Guida Galattica per i lettori |Maggio 2022

Contenuti:

  • AMICO ROMANZO
    Chi dice la gente che io sia? Il romanzo di una straordinaria esperienza, a cura di Mario CORBO
  • SIPARI APERTI
    Testimonianze storico-artistiche: uno scrigno segreto nella bottega di Mimmo Cuticchio, a cura di Emanuela FERRAUTO
  • COME SUGHERI SULL’ ACQUA
    La vertigine del taglio è nella faglia del fuoco, a cura di Ariele D’AMBROSIO


AMICO ROMANZO

Chi dice la gente che io sia? Il romanzo di una straordinaria esperienza

a cura di Mario CORBO

Gennaro Matino,
Chi dice la gente che io sia?, Alba (Cuneo),
Gruppo Editoriale San Paolo, 2022

Gennaro Matino, Chi dice la gente che io sia? Il romanzo di una straordinaria esperienza, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2022, pp. 266.

«Se Dio è il libro, la Sua perfezione non può essere che nella lingua(1)».

Sia l’Antico che il Nuovo testamento sono un ‘racconto’, la ‘narrazione’ della relazione tra il divino e l’umano, una relazione d’Amore, che, ponendo in contatto queste due dimensioni dell’essere, crea le condizioni per una loro reciproca intellegibilità: il divino si rivela all’umano e l’umano si apre al divino in un processo di progressivo avvicinamento che raggiunge la sua pienezza in Cristo, umanizzazione del divino(2). 

Come nell’Antico Testamento non troviamo argomentazioni astratte su Dio, ma solo la narrazione delle modalità del suo rivelarsi, così nel Nuovo Testamento il racconto tende a descrivere il modo d’essere di Gesù di Nazareth: le azioni e i pensieri di un uomo profondamente libero sia nei confronti della tradizione religiosa giudaica sia, in genere, rispetto ai condizionamenti sociali del tempo. 

Il racconto neotestamentario della vicenda di Gesù di Nazareth non è e non vuole essere una ricostruzione storica della sua vita, fatta sulla base di documenti oggettivi, ma la descrizione appassionata del suo pensare e del suo agire, fatta da uomini di fede, da credenti convinti della necessità di dover testimoniare la propria fede, che non esprime l’adesione ad un corpus astratto di norme etiche e religiose, ma l’accoglimento della proposta di vita e del messaggio di liberazione di Cristo, incarnato in ogni sua parola e comportamento. 

I Vangeli non sono, quindi, il racconto dei principi generali di una nova religio, ma la narrazione affascinante dell’esperienza straordinaria di coloro i quali, avendo incontrato sul proprio cammino Gesù di Nazareth, dissero sì alla sua chiamata, credendo ed affidando il cuore ad un uomo che aveva chiaramente legato le proprie sorti a quelle degli esclusi e dei sofferenti e, in tal modo, «tra dubbi e certezze riconobbero nel Maestro di Galilea il volto di quel Dio che il Cristo, uomo tra gli uomini, chiamava Abbà, Papà(3)».

«Il silenzio non è debolezza del linguaggio.

È, al contrario, forza…

Più che al senso, aggrappati al silenzio che ha modellato la parola(4)».

Mi sembra che il libro di G. Matino, oggetto di queste brevi riflessioni, sia in perfetta sintonia con gli intenti originari dei redattori neotestamentari. 

Egli si propone di sviluppare e approfondire, in modo creativo, temi e personaggi di alcuni noti brani neotestamentari, attraverso i quali gli antichi autori intendevano raccontare e dare testimonianza della loro fede in Cristo, nuovo centro del tempo e della storia.

Ebbene, il nostro A., alla luce della propria fede e con una scrittura estremamente piacevole, che conserva la freschezza stilistica delle fonti originarie, delinea il profilo psicologico, ovvero i dubbi, le opzioni e le acquisizioni dei personaggi prescelti, raccontando la ‘storia’ possibile del percorso che li condusse all’incontro con Cristo, destinato a donare nuova linfa alla loro esistenza. 

