un’altra. Anche la risposta della contessa sul piano del linguaggio riproduce una “rifrazione” del significato, sembrando affermare qualcosa che invece non corrisponde a quello che è realmente accaduto. Quest’opera casanoviana rafforza il valore esemplare di un comportamento femminile tipicamente prudente sulla scena della vita presentata come un teatro totale, in cui il pubblico è costituito essenzialmente dal mondo aristocratico e borghese che decodifica e giudica secondo copione questi “minuetti” della morale. Nella lettera LXXXI delle Relazioni pericolose (Liaisons Dangereuses), il romanzo epistolare di Pierre Choderlos de Laclos del 1782, la Marchesa di Merteuil afferma di ispirarsi alla creatività dei commediografi e alla recitazione degli attori sul «grand théâtre» della società per soddisfare più efficacemente i suoi desideri. Una vita interpretata su di un teatro totale. Anche questi «attori» aristocratici del «grand théâtre» esistenziale apprendono a recitare il loro ruolo in società. Dal teatro alla letteratura questa dominante della scrittura che parla per ragionare la si ritrova nelle lettere del romanzo epistolare, una vera e propria rappresentazione teatrale della parola. La Contessa del Polemoscopio casanoviano sembra apparire una donna molto più saggia e matura degli uomini che la circondano. Ha con il suo vecchio marito un rapporto di confidenza, tanto da dirgli che ha un debole per Gissor, ma preferisce come la protagonista di un romanzo di Madame de Graffigny o di Madame Riccoboni, la fedeltà al proprio compagno di sempre e cercare un confidente di amorosi sensi in Gissor. Sapientemente, Casanova lascia aperto il dubbio nello spettatore se tra la giovane aristocratica e il giovane conte francese ci sia stato o meno qualcosa di più di un’amicizia, data la loro attrazione reciproca evidente proprio quando la donna scopre di essere l’oggetto degli sguardi di Gissor dietro l’occhialetto (atto II, scena IV). La Contessa, come Cordelia di King Lear di Shakespeare, con quel celebre «Nothing» in risposta a ciò che il padre vuole offrirle, opera un alto esercizio di retorica nascosta. Anche nel Polemoscopio sono in gioco due strategie, l’aristocratica italiana deve rovesciare le regole del gioco accettate dai due ufficiali francesi e restaurare in un colpo solo la sua dignità ingiungendo a Gissor di pagare, dando prova non solo di presenza di spirito, ma di grande sapienza politica. Questa risposta diventa anche un’enunciazione di “cose che non sono” con un coinvolgimento di energie intellettuali ben maggiori di un enunciato veritiero. Si conferma e trionfa nel mondo ben regolato dei comportamenti settecenteschi del Polemoscopio, la fortunata intuizione socratica contenuta nell’Ippia Minore di Platone, secondo la quale chi pronuncia il falso intenzionalmente, va preferito a chi mente senza saperlo o senza volerlo. In breve, si tratta di un concetto fertile e profondo della creatività della falsità. Casanova evidenzia la consapevolezza dell’intimità organica esistente tra sfera dell’intelligenza, della parola e della finzione attraverso l’ambiguità delle affermazioni, delle osservazioni visive e degli sguardi. I piumati capi indiani nel vento degli spazi aperti di tanti western non si sbagliavano affermando che «l’uomo bianco ha la lingua biforcuta», in quanto la società moderna, quella della riflessione e dello sviluppo sulla comunicazione linguistica che comincia con la πόλις (polis) greca dei sofisti, sembra parlare due lingue separate: una della forza politica del linguaggio e l’altra della forza della ragione scientifica ma in pratica appoggia la forza politica del linguaggio sulla forza della ragione scientifica per avere a disposizione contemporaneamente due armi efficacissime per agire nel mondo. Già Montaigne, Pascal e Graciàn avevano sottolineato il carattere artificiale delle convenzioni che sono le trame della vita sociale per facilitare la vita quotidiana, per cui anche ciò che è artificiale può risultare utile. Anche Bard, l’intelligenza artificiale generativa di Google, può inventarsi fatti, storie, numeri al solo fine di convincere il proprio interlocutore (spesso l’ignaro utente umano) di una propria tesi, di una propria idea, dimostrando grande creatività ai confini tra realtà e fiction.La Contessa del Polemoscopio, non crede nella legge etica in sé, che non corrisponde automaticamente alla giustizia, ma ne rispetta i principi base che la ispirano, sia pure in una situazione inedita. Casanova sembra seguire Tucidide e Guicciardini sul particolare individuale che prevale sul