Le fratture della memoria. Storia delle donne in Italia dal 1848 ai nostri giorni

Marco Severini, Le fratture della memoria. Storia delle donne in Italia dal 1848 ai nostri giorni, Marsilio, Venezia2023, pp. 440
di Silvia BOERO
Un testo agile, profondo e necessario, che permette a chi legge di intraprendere un viaggio conoscitivo non solo nell’ambito della storia contemporanea, ma anche degli studi femministi e di genere: questo è il libro preso in esame di Marco Severini, docente di Storia delle Donne presso l’Università di Macerata. Il titolo evidenzia la necessità improrogabile di una presa di consapevolezza dell’incommensurabile valenza che le donne in Italia hanno sempre avuto e avranno, urgenza sottolineata dal termine fratture, inteso ad evidenziare le interruzioni – volute e non – nella memoria collettiva riguardo al ruolo femminile nella nostra Storia. Ponendo l’accento su tali vuoti, il testo si fa voce di un necessario dissenso intenzionale e funzionale alla sovversione di paradigmi stantii – non soltanto storici, ma anche politici e sociali – di un Paese in cui le donne sono ancora il bersaglio di un’aggressione reiterata e mirata alla cancellazione dei loro diritti, così faticosamente acquisiti durante l’ultimo secolo e mezzo o poco più. Severini, con questo suo lavoro, ci obbliga a confrontarci con domande complesse, proponendoci risposte non meno articolate; il testo rivela quindi l’impegno e l’intenzione dell’autore di coinvolgere chi legge – non solo chi opera a livello accademico – ma anche chi si dedica alla pratica sociale, alle lettrici e lettori in generale. Come lo storico statunitense Howard Zinn, nel suo libro A People’s History of the United States (New York: Harper & Collins, 1999) Severini mira a risvegliare una più profonda coscienza riguardo all’ ineguaglianza di genere e – spesso – ad una nazionalistica arroganza che nega le responsabilità di un establishment sempre più impegnato nella glorificazione del patriarcato.
Il lavoro di Marco Severini è scevro da tentativi di celebrazioni; sposta invece l’attenzione sulle vite di ogni giorno di tutte le donne ricordate – anche le più famose – così da renderle modelli credibili per le generazioni attuali. L’asse cronologico attorno al quale ruota l’organizzazione del testo è perfettamente imperniato su quello socio-politico; diviso in sei capitoli, a partire dal 1848 per terminare al 2023, il testo si snoda attraverso le tappe fondamentali della storia di tutte e tutti noi.
Il primo capitolo, dedicato al periodo risorgimentale (a lungo considerato di appannaggio esclusivamente maschile, si è rivelato invece essere autentica“roba da donne”, grazie a studi approfonditi tra i quali molti dello stesso Severini) non a caso intitolato “L’adolescenza delle italiane”, prende in esame figure quali la ormai nota Cristina Trivulzio di Belgiojoso, insieme ad altre meno conosciute ma non per questo meno cruciali, come Adele Cortesi – giornalista per il trisettimanale veneziano «Circolo delle Donne italiane» – la quale, nei suoi articoli, con ironia e determinazione, invita alla sovversione del supposto equilibrio naturale sociale che vede le donne in soggezione rispetto agli uomini. O, ancora, veniamo a conoscenza di Caterina Franceschi Ferrucci, autrice di un testo all’epoca imprescindibile per le donne che volevano definirsi “educate” intitolato appunto Dell’educazione morale delle donne pubblicato nel 1847. Più conservatrice della precedente, risente di un certo fondamentalismo derivato dal cattolicesimo, ma resta pur sempre sostenitrice dell’istruzione femminile come via d’uscita dall’asservimento all’uomo. Il Risorgimento ci mette a contatto con donne di enorme valore storico e sociale, da Ana Maria de Jesus Ribeiro, meglio conosciuta come Anita Garibaldi, alle protagoniste di quella che fu tra le più significative manifestazioni di uno stato autenticamente democratico – La Repubblica Romana – tra cui Colomba Antonietti, combattente uccisa il 13 giugno 1849 dal fuoco francese sulle barricate di Porta San Pancrazio. Il secondo capitolo vede le donne ancora discriminate, benché cittadine. Suddite di una monarchia che, nonostante le promesse, resta retrograda, le donne si battono in un’Italia apparentemente unita per rivendicare il diritto al voto e alla parità in ambito lavorativo – o meglio, per accedere al lavoro, infrangendo il pregiudizio fondato sul concetto di donna-moglie-madre. È il momento delle prime mediche, avvocate, ingegnere, donne di scienza, che tutte intraprendono con coraggio una strada ancora oggi in salita. Abbiamo il caso di Lidia Poët, laureata in giurisprudenza a Torino nel 1881, alla quale però viene negato l’esercizio a pieno titolo della professione, con inconsistenti motivazioni che rispecchiano il più becero maschilismo. Nonostante tutto, Lidia continuerà a combattere, per sé e tutte le altre, ottenendo ufficialmente il titolo di avvocata nel 1920. Vediamo prese in esame, in questo capitolo, altre forme di rivendicazione femminile, in particolare quella rappresentata dal viaggio, inteso come conoscenza e affermazione di indipendenza; più che interessante l’esempio che ci viene offerto da Giuseppina Croci, una viaggiatrice non facoltosa – un’operaia, lavoratrice in filanda – che partirà alla volta di Shangai nel 1890 in qualità di istruttrice per l’uso dei filatoi meccanici.