Come i redattori originari scrissero alla luce della loro fede perché non andasse dispersa l’energia innovatrice in essa insita, allo stesso modo il nostro autore, uomo di fede, pastore e teologo, racconta, attraverso le sue storie, il potenziale di novità del messaggio di Cristo, nella sua valenza ‘rivoluzionaria’ rispetto alle tradizioni religiose, sociali e culturali dell’epoca.

Egli narra e costruisce storie, non in modo asettico, ma facendo interagire la propria fede con quella degli antichi autori, con cui riesce ad entrare in perfetta simbiosi formale e contenutistica. In tal modo prende vita non un’antologia di racconti brevi e suggestivi, sciolti tra di loro, ma un vero e proprio ‘romanzo’ (come si afferma nel sottotitolo del libro), cioè una storia compiuta che si articola in ventitré capitoli, nei quali si raccontano le vicende di una costellazione di protagonisti che ruotano intorno ad una stella polare, ricevendo da essa la luce necessaria per orientarsi nell’oscuro cammino dell’esistenza terrena. 

La parola e la prassi di liberazione di Gesù di Nazareth costituiscono il collante tra racconti solo in apparenza distanti, offrendo all’A. la possibilità di riempire di senso i silenzi delle narrazioni originarie, in modo che la propria fede interagisca, senza vincoli e in totale libertà, con quella dei primi cristiani, espressione di una chiesa allo stato nascente.

Il libro di G. Matino è, quindi, «il romanzo di una straordinaria esperienza»: la storia inaudita di una Relazione, una relazione d’Amore tra Dio e l’esser umano, tra Dio/Amante – che per primo ama in modo gratuito ed effusivo – e l’uomo/amato e, in quanto tale, chiamato ad accogliere l’amore di Dio per effondere, a sua volta, amore(5). Tutto ciò sulla scia di Gesù di Nazareth, che, senza ambiguità, ha indicato nell’accoglienza dell’altro, scartato, escluso e sofferente, la via maestra per costruire già qui, hic et nunc, il regno di Dio. 

Nel tempo attuale la chiesa di Papa Francesco appare sempre più orientata a trasformare in realtà l’istanza dell’amore che libera e affranca, connotandosi come «chiesa in uscita(6)», che, tra la gente e con la gente, cerca di costruire nuovi spazi di condivisione e partecipazione.

L’assetto sinodale che l’attuale pontefice, sin dagli esordi del suo pontificato, ha posto in essere nell’istituzione ecclesiastica, come svolta in senso partecipativo e democratico della struttura piramidale della chiesa, è segno di tale volontà. Spetta ora a tutti noi contribuire alla realizzazione di tale progetto, nei modi che ad ognuno sono più congeniali. Senza dubbio Don Gennaro Matino, attraverso l’impegno pastorale a servizio della comunità e la sua ricerca teologica, dona costantemente un contributo fondamentale ai processi di trasformazione in atto. 

Per quanto concerne, nello specifico, la sua ultima fatica letteraria, oggetto di questa mia breve analisi, anch’essa, come in genere tutta l’opera del nostro autore, appare in grado di stimolare la coscienza credente, tante volte offuscata da falsi problemi. Il testo conduce il lettore a meditare sui nuclei centrali della propria fede e sulla necessità di un rapporto personale con Gesù di Nazareth, da rinnovare costantemente per non cedere allo sconforto e alla delusione e superare la naturale tendenza all’autoreferenzialità, ricercando le ragioni per porre in essere comportamenti di condivisione fraterna, da cui discenda la speranza di poter vivere ancora, nonostante tutto, attimi di gratificazione e, perché no, di felicità.

Mario Corbo

1 Cfr. E. Jabes, Le Livre du Partage, Edition Gallimard, Parigi 1987, tr. it. Il libro della condivisione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992, p. 11.