collettivo per dare un senso alla Storia. Queste idee sulla provvisorietà in politica provenivano dal XVI e XVII secolo seguendo la tradizione libertina nel solco di Machiavelli e del determinismo filosofico influenzato dalla fisica galileiana e poi newtoniana con l’invenzione di nuovi strumenti scientifici di misurazione e di esplorazione. La scoperta e il controllo delle sensazioni del corpo naturale si misurano e si confrontano con il corpo meccanico per un avanzamento continuo delle conoscenze alla luce del metodo sperimentale. Viene conferita ad una ipotesi matematica una realtà fisica. Gli orologi a ruota dentata e la calcolatrice meccanica di Blaise Pascal, la « Pascaline » il cui sviluppo porterà alle calcolatrici elettriche ed elettroniche dei secoli successivi con l’invenzione del microprocessore da parte di Intel nel 1971 e le bambole-automa costruite fra 1768 e il 1774 dallo svizzero Pierre Jaquet-Droz, capaci di suonare, scrivere, disegnare ed anche di respirare artificialmente, antenate dei moderni robot, hanno posto il soffio vitale di fronte ad una vita artificiale « autonoma », con la cosa che sente in maniera ottusa nella ripetitività regolare di freddi ingranaggi. Ciro di Pers nei suoi sonetti seicenteschi vede le ruote dentate dell’orologio lacerare senza sosta il tempo e con esso i corpi dimostrando di fatto che corpo e macchina sono ormai accomunati nel bene e nel male. Rosalba, la bambola meccanica, con cui aveva avuto un amplesso in passato a Dresda, sognata, prima di morire dal Casanova felliniano del 1976, in una laguna veneta, ricoperta di sperma ghiacciato, rappresenta il perfezionamento e il coronamento epocale di un confronto-appropriazione uomo-macchina, nella direzione che va da Cartesio alla teoria dell’Homme machine del medico illuminista Julien de La Mettrie, la cui filosofia materialista e meccanicista era ben nota a Casanova e in seguito apprezzata da Sade. Nella fantasmagoria felliniana filosoficamente e psicologicamente corretta nel rendere sullo schermo l’essenza dei desideri e delle aspirazioni di Casanova, il libertino non può fare astrazione dalla presenza degli altri umanizzando nel desiderio erotico anche l’automa, come potrebbe succedere oggi a chiunque si innamori di Siri, l’intelligenza artificiale del nostro smartphone dalla carezzevole voce femminile o maschile nella sfera erotico-affettiva più estesa nella quotidianità. Oppure fatte le debite differenze, in una Los Angeles del futuro prossimo venturo, vediamo Theodore, infelice per il divorzio con Catherine, sua compagna sin dall’infanzia, affascinato e poi eroticamente preso da Samantha, un nuovo sistema operativo, «OS 1», basato su un’intelligenza artificiale in grado di evolvere, adattandosi alle esigenze dell’utente, nel complesso film, Her di Spike Jonze del 2013. In senso inverso, per Sade il rapporto con gli altri si risolve in una relazione negativa. Le donne divengono “l’oggetto erotico”, nel godimento-sofferenza, per cui devono avere una sorta di coscienza incerta, oggettivata, priva di volontà, ridotta allo stato di un automa. Del resto, la più antica macchina programmabile o il primo automa o robot industriale veniva messo a punto, qualche anno dopo la morte del memorialista veneziano, nel 1801, da Joseph-Marie Jacquard con il telaio meccanico che inizia la rivoluzione industriale nel produrre tessuti con l’ausilio di rulli perforati. La quantità di stoffa prodotta dai telai meccanici invade i mercati e aumenta vertiginosamente l’offerta tessile e la disponibilità a cambiarsi d’abito nell’interazione sociale che rappresenta la prima fase del consumismo dettato dai mutevoli modi della moda, per categorie di persone sempre più numerose residenti nelle città. La vicenda complessa del Polemoscopio, denota anche l’esistenza di un nuovo spazio teatrale allargato. Qui lo stesso pubblico dei palchi e della platea diventa un unico sguardo della società, diretto a decodificare quello degli attori, nel senso etimologico del termine, di quelli che «agiscono», dietro a binocoli e polemoscopi come se fossero maschere. Questa società che guarda, scruta e giudica le intenzioni dei personaggi, ne valuta le mosse, come nel brusio di un foyer che diventa il coro reale della tragicommedia. La pièce è attraversata anche da una vocazione all’esemplarità che rivela la concezione teatrale di Casanova. Nel Soliloque d’un penseur (Editions Allia, Paris, 2000), Casanova ritiene che solo le buone commedie possono istruire le persone semplici contro imbroglioni e avventurieri. Ovviamente qui abbiamo una scissione tra la figura