Il Novecento, fino al 1945 (terzo e quarto capitolo) ci mette di fronte alle conquiste che ancora oggi definiscono l’Italia in quanto stato democratico – o almeno si spera che lo resti. Veniamo a conoscenza delle proto elettrici, dieci insegnanti marchigiane, che, sull’impulso ricevuto da un proclama che Maria Montessori lancia dalle pagine del giornale “La Vita” – invitando le donne ad iscriversi alle liste elettorali – riusciranno ad ottenere il diritto al voto (seppure per un solo anno) nel 1906 (tra loro anche Giulia Berna che si batterà per la parità salariale – ancora lungi dal divenire realtà). La loro posizione fu sostenuta da Lodovico Mortara, insigne magistrato (già avvocato e docente universitario) il quale, interpretando lo statuto albertino, fece notare che nell’articolo 24, con il termine “regnicoli”, definiti tutti uguali dinanzi alla legge, non si specificava se maschi o femmine. La sentenza Mortara verrà poi sovvertita nel 1907, e la vicenda delle proto elettrici volutamente e forzatamente dimenticata.
Nei primi anni del ‘900 si assiste anche ad espressioni di forte denuncia e rivendicazione dei diritti delle donne in ambito letterario – basti pensare a Sibilla Aleramo con il suo autobiografico Una Donna e ad Anna Franchi con l’autobiografia romanzata Avanti il Divorzio. Paradossalmente, saranno periodi tragici quali la dittatura fascista e i due conflitti mondiali a dimostrare come le donne – con i loro contributi in ogni campo – siano l’asse portante della società. La Resistenza – così come il Risorgimento – porterà alla luce esempi di coraggio e valore inauditi; nell’associazionismo femminile vediamo forme di resistenza in nuce – si pensi a Suzanne Noël, chirurga plastica fondatrice per l’Europa del circolo internazionale e transclassista Soroptimist; in Italia, grazie ad Alda Da Rios, opererà, nella sua prima fase, fino al 1932, quando il prefetto di Milano ne imporrà la chiusura. Non meno rilevanti sono i contributi fuori dalla militanza antifascista strettamente intesa – eppure atti politici anch’essi – apportati dalle atlete, come Ondina Valla, vincitrice nel 1936, della finale degli 80 metri ad ostacoli; oppure Ettorina Sambri, ciclista ferrarese, campionessa anche motociclistica, che subirà le angherie di una società omofobica a causa della propria omosessualità dichiarata. Nomi quali Ada Prospero Gobetti e, più tardi, Nilde Jotti e Lina Merlin – madri costituenti – non hanno bisogno di presentazioni, ma ce ne sono altri che vanno altrettanto ricordati e raccontati; durante la Resistenza si assiste ad episodi di grande valore, per troppo tempo lasciati cadere nel nulla. È il caso di Alda Renzi, sarta anconetana, che con un semplice stratagemma artigianale, cucendo abiti da donna, da prete, e da fascista per i prigionieri detenuti nella Mole Vanvitelliana, riuscirà, grazie al travestimento, a farli evadere, salvando circa trecento persone. Alda non sopravviverà al bombardamento del 1° novembre 1943 – ma questo testo ne ha riscoperto l’azione e ne mantiene la memoria.