2 Cfr. J. M. Castillo, La humanizaciòn de Dios. Ensayo de cristologìa, Madrid, 2010, tr. it. a cura di Dario Culot e Lorenzo Tommaselli, L’umanizzazione di Dio, Saggio di Cristologia, EDB, Bologna, 2019.

3 Cfr. G. Matino, Chi dice la gente che io sia? cit., p. 7. 

In Marco, 14, 36 si narra di Gesù nel Getsèmani, che, durante la preghiera, si rivolge a Dio chiamandolo Abbà: «Abbà, Padre mio, tu puoi tutto. Allontana da me questo calice di dolore! Però sia fatta la tua volontà, non la mia». 

Abbà è una parola aramaica che significa «papà», assolutamente non usata, nella religione giudaica, come appellativo con cui rivolgersi a Dio durante la preghiera. Si tratta, quindi, di un termine originale di Gesù, rivelatore della peculiarità del suo rapporto con il Padre.

4 Cfr. Jabes, Il libro della condivisione cit., p. 42.

5 Nella prima lettera di Giovanni leggiamo: «Miei cari, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore viene da Dio. Chi ha quest’amore è diventato figlio di Dio e conosce Dio. Chi non ha quest’amore, non conosce Dio, perché Dio è amore» (1 Gv. 4, 7-8) dal Nuovo Testamento, Traduzione interconfessionale dal testo greco in lingua corrente, Elle DI Ci Leumann (TO) -United Bible Societes (Roma), 1976.

6 Cfr. Evangelii gaudium, Esortazione apostolica del Santo Padre Francesco ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate e ai fedeli laici sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale, Città del varicano, 2013, cap. I, parr. 19-49.



SIPARI APERTI

Testimonianze storico-artistiche: uno scrigno segreto nella bottega di mimmo cuticchio

a cura di Emanuela FERRAUTO

VINCENZA DI VITA, Il Pupo Cuticchio ovvero la marionetta vivente, Spoleto (Pg), Editoria&Spettacolo, 2021, €16.

Il volume firmato da Vincenza Di Vita è frutto di un lungo studio e di una attenta osservazione dell’arte di Mimmo Cuticchio. Gli studi sul cunto siciliano e sui pupari devono essere svolti inevitabilmente attraverso la presenza costante all’interno di luoghi a lungo serrati, pervasi da segretezza del mestiere e aperti solo in occasione degli spettacoli pubblici. È evidente, dunque, che la studiosa siciliana abbia pazientemente atteso e osservato, entrando in punta di piedi all’interno di un mondo che, non a torto, per lungo tempo è rimasto velato e misterioso. Entrare all’interno della bottega e del Teatro di Mimmo Cuticchio è un privilegio: conquistare la sua fiducia significa scrivere e pubblicare, portare alla luce un mestiere complesso e antico, caratterizzato da molteplici sfaccettature ed evoluzioni. Proprio questa peculiarità emerge anche all’interno del volume, edito a dicembre 2021 da Editoria&Spettacolo, importante punto di approdo e di partenza per gli studi legati al cunto siciliano e all’Opra dei Pupi, studi spesso eterogenei, sparsi, rari a volte, mai univoci. Anche questo volume, infatti, tocca molteplici questioni, ma per la prima volta emergono delle tematiche poco conosciute e dei protagonisti importanti nascosti dietro le quinte, descrivendo alcuni aspetti inediti per gli studiosi e per il pubblico.

Partendo dal titolo ossimorico, Il Pupo Cuticchio ovvero la marionetta vivente, notiamo, analizzando anche l’indice, che il titolo di ogni paragrafo non è puramente descrittivo ed informativo, ma è anche poetico: attrae l’attenzione del lettore e, nello stesso tempo, svela poco. Scelta originale, ma rivolta ad un lettore attento e appassionato. 