del Casanova autobiografico, avventuriero ai limiti della legalità «on the edge» e spesso disonesto «fripon», verso gli altri e il Casanova saggio pensatore e narratore del castello di Dux. Il teatro sarebbe per lui un laboratorio cognitivo, dove sulla scena, come in una provetta, i comportamenti positivi e negativi vengono ingranditi e osservati nelle loro diverse componenti. Insieme alla matematica e alla lettura anche il teatro è un esercizio della mente, prepara alla vita. Una concezione che avvicina il memorialista veneziano al pensiero di Diderot, molto più impegnato, perché rapportato all’allargamento del teatro ad un pubblico borghese come testimoniano tra le sue commedie, Le père de famille (il padre di famiglia) di cui cura le prove nel 1761 a Parigi prima della rappresentazione a Napoli nel gennaio del 1773 al cospetto di re Ferdinando e Le Fils naturel (il figlio naturale) del 1771. Alla pluralità « des espèces dramatiques » si sostituiscono negli intenti del filosofo enciclopedista, le situazioni esistenziali che condizionano i caratteri tipizzati dei personaggi e le loro passioni per educare attraverso l’emozione costruita sull’espressività sentimentale commovente con intrecci semplici, realismo delle situazioni e azioni e dialoghi incisivi. In pratica realismo sociale e realismo psicologico devono tradursi in realismo scenico. Il ricorso dimostrativo alle lacrime, in segno di commozione, caratterizza il comportamento degli spettatori a teatro nel XVIII secolo, al punto che autori e attori vi scorgevano un attestato di gradimento importante quanto gli applausi. Anche le lettrici di romanzi manifestavano in lettere di ringraziamento indirizzate a Rousseau, dopo la lettura del suo romanzo epistolare Julie ou la nouvelle Héloïse, un vero best seller del XVIII secolo, la loro commozione, raccontando le lacrime di piacere « larmes si délicieuses» versate. Sempre in sintonia con Diderot, Casanova sostiene che la sensibilità e le passioni sono utili, se ben orientate, in quanto indispensabili alla dignità degli esseri umani e alla comunicazione tra loro, come le lacrime che svelerebbero un’autentica vocazione alla socialità. Si tratta comunque di un pianto in pubblico che spesso è un “effetto efficace” scambiato per una causa. Il pianto commosso, come sistema di comunicazione della sincerità in pubblico, nel Settecento era manifestato dagli uomini e dalle donne, in contrasto con l’appannaggio esclusivamente femminile delle lacrime nella società borghese ottocentesca. Anche il nobile Gissor nel Polemoscopio piange dinanzi agli altri ufficiali dopo aver scommesso con Talvis, come riferisce la Marchesa alla Contessa (atto III, scena IV). Si può dire che, dalla fine del XX secolo, la neo-televisione, annullando sempre più le separazioni tra la sfera del pubblico e quella del privato, abbia ripristinato una retorica passionale delle lacrime estesa tanto agli uomini quanto alle donne, così come accade ai politici o ai tele-predicatori o agli/alle «influencers» che devono farsi perdonare una distrazione dei fondi del partito o una scappatella con la segretaria o l’appropriazione indebita di offerte di beneficenza. Essi/esse piangono o fingono di farlo secondo la regìa narrativa di occulti «spin doctors» artefici e difensori dell’immagine mediatica di questi personaggi pubblici. Come sa bene qualsiasi buon attore, piangere a comando è molto facile, ma sempre di sicuro effetto su chi osserva. Voltaire diceva che le attrici dovevano avere il dono delle lacrime, cioè saper piangere in modo da far piangere il pubblico. La posta in palio era quella di comunicare contenuti anche complessi, ma presentati in modo da catturare l’attenzione del pubblico pagante della nascente società dello spettacolo attraverso un’intensa partecipazione emotiva. In questa direzione si muove anche Casanova romanziere che per ragioni di mercato editoriale, sposa le “ragioni del cuore” adattando in italiano il toccante romanzo epistolare a carattere sentimentale di una giovane donna abbandonata alla vigilia del suo matrimonio, un best seller dell’epoca, Lettres de Juliette Catesby à Milady Henriette Campley, son amie, del 1759, scritto da Madame Riccoboni, (Marie-Jeanne de La Boras. Il cognome italiano veniva dal marito, l’attore Antoine-François Riccoboni, figlio di Lelio II, grande interprete della Comédie italienne di Parigi), che Giacomo intitola Lettere della Nobil Donna Silvia Belegno alla Nobil Donzella Laura Gussoni e lo pubblica a Venezia nel 1779. Inoltre adatta in italiano con il titolo di Aneddoti veneziani militari ed amorosi,nel 