L’Italia repubblicana e sessantottina, il boom economico e i nuovi femminismi, gli anni di piombo e la seconda repubblica, la sessualità diventata anche politica, la spinta verso il pacifismo, la tutela dell’ambiente, le pandemie e la rivoluzione – o involuzione – digitale, occupano gli ultimi due capitoli, fitti di avvenimenti che già sono memoria a rischio di oblio. Tina Anselmi, la prima ministra, nel 1976 del Lavoro e della previdenza sociale, e poi, nel 1978-1979, della Sanità, è – con Nilde Iotti, prima presidente della Camera – una Madre della Repubblica. A questi nomi si deve accostare quello di Eugenia Chiostergi, protagonista della Resistenza e dell’antifascismo più temerario, educatrice – nell’Italia repubblicana – e simbolo di un anticonformismo che ancora oggi fa scuola. Un’altra donna poco conosciuta, Licia Rognini, oggi novantacinquenne, si racconta con Marco Severini in questo testo ed in un altro, un’intervista esclusiva condotta dall’autore e da Lidia Pupilli nel 2020. Licia è la vedova di Giuseppe Pinelli – l’anarchico morto il 15 dicembre 1968 defenestrato dall’ufficio al quarto piano della questura di Milano, durante l’interrogatorio in seguito alla strage di Piazza Fontana. Licia non si è mai fermata davanti alle risposte evasive che le sono state fornite; andrà ben oltre, arrivando – caso primo nella storia italiana – a denunciare il questore Marcello Guida che aveva liquidato la morte di Pinelli come suicidio.
Questi sono gli anni in cui vediamo le poliziotte, le carabiniere, le vigilesse urbane, le ferroviere, le dirigenti – tutte figure resistenti, perché di resistenza oggi più che mai bisogna parlare – di fronte all’onda di quel riflusso ancora non estinto. Sono anni di profondi contrasti, dove, alla fama mondiale di scienziate del calibro di Margherita Hack si contrappongono piatte forme femminili il cui unico scopo è quello di appagare l’occhio maschilista – si pensi a programmi in onda sulle emittenti berlusconiane, quali Drive In. Donne, sia ben inteso, e non certo sciocche e voluttuose apparizioni come l’entourage di cui sopra vorrebbe che fossero, impedendo loro una piena affermazione artistica. E partirà anche da qui la rivoluzione della sessualità a cui oggi ancora si assiste, non disgiunta dai precedenti femminismi (a cominciare da quello ottocentesco) ad opera di donne che “non volevano essere solo sexy”, ma che anche attraverso il proprio corpo affermano la loro valenza in quanto esseri partecipanti attivi della società. Anni, questi, in cui la visione dei generi cambia radicalmente, con la lotta ancora in atto per l’autodeterminazione della propria sessualità, indipendentemente dal genere biologico, dai binarismi imposti. Lotta che va di pari passo con l’ecofemminismo, a cui i Fridays for future sono strettamente collegati – si pensi alle donne che il 2 dicembre 1982 circondarono la base Nato di Comiso, in Sicilia – e con il pacifismo che ha alta espressione nell’Associazione internazionale delle donne in nero, che nel 1988 organizzò un seminario di pace a Gerusalemme, al quale parteciparono settanta femministe italiane. Gli ultimi vent’anni ci mettono davanti a scenari inimmaginati ma sicuramente immaginabili – non ci si riferisce soltanto alla già citata rivoluzione o forse involuzione digitale – ma anche a cambiamenti politici prevedibilissimi, ed evitabili, ai quali però non si è riuscito o non si è voluto fare fronte. Il berlusconismo che ha pavimentato, rendendola liscia, la strada ai nuovi attuali post-fascismi, l’assenteismo elettorale, la prima donna nella storia italiana a ricoprire la carica di presidente del consiglio. I nostri ultimi vent’ anni sono anche quelli in cui, finalmente, si comincia la battaglia al sessismo linguistico, e Severini ne fa nota accurata in questo ultimo capitolo, ricordando Alma Sabatini, la grande linguista che già negli anni ‘80 del secolo scorso proponeva metodologie per l’abbattimento degli stereotipi di genere nel linguaggio. Ma sono anche gli anni di pericolose svolte verso un passato oscuro, quando il femminicidio era sbrigativamente considerato crimine contro la morale e non contro la persona. Movimenti quali Mai più una di meno, costituitosi nel 2016, fanno ancora fatica ad affermarsi nell’opinione pubblica, nonostante i dati relativi alla violenza di genere siano in costante crescita. Questo di Marco Severini è dunque un lavoro fondamentale, un autentico must have non solo per qualsiasi biblioteca, ma per chiunque voglia capire che la storia siamo noi. Severini individua le implicazioni ideologiche del patriarcato, si addentra nell’indagine della domesticità e dei traumi che la definiscono, quando impostata sullo stretto binarismo dei rapporti, siano essi familiari e/o tra i generi. L’autore, in questo libro, ci rende più agevole il percorso tra gli intricati meandri di diversi eppure strettamente connessi percorsi storici, politici e sociali – che appartengono a chiunque legga, indipendentemente dal genere – intessendo, al tempo stesso, un testo organicamente intellettuale, profondamente gramsciano.
[recensione pubblicata in «il materiale contemporaneo», Rivista di storia contemporanea, n. 3, 2023, pp. 93-98]