La lettura di questo volume di 150 pagine inizia dalla bellissima copertina firmata da Tania Giordano, vera e propria opera d’arte dal titolo Le lacrime del dubbio. Il volume offre, infatti, una molteplice visione: letteraria, saggistica, giornalistica, artistica, non solo nel senso teatrale, ma anche pittorico. La copertina dalla duplice testa che ricorda un Giano bifronte, recupera l’ossimorico titolo della marionetta vivente. Cuticchio viene costantemente definito come una marionetta in carne ed ossa, come attore cuntista che ha assunto nel suo corpo e nel suo animo l’energia ancestrale e oscura della marionetta per poi restituirla al Pupo vero e proprio.

L’autrice ripercorre alcuni tra i più importanti studi su Mimmo Cuticchio, sul cunto siciliano e sull’Opra dei Pupi, ricordando l’imprescindibile racconto della vita e dell’assimilazione di un mestiere complesso che ritroviamo in Mimmo Cuticchio, La nuova vita di un mestiere antico. Il viaggio con «l’Opera dei Pupi» e il «Cunto», edito da Liguori, oltre ai molteplici e fondamentali studi di Valentina Venturini e di Anna Sica.

Dopo un utile glossario e una breve prefazione firmata da Paolo Ruffini, curatore della collana Spaesamenti, l’autrice apre il volume inserendo una bellissima poesia firmata da Mimmo Cuticchio e dedicata al figlio primogenito Giacomo, puparo e musicista. Una sorta di passaggio di testimone, di testamento o di regalo di nascita, un battesimo che viene rivelato proprio tra queste pagine. Segue un’introduzione scritta dalla stessa Di Vita. 

Il primo capitolo è diviso in tre paragrafi: il primo, dal taglio saggistico, recupera alcuni riferimenti sulla storia della marionetta e del pupo; il secondo si sofferma in maniera originale sulle donne di Cuticchio, riportando una lunga testimonianza del figlio Giacomo sulla figura e sull’importante ruolo della madre Elisa Puleo, moglie di Mimmo Cuticchio; una terza parte dal taglio giornalistico contiene l’intervista che Di Vita ha rivolto a Giacomo Cuticchio, cardine tra il passato e il futuro e testimone prezioso della famiglia.

Nel secondo capitolo, dal taglio saggistico, la studiosa riprende studi e approfondimenti di vario genere sul rapporto uomo-marionetta, facendo affiorare prepotentemente la sua formazione e i suoi studi di settore. Questo capitolo si conclude con una interessante descrizione della composizione delle parti del pupo, corredata da foto.

I due capitoli successivi approfondiscono il rapporto tra il lavoro di Cuticchio e il Don Chisciotte, il Macbeth e i riferimenti a due grandi modelli, Orson Welles e Carmelo Bene, sviscerando e svelando il tipo di lavoro letterario, contenutistico e di rielaborazione testuale e scenica che Cuticchio costruisce dietro i suoi lavori, da non considerarsi banalmente, soprattutto oggi, racconti dei Paladini di Francia e dei loro nemici infedeli. Il rapporto con Virgilio Sieni, per esempio, e i prodotti scenici ottenuti, sono il risultato di uno studio profondo sulla marionetta e sul teatro del Novecento, e anche quello contemporaneo, rivelando l’attenzione che Cuticchio, erroneamente considerato rigido e restio alle trasformazioni, sta, invece, perseguendo, pur rispettando ciò che ha costruito nel tempo.

Gli ultimi tre capitoli, prima dell’apparente chiusura affidata ad un’approfondita, necessaria e preziosa teatrografia, utile per chi vorrà intraprendere studi legati agli spettacoli della famiglia Cuticchio, appaiono, a mio avviso, dei tesori preziosi regalati al lettore: il primo descrive i bozzetti di scena e soprattutto dei costumi, firmati da Tania Giordano, creati in occasione dell’allestimento dello spettacolo Una corona sporca di sangue, ultimo dei tre Macbeth portati in scena da Cuticchio; il secondo rappresenta una intensa intervista a Cuticchio, realizzata dall’autrice il 9 ottobre 2021, che rivela il pensiero profondo del maestro; il terzo, in forma di diario, sbircia, attraverso le parole della stessa Di Vita nel ruolo di dramaturg, la nascita dello spettacolo citato. Si tratta di una selezione di appunti stilati tra gennaio e febbraio 2015.