1782, il romanzo storico-sentimentale Le siège de Calais, pubblicato a Parigi nel 1739 da un’altra scrittrice di successo, Madame de Tencin, dalla vita avventurosa, intellettuale aperta al mondo della finanza con il suo celebre salotto parigino, amante, tra gli altri, del letterato, drammaturgo e scienziato Bernard de Fontenelle e madre del filosofo e matematico d’Alembert. Il dibattito sull’affettività della narrazione rimbalzava dal romanzo alla scena, in quanto scrivere per il teatro era molto più remunerativo, come nel caso del figlio di Lelio Riccoboni, in arte Lelio II, della Comédie italienne di Parigi, che sosteneva la tesi contenuta nel Paradoxe sur le comédien (Paradosso sull’attore) di Diderot, sulla freddezza necessaria ad un attore per ricreare il personaggio con intensità maggiore sulla scena come teorizzava e praticava il grande attore inglese shakespeariano David Garrick capace di passare da un personaggio all’altro con grande intensità e consumata professionalità come infilarsi e sfilarsi un guanto. In Entretiens sur le fils naturel (Conversazioni sul Figlio naturale) e poi nel Paradoxe, per Diderot, i grandi attori «comédiens sublimes», devono essere capaci di un’interpretazione realista attraverso lo studio dei grandi modelli, la conoscenza della psicologia, l’esperienza della vita sociale trasposti in un lavoro assiduo di ricerca e controllo sulla messa in scena e in situazione del personaggio « l’habitude du théâtre ». L’attore in pratica deve essere dotato di intelligenza e fredda razionalità « le sens froid et la tête » in empatia artificiale con il pubblico come dimostra la grande professionalità degli attori napoletani che, secondo Diderot, dopo continue prove arrivano a possedere totalmente il loro personaggio con un certo distacco « blasé » che rende la loro interpretazione efficacissima e appassionante per il pubblico (Paradoxe sur le comédien, Paris, 1981, pp.175-176). La grande sensibilità di un attore “paradossalmente” ne fa un interprete mediocre e quindi limitato «borné» sulla scena. Queste teorie saranno riprese non solo in campo estetico in tempi successivi fino ad alimentare quelle tra attori di cinema e di teatro del Novecento e poi in quello della «communication power», degli uomini politici, attori interpreti del loro ruolo in pubblico, secondo la definizione di potere della comunicazione del politologo e massmediologo Manuel Castells. A Diderot come a Casanova non sfugge quindi la necessità di praticare un teatro «très étendu» o teatro «espanso», realista e borghese, con rappresentazioni di eventi simultanei su di una scena come quarta parete. Espanso per Casanova significa anche dispositivo culturale da cui emerge nel verosimile teatrale, il comportamento individuale condizionato dalla società della «politesse» elaborata e controllata dal modello aristocratico, punto di riferimento per quello borghese secondo lo stesso processo analizzato negli anni Trenta del secolo scorso, dal sociologo tedesco Norbert Elias che mostra come la struttura sociale e la struttura psichica si plasmino a vicenda. Per contro, l’attrice e scrittrice Madame Riccoboni, nuora di Lelio II, presa a modello negativo da Diderot stesso per la sua adesione totale ai personaggi interpretati, contestava queste tesi, perché convinta della necessità di una forte partecipazione emotiva dell’attore per dare più forza espressiva al personaggio da interpretare come in seguito hanno sostenuto anche Sarah Bernhardt, Ludmilla Pitoeff e Pierre Brasseur. Casanova è contrario all’affectio come partecipazione al sublime e alla felicità così come viene vissuta dalla protagonista della Nouvelle Héloïse di Rousseau, pubblicata nel 1761. Nel lungo e approfondito saggio sul romanzo di atmosfera rousseauiana di Bernardin de Saint-Pierre, Paul et Virginie (Documents Casanoviens, n. 1, 1985), Casanova riprende in maniera sistematica la sua critica alla natura idealizzata e alla nostalgia di un’età dell’oro dei sentimenti, elaborata dal filosofo ginevrino. Critica il sentimentalismo di Bernardin de Saint-Pierre e quindi anche quello di Rousseau con il suo moralismo sui rapporti tra gli uomini all’interno della società profondamente viziati da un’attitudine ineliminabile alla menzogna e all’ipocrisia tanto che, in generale, per il filosofo ginevrino è impossibile distinguere l’apparenza di ciascuno dal suo essere reale e quindi condanna il teatro come esempio negativo di questa forma di ipocrisia sociale. Siamo quasi agli antipodi delle idee di Casanova che accusa Rousseau anche di voler separare l’amore spirituale