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La battaglia delle donne