Vorrei soffermarmi sui bozzetti dei costumi firmati da Tania Giordano, riportati a colori all’interno del volume: la scelta di elementi naturali caratterizza questi spettacoli attraverso una direzione “green” al passo con i tempi. Ogni stoffa, ogni decorazione, ogni oggetto che caratterizza questi costumi dei Pupi è descritto e annotato con minuzia all’interno di questi bozzetti. Ogni elemento, dunque, contiene significati e simbologie allegoriche fondamentali nella costruzione della personalità e del ruolo del personaggio.

Il volume sembra tentare continuamente una conclusione, ma non riesce in questa impresa: il lettore pensa di aver chiuso il suo viaggio ed ecco che, nella pagina successiva, si presenta altro materiale prezioso. Alla fine del volume, quindi, il lettore trova non solo la ricchissima teatrografia già accennata, ma anche l’accurata descrizione del materiale documentario contenuto all’interno dell’Archivio Giacomo Cuticchio, nel 2013 dichiarato di interesse storico. Manca ancora qualcosa, cioè l’elenco dei testi donati e consultati, editi dall’Associazione Figli d’Arte Cuticchio e i cataloghi dell’annuale festival La Macchina dei Sogni dalla prima edizione del 1984 ad oggi.

Il volume si chiude con un’accurata e pertinente bibliografia.

Nessun cenno, però, ai nomi di altri cuntisti o drammaturghi/cuntisti che hanno preso le mosse e gli insegnamenti dalla bottega del Maestro Cuticchio; questa è una lunga ed animata diatriba già condotta con l’autrice e che, davvero, non porterebbe ad una facile conclusione non solo il volume, ma anche questa recensione.



COME SUGHERI SULL’ ACQUA

La vertigine del taglio è nella faglia del fuoco

a cura di Ariele D’AMBROSIO

Floriana Coppola


LA VERTIGINE DEL TAGLIO
Terra d’ulivi edizioni
2021, Lecce
Pagine 144
euro 14,00

Info:
http://www.edizioniterradulivi.it/index.php?route=product/search&search=floriana%20coppola&sort=relevance&order=DESC

La vertigine del taglio è nella faglia del fuoco

a cura di Ariele D’AMBROSIO

Una fotografia lucida di copertina plasticata costringe i miei occhi a capirla. Potrebbe essere un fuoco in diagonale verso sinistra che si perde in un fumo di nebbia più chiaro. Un fuoco che sale; ma all’interno di questa staticità mobile c’è una fessura sfrangiata, più scura ed oscura, che s’allunga insieme al fiume rosso che la trasporta con le sue nuance azzurre che si addensano al centro per mutare nel blu fino a un nero di sangue coagulato. La Vertigine Del Taglio è qui, in questa immagine in cui riporto tutto quello che ho letto di questo splendido libro di Floriana Coppola.

la faglia del fuoco è un suo libro che ho recensito qualche tempo fa e lo ricordo perché con quest’ultimo titolo mi si conferma quella linea di frattura, iconica e metaforica, che mi pare essere uno dei nuclei fondanti della sua poetica. E noto con piacere che c’è un ponte formale tra i due libri, formale, dico, ma che in poesia si fa sostanza ed unisce le misure. Quello era un libro di poesie narranti, questo un libro di narrazioni in poesia, e si badi bene non di narrazioni poetiche. Non basterà mai ripetere e sottolineare la differenza tra poesia e poeticità, dove a quest’ultima si abbeverano tutte le altre forme d’arte, senza per questo essere poesia. 