dalla sua sensualità epidermica o carica libidinale come diremmo oggi. Nel dialogo Le Philosophe et le théologien, Casanova risale a Cartesio come responsabile della moderna separazione tra mente e corpo (Histoire de ma vie, « Annexes », Paris, 1993, tome III, pp. 1187-1195). Ma se nell’incontro con Voltaire Casanova fa valere il sentimento, contro Rousseau mette in evidenza l’uso moderato della ragione quasi un argine contro il nascente sentimento romantico. Voltaire e Rousseau costituiscono i due modelli entro i quali si sviluppa la filosofia di Casanova. Il Polemoscopio oscilla tra questi due poli, sospeso tra razionalità e sentimento, alla ricerca di un compromesso di equilibrio e in tal modo registra in pieno la fine di un’epoca, mentre a Parigi la Rivoluzione, condannata dal dissidente Casanova, sta spazzando via l’Ancien Régime. I personaggi della tragi-commedia si trovano con i battiti dei loro sentimenti attutiti dietro la maschera della «politesse» o della società delle «buone maniere», tardo settecentesca, ma i loro conflitti sono già borghesi, equivoci delle apparenze destinati, nelle tempeste romantiche successive, a generare grandi illusioni o frustranti delusioni. Relazioni adulterine che diventano vortici per drammatiche vie d’uscita, guerra di sessi e di passioni mai dichiarate o espresse al momento sbagliato. Duelli inutili, perché fuggono quelli con cui battersi o sono gli antagonisti sbagliati. Commedie che diventano tragedie non più in grandi palazzi ma in stanze anguste, come le coscienze che vi abitano, con gli occhi addosso invisibili dei vicini di fronte o di ballatoio o peggio, come nel film di Sam Mendes del 1999, American Beauty, osservati a metà dalla visuale aperta di una finestra alla sbirciata di un vicino o della sua telecamera libera di interpretare quello che non è, vittima delle distorsioni di senso operate da un approssimativo polemoscopio mentale. Tutto questo è stato il pane quotidiano del teatro e del cinema del Novecento, dove i postini che suonano sempre due volte, un po’ meno Gissor e un po’ più Talvis, si fanno trascinare nelle spire del delitto per liberarsi di un vecchio marito. Nelle sue Memorie Goldoni non cita Casanova, pur avendo lavorato con la madre in un ambiente dove gli attori veneziani si conoscevano tra loro in Italia e in tutta Europa. Casanova si era battuto da giovane per il realismo goldoniano contro i sostenitori dell’Abate Chiari, l’altro drammaturgo, traduttore e romanziere di successo a Venezia. Egli afferma, con una certa sufficienza, dinanzi a Voltaire, che Goldoni è il Molière italiano e di essergli amico ma non gli manifesta una grande simpatia. «Goldoni non è un brillante conversatore – egli dice – è insipido e di uno sdolcinato sentimentalismo» (Histoire de ma vie, Paris, 1993, tome II, p. 416). Probabilmente Casanova oltre a una certa gelosia verso il suo illustre compatriota lo considerava datato e guardava a modelli teatrali di stampo francese, come principalmente Marivaux. Inoltre, lo definisce un mediocre conversatore in società, nei salotti, altro palcoscenico importantissimo per il teatro espanso di Giacomo e di Diderot per cui in quel luogo «lo spettatore coincide con l’attore». I salotti parigini erano luoghi di socializzazione ma anche di dibattito filosofico o religioso, dei centri del pensiero (insieme alle Università e agli scambi epistolari) come tra i tanti quello prestigioso del Barone d’Holbach, enciclopedista, filosofo materialista e «grand salonnier», in un’epoca in cui i giornali erano ancora pochi e sotto il controllo del potere monarchico. Il profilo di Casanova, anche se non aveva aderito in pieno alle innovazioni radicali e democratiche dei philosophes enciclopedisti, è comunque quello del letterato europeo aperto a nuovi interlocutori, oltre ai sovrani illuminati, in sintonia con quanto si delineava specialmente in Francia e Inghilterra, ma che in Italia era quasi del tutto assente. Manca per esempio, eccezion fatta per Venezia, la valorizzazione del crescente mercato editoriale e del mestiere di giornalista. Non c’era spazio per il romanzo, in quanto, mancava nella Penisola un pubblico di lettori come in Francia e in Inghilterra. Casanova, prima di finire bibliotecario del principe di Ligne, aveva tentato nuove strade attraverso un rapporto con il pubblico grazie alla sua attività di teatrante, romanziere, drammaturgo e editore. Uno scrittore poligrafo in cerca di lettori, ma specialmente lettrici, le più numerose all’epoca. Come sappiamo il modo migliore per valutare la potenza espressiva e l’attualità dei significati di un’opera teatrale o musicale è quella di rimetterla in scena o di eseguirla nuovamente. In occasione del bicentenario della morte di Casanova nel 1998, avendo avuto l’incarico delle celebrazioni casanoviane da Piero Corsi, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, decisi di mettere in scena con l’aiuto del regista Armone Caruso e una compagnia di giovani attori italofrancesi proprio il Polémoscope, per la prima volta nella versione originale francese, nella mia edizione critica in seguito pubblicata con la mia traduzione in italiano a fronte (Le Polémoscope ou la calomnie démasquée par la présence d’esprit, Alessandria, 2003). Realizzai per l’occasione, nell’hôtel de Galliffet, appena restaurato (l’edificio neoclassico settecentesco sede dell’Istituto Italiano di Cultura parigino) anche un film del backstage della tragi-commedia prodotto dall’Université Paris Nanterre, con il titolo di Regards Tordus, Paris, 2003 e una versione inglese Twisted Glances, sempre nel 2003. Ripresentai il Polémoscope in versione italiana, nella mia traduzione, in margine ad un convegno a Sorrento sulle opere di Casanova, da me organizzato nel settembre del 1999, con il supporto del locale Istituto di Cultura Torquato Tasso e del Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo, in cui intervennero i più autorevoli studiosi casanovisti e di letteratura teatrale francesi e italiani, Annalisa Aruta, Alain Jaubert, Antonia Lezza e Chantal Thomas a cui si aggiunsero nella pubblicazione degli atti gli interventi di Nanni Balestrini, Gian Paolo Renello e Federico Di Trocchio, oltre a quelli del sottoscritto (Passioni e teatri di Casanova, Fiesole, 2002). Queste rappresentazioni del Polemoscopio hanno rianimato il testo sia attraverso il rigore filologico, sia con le soluzioni sceniche del regista e con il lavoro degli attori, sulle motivazioni dei personaggi per cui è nuovamente riapparso come da un palinsesto, il sottofondo o i significati dell’opera attraverso e sotto la maschera delle situazioni. In seguito, per evocare in una sintesi teatrale il mondo di Casanova, scrissi e misi in scena nel 2007, Un talk show con la figlia di Casanova e nel 2015, Ninì, il nipote di Casanova racconta… pubblicati poi in testo bilingue francese e italiano (Un talk-show avec la fille et le neveu de Casanova, Paris, 2021). Per Ninì, il nipote di Casanova, ho preso come punto di partenza il nipote acquisito, Carlo Angiolini, marito di Marianna detta Manon, a Dresda, la figlia di Maria Maddalena Casanova, sorella di Giacomo, anche lei attrice nel teatro di sua madre Zanetta. Angiolini era presente al castello di Dux (Regno di Boemia, oggi Repubblica Ceca) quando Giacomo Casanova morì il 4 giugno 1798, perché vi si recò per recuperare il manoscritto delle Memorie dello zio, scritte in francese, pubblicate per la prima volta in Germania dall’editore Brockhaus tra il 1822 e il 1828 in traduzione tedesca. Ho immaginato, invece, il personaggio di Ninì Casanova, un nipote cresciuto a Napoli, del ramo napoletano della famiglia Casanova, maestro di scherma, avaro, per nulla seduttore al contrario di Giacomo. Così, attraverso le domande poste dal nipote al mitico zio, quasi il racconto di un’intervista, tra spazio e tempo, il monologo di Ninì Casanova, mira a ricostruire lo spirito e forse il senso storico ed esistenziale di Casanova e del Settecento, così come trasmesso dalle sue Memorie e da quelle scritte dai contemporanei che lo hanno conosciuto. L’attore Lello Giulivo, con l’esuberanza espressiva e la professionalità del grande interprete, ha materializzato sulla scena questo nipote che dà forma drammaturgica alla scoperta della personalità dello zio. Ninì, il nipote di Casanova è stato messo in scena più volte, in letture teatrali, tra il 2015 e il 2016, nell’ambito delle attività dell’Associazione Culturale Palma Cappuro di Sorrento e del Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo di Napoli con la mia regìa e con l’interpretazione di Lello Giulivo e recentemente nell’atmosfera magica della « Castella » in occasione della XXII edizione del festival dell’Aurora, teatro e musica, a Isola di Capo Rizzuto (Crotone), il 15 giugno del 2024 ancora con la mia regìa e nell’interpretazione di Lello Giulivo, in forma di melologo, come si praticava dal XVIII secolo, dove i passaggi che hanno maggiore accento emotivo vengono sottolineati da un accompagnamento musicale. Come le donne, paragonate ai libri in cui più che il corpo conta la messa in scena del corpo, la sua lettura, così tutta la scrittura di Casanova ci parla della maschera e ce la descrive nella sua esteriore interiorità in quanto ossimoro della sua componente essenziale e esistenziale. La cognizione della maschera, di vivere in un mondo di maschere, permette anche di interpretare pertinentemente i comportamenti e così di saperli smascherare come avviene nel Polemoscopio. Una maschera che diventa teatro e scrittura totale come conoscenza. I valori morali sono visti attraverso la maschera di sguardi e comportamenti sottratti ad altri comportamenti e ad altre idee. Si potrebbe parlare di «essenza filtrata» secondo una definizione dell’universo casanoviano della maschera data dallo scrittore austriaco Stefan Zweig. Anche l’onesta Contessa del Polemoscopio dice la verità attraverso il suo linguaggio mascherato. Dalla cultura della maschera Casanova ricava e compone il suo personaggio più riuscito, un migrante della memoria. È il suo personale percorso a determinare il suo passato, come un’anamnesi per giungere alla definizione del suo carattere, la maschera per la conoscenza di sé fatta di ricordi in cui si specchiano i vari livelli della personalità del Casanova raccontato e messo in scena dal memorialista. Casanova personaggio autobiografico, costruisce la sua maschera a testimonianza di una instabilità e inconciliabilità con il mondo a causa della sua condizione marginale come Pinocchio attraverso le sue metamorfosi. Questa maschera narrativa e teatrale di avventuriero, tanto preoccupata di sedurre fino a dimenticarsi di se stessa, eclissandosi per raccontare degli altri a cui rivolge il suo interesse, diventa il contenitore di tutto il Settecento che le Memorie mettono in scena per e con il lettore, spettatore potenziale. Di qui il bisogno di giocare d’azzardo e di barare, imbrogliare, con le carte e con le parole fabbricandosi il falso titolo nobiliare di Cavaliere di Seingalt, vivere dietro i segni senza stare da nessuna parte e ovunque con un rigore matematico. Si distacca da donne e cose perché desidera profondamente di essere immerso in donne e cose, di farne intimamente parte. Vuole vivere in tante storie, moltiplicarsi in tanti personaggi diversi restando sempre lo stesso. Con una madre lontana in tournée teatrale, cresciuto con la nonna è un aspirante figlio di tanti padri che lo abbandonano. Da quello naturale e assente, forse il patrizio veneziano Michele Grimani, al padre putativo Gaetano Casanova morto precocemente, al padre adottivo di elezione, il patrizio Bragadin, all’ambasciatore Pierre de Bernis, vissuto e raccontato come padre padrino degli sguardi erotici nascosti che lo inizia alla carriera della seduzione complessa della società aristocratica della maschera come teatro del comportamento e della morale. Con una figura paterna assente si sviluppa il suo rapporto conflittuale con l’autorità. Questo è l’aspetto di Casanova, eroe di se stesso che determina la sua personale odissea in cerca di un riconoscimento definitivo da parte della società, per affermare il suo isolamento aristocratico. Per essere veramente con gli altri bisogna non aver paura di trovarsi da soli. Fugge dal lockdown imposto dalla precoce vecchiaia con la scrittura della sua vita che lo diverte come digressione o evasione, chiuso a scrivere nella sua stanza giorno e notte. In questo modo tante parole, tanto sperma, saliva e inchiostro e tanti suoni delicati o cacofonici, servono ad allontanare la cognizione del vuoto e della morte. Anche Pirandello ci parla di maschere che sono elemento esteriore e interiore dell’identità, una finzione accettata dall’uomo per evitare il caos e la pazzia. La maschera di Casanova non prevede l’alienazione pirandelliana ma la cognizione. È epistemica in quanto aiuta la codifica e la decodifica della vita in società, non c’è bisogno di toglierla per fare uscire alla luce l’inconscio. La maschera casanoviana considera l’interiorità come un inconscio aperto, una finestra sul mondo esterno che si alimenta del rapporto sempre mutevole con l’altro, nell’interiorizzare il “fuori” con ciò che l’individuo non è ancora stato o con ciò che ha cessato di essere. In questo modo la maschera introduce il rapporto tra interiorità ed esteriorità in chiave psicologica. È una superfice di contatto come la pelle è il luogo frontiera degli scambi, degli accomodamenti, dei segnali sensibili ma anche dei confitti e dei traumi. La pelle appartiene già all’esterno ma si possono interiorizzare sia l’orizzonte dominato dallo sguardo sia lo spazio in cui ci muoviamo. In questo modo si istaura una sorta di economia volontaria che regola, valuta e restringe la quantità di passioni che