Già nel primo novecento s’era capito che la forma prosastica in poesia aveva diritto di cittadinanza sia come progetto che come manufatto e senza per questo essere narrativa poetica, ma vera e propria poesia narrante o narrazione in poesia. È il caso di questo libro, che le racchiude ambedue, e con innumerevoli sfumature che andremo a vedere. Ma quale la differenza tra le due? Il limite è fluido e non si definisce soltanto nella lunghezza del verso, ma piuttosto, a mio avviso, nel ritmo di scrittura che spinge, nel secondo caso, anche verso una lettura più sussurrata e riflessiva, o all’inverso, nel primo, verso un monologo teatrale che si fa carne e vita. Ma sempre in una dimensione di oralità specifica della poesia, che non prescinde dalla sua capacità di essere anche suono e canto.

Ovviamente ogni scrittura narra e racconta, ma per nostra fortuna quella di Floriana Coppola, evita solipsismi di maniera che restano nel buco nero dell’incomunicabilità.

Che bello avere un libro di carta tra le mani, e mi si perdoni questa breve digressione che mi porta alle pagine 42, 104 e 111:  «… Un centinaio di amici virtuali. Come i morti di Spoon River. …»; «… siamo pesci nell’acquario led dello schermo piatto. / Rimane pochissimo in memoria. /… / Non c’è nessuna storia. / … / Leggo le parole, latte condensato / verde mela e poi cioccolato, sillabe e consonanti tic tac / slittano fuori dallo schermo, parole ridotte in poltiglia. / … / Versi dei poeti scritti a caratteri grandi / per le agenzie di viaggio. …»; «… Cento like sulla pagina face book. / Siamo zombi viventi, senza speranza. …»; Siamo ci dice il poeta, ed io le rispondo “sono” loro quegli umani, peggio quei poeti rassegnati ai like, ad un modo e ad un mondo da esibire come la reiterazione del Warholpop senza averne i colori.

Si noterà quella rima in ‘ato’ di condensato e cioccolato dei due versi in successione; ebbene è in questa sonorità che sfocia in quel tic tac di tempo o di sveglia, che si condensa l’ironia fino al sarcasmo di una critica spietata che avverte, e che non lascia spazio alla consolazione o a patetismi neomelodici. Leggendo man mano queste rime, con il loro senso variabile, le troveremo sparse qua e là, e le ascolteremo e ce le diremo, e le vedremo come orecchie di conigli che spuntano improvvisi da un dosso o da una collina, per occhi nascosti che vogliono guardare senza esser visti, prima da lontano e poi man mano sempre più da vicino. Anche qui il talento di questo bravo poeta.

Intanto alla parola poeta attribuisco la neutralità della funzione che prescinde dalla natura sessuale della persona, e mi si perdoni questa seconda digressione, anche un po’ per sorridere, quando dico che preferisco che “il poeta” rimanga tale per maschi e femmine, meglio per uomini e donne. Anche perché l’articolo è al maschile e la parola termina con la vocale al femminile, e non avendo mai sentito “il poeto” o “il poesio”. Lascio quindi ai linguisti decidere poi dell’uso dell’asterisco o della scevà, dal tedesco chewa, per le varietà di genere. E intanto “la persona” è una parola al femminile.

Ma ritorniamo a Floriana Coppola, che a mio avviso, ha la capacità di scambiare e di interconnettere mente e corpo fino a possedere anse cerebrali e circonvoluzioni intestinali per pagine anche a-metriche ma che contengono lo scorrere liquido che attraversa il dramma dell’amore con una forza tale che solo il femminile, a tutt’oggi, è capace di esprimere. Liquido perché si fa anche rivolo che penetra nei più piccoli anfratti dell’esistenza per farli suoi in monologhi, come dicevo, che pensano o dicono: «… È il desiderio che mi rende padre e madre di questo sogno che sogna la sua fine, volontà che naufraga e si disperde, sono acqua che tracima e sfiorda le radure, vuole sconfinamenti dove affogare, ha pagine assassine nelle valigie. …». E la cura del lessico con questo sfiorda resta presente in tutto il libro, e subito la considerazione sul mio desiderio di leggere queste pagine  a voce alta e che sposta questo scrivere subito nel mondo della poesia, se ancora avessi qualche dubbio. Perché il narrare c’è ed è anche molto presente: il narrare della condizione femminile, ancora oggi tra il silenzio e il grido, tra la casa e la strada.

Poi una nuova pagina che continua a raccontare, ma non ha gli accapo del fine pagina, ma spezzature attente e rigorose per sobbalzi, sospensioni, silenzi, inspirazioni. «… E io sono la terza. Quella che cucina la minestra e pensa. / Si è al mondo così soli, persi nel catino delle ore. / La depressione è un coperchio sulla rabbia. / … / Ecco le sentenze della gente, giudici terribili dentro al petto / a scardinare il nome dalle porte. …». Qui il racconto, – con Io racconto, comincia lo scrivere di questo libro – qui il desiderio di essere cronaca di un sentire interno che diventa segno e testimonianza e dove si articola lo spazio tra il surreale e il metafisico, dove ciò che può apparire disarticolato struttura l’esistenza e si fa persona. E mentre i rovelli e i temi non si sottraggono alle critiche riflessive della natura femminile, a quel sottrarsi, alla sottrazione che resta pausa “per cui solo la musica trova linguaggio”, l’eros spunta totalizzante, mai glandizzato al maschile, mai di maniera:  «… Un unico punto unito tra il centro del sesso e un angolo nascosto  nel cavo della nuca. … La pelle si aprì, i pori e ogni fessura aperti per essere colmati e presi. Il prato, il cielo, il ronzio degli insetti, i seni, il ventre, le scapole sugli stracci, la bocca semiaperta come una conchiglia rossa, le ginocchia divaricate a sentire di più e ancora l’azzurro che li copriva, nascosti nel verde, tra i passi lenti di altri, ignari assoluti di quella resa piena colma di fuoco, che bruciava. …».

Non succede mai di trovare sbavature o ridondanze che appesantiscono la fluidità della scrittura, piuttosto si resta sorpresi ad immagini e descrizioni che spiazzano e stupiscono. E questo stupore che prende, dall’esterno immaginifico all’interno introspettivo, ci spinge a non abbandonare mai questa lettura ma ad inseguirla anche con una certa voracità.

Bella l’idea dei titoli dell’indice  ricavati dagli inizi, e sempre in forma di poesia, delle varie sezioni. Sono delle parole con cui iniziano degli intro in una certa misura anche esplicativi: Io racconto; Racconto; Racconto e invio; Mi chiedo; La mia grammatica; Racconto e non voglio; Racconto e cerco; Racconto me stessa; Scrivo del padre e della madre. E non si potrà non notare quanto il desiderio del raccontare, del narrare si sia impossessato di questa poesia, e si stia impossessando di molta buona poetica contemporanea, che sperimentale o no che sia, si riavvicina, come dice già da tempo Renato Barilli, alla buona narrativa. Ma con una virtù in più direi, con la capacità di giocare non solo col ritmo, che è caratteristica anche della buona narrazione, ma anche col suono e col gioco del significante.

Poetica della frattura quindi, del racconto della frattura, ma anche di ponti levatoi che non si è fatto in tempo a rialzare: la donna che sa darsi al sacrificio di sé come nessun uomo è mai stato in grado di fare, e cosi ci dice nel Il fortino: «… Non avevo previsto il desiderio selvatico che fa crollare le mura. Si apre una crepa nella fortezza e fa male. Voglio spingere la voce e le mani oltre il confine tracciato intorno ai miei piedi. Troppo tardi levo i ponti levatoi.».