possiamo manifestare all’esterno secondo una saggezza coltivata nell’interiorità soggettiva. Non è una maschera che simula e mente. Per contro essa invita a dosare e ad ottimizzare come in matematica, il sentimento e l’eccitazione. In una lettera alla principessa Marie-Christine Clary de Ligne, del 1789, Casanova esplicita ulteriormente il concetto affermando che se una donna per l’avvenenza del suo aspetto lo colpisce a prima vista e gli accende il cuore di passione, per non rischiare di essere perduto deve agire dominando i sentimenti come un filosofo dell’amore, per avere con la donna desiderata un rapporto reciproco di piacere e di soddisfazione armoniosa (Documents Casanoviens, n. 1, 1985, pp. 5-6). Insomma gli orgasmi controllati, intelligenti e condivisi fanno godere di più e più a lungo. Questa virtù che in francese si chiama «retenue» è un vincolo all’esagerazione e all’eccesso incontrollato dei comportamenti tra noi e il mondo esterno come un sistema critico per ragionare sui dati e valutarli in quanto il problema non è la maschera in sé ma l’idea che noi ci facciamo della realtà con le tante maschere che la nascondono ai nostri sensi. In questo modo la cognizione di vivere in un mondo di maschere ci rende più attenti, più intelligenti e più scaltri nelle decodifiche dei segni del mondo che ci circonda, evitandoci l’alienazione nella pigrizia mentale del mito di una realtà unica, immutabile e assoluta. Oggi comprendiamo meglio questa problematica con la parcellizzazione della realtà a partire ancora una volta da quella fisica osservata al microscopio elettronico, dove invece della sua compattezza, scopriamo che dietro protoni, neutroni ed elettroni si nascondono i quark e dietro di loro ancora un altro elemento. Per restare in ambito teatrale, potremmo definire la realtà simile a Iago, il traditore dell’Otello di William Shakespeare (The Tragedy of Othello, the Moor of Venice). Vorremmo togliergli l’ultima maschera, ascoltare l’attore pronunciare nel finale «ecco chi veramente sono!» in modo da sentirci finalmente noi stessi, rassicurati perché non siamo lui. La realtà fisica e con essa quella virtuale, dei «social networks» con le «fake news» inviate sul nostro smartphone, del dialogo con i nostri assistenti robotici, con quelli delle segreterie telefoniche, dei videogame, dei computer guidati e regolati dalle intelligenze artificiali, ci negano questa agnizione finale, ci rinviano di apparenza in apparenza come un racconto delle Ficciones (Finzioni) di Jorge Luis Borges, intitolato Le rovine circolari, ci rinvia di sogno in sogno senza fine. Anche il teatro ci rifiuta l’agnizione perché Iago non dirà più nulla. Come in una appassionante spy story quasi nulla è come sembra. Il nostro immaginario deve allora supplire alle deficienze della realtà. Non è la stabilità e l’identità che caratterizzano la realtà ma la provvisorietà e il mascheramento che implicano il successivo smascheramento continuo. Anche la microbiologia ci ha ricordato, in occasione della recente pandemia, che riproduzione, evoluzione e metabolismo costituiscono i principi della realtà vivente. Concetti scientifici che il senso comune condizionato da visioni trascendenti e quindi statiche del mondo, fatica ad immaginare e ad accettare. Dobbiamo correre dietro una realtà instancabile che ad ogni maschera che le togliamo ce ne presenta subito un’altra in una zona crepuscolare dove l’ombra si confonde con la luce e si distinguono appena le direzioni della nostra ricerca per cui un buon ricercatore deve dare prova di creatività e di rigore come il detective che con immaginazione e logica deduttiva riesce a smascherare l’autore del delitto. In questo senso il Polemoscopio casanoviano conferma la modernità della teatralità che sottende una concezione spaziale del palcoscenico estesa alla socialità dei comportamenti e al rapporto tra soggetto e oggetto, cultura e natura. Viviamo in una “società dello spettacolo” diversa da quella negativa di stampo rousseauiano fatta di spettatori passivi e alienati dalla mercificazione di ogni aspetto della vita quotidiana, teorizzata dal filosofo situazionista Guy Debord, nella seconda metà del Novecento. Al contrario, per Casanova, siamo tutti attori, bravi e meno bravi, personaggi protagonisti delle nostre esistenze, con le leggi della fisica che corrispondono a quelle del comportamento, dove gli sguardi attraverso la maschera come le lenti del polemoscopio, denotano una forma mentis immanente, una coscienza necessaria per saper decriptare le distorsioni, per vivere e orientarsi con gli altri nel mondo.