Al Beckett Pub di nuovo spezzature anche con enjambement, per una pagina che vorrei trascrivere per intero: la storia di una cagna randagia: «… Tempo perso dietro quello sguardo sfuggente / uno stupore e la grandine di un’illusione senza fretta / che batte sui vetri e sul cuore. /  Tempo perso per chi sa solo leccare e poi mordere. …». 

In ogni pagina di questo libro c’è qualcosa da scoprire e non poteva mancare Artemisia. Un libro da far leggere, ancora oggi, soprattutto ai maschi, un libro della rivolta della femmina-donna che continua a dichiarare e a gridare senza sosta la sua condizione psicosociale, la sua condizione nel rapporto col maschio, con l’uomo oltre il genere, fino a raggiungere l’umano. E quale scrittura è più contemporanea di questa, nel contemporaneo che stiamo vivendo? Nel contemporaneo degli insopportabili e drammatici femminicidi?

Poesie, narrazioni in poesia, epistole di poesie dialoganti, monologhi di poesie teatrali, con una capacità di comporre frasi e versi che riescono a penetrare in profondità come una spirale che si avvita dentro. Un ottocento romantico che si muta nel romanticismo del ventunesimo secolo, che non edulcora più desideri e rabbie, ma che si ancora di diritto alle parole di Eleonora Duse, con quel legame che questa poesia ha con il teatro: “Il fatto è che mentre tutti diffidano delle donne, io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato – o se nacquero perverse – perché io sento che hanno pianto, hanno sofferto per sentire, o per tradire, o per amare … Io mi metto con loro e per loro e le frugo, frugo non per mania di sofferenza, ma perché il mio compianto femminile è più grande e più dettagliato, è più dolce e più completo che non il compianto che mi accordano gli uomini.”.

Nel Racconto e cerco sintetizzo: «… Voglio ricucire ogni strappo nella ripetizione allitterata delle sillabe.». Nel Scrivo del padre e della madre, anche una dimensione cronachistica dell’oggi ed un uso molto interessante delle rime anche imperfette, assonanzate e consonanzate con aritmie sillabiche. E prima di concludere mi soffermo sul “comune senso del pudore” e rido e mi irrido coi poeti di sempre, con questo godibilissimo A che serve?: «… Troppo seri e compunti nei loro versi illustri / appuntate le medaglie sul petto e sui severi busti. / Io sono io sono io sono e tra un respiro e un altro / uno sguardo deciso: io sono io sono. / …». Per ricordare sull’antico ponte del tempo, Vittorio Sereni e la sua “Poeti in via Brera: due età”: “… (Frattanto / sul marciapiede di fronte / a due a due sottobraccio tenendosi / a due a due odiandosi in gorgheggi / di reciproco amore / se ne sfilano. Sei.).”.

Lungi da me chiudere nei quadratini delle definizioni e delle collocazioni sistematiche la poesia in genere, ed in questo caso la poetica di Floriana Coppola. Ma penso, prendendo congedo, alle risposte che Fausto Curi, sopravvissuto del Gruppo ’63, ha dato in una delle sue ultime interviste. Alla domanda di cosa pensasse del nuovo così risponde: “Il suo avvento in letteratura incrina le fondamenta di quello che gli preesiste e provoca una serie di choc benefici. Il nuovo è ciò che abolisce lo stanco presente e rende presente il futuro”. Alla seconda domanda sulla tradizione così ci dice: “Non pretende che si parli di lei, la tradizione ha bisogno di essere coltivata e praticata. Esistiamo perché esiste la tradizione. È la nostra madre. Il nuovo non può cancellarla, deve solo integrarla e mutarla”.  

È tra queste due risposte che saluto, col piacere della convinzione, questo libro di poesie di Floriana Coppola, il suo mondo, il suo modo e la sua poetica tra il nuovo e la tradizione. 

Ariele D’Ambrosio 

Napoli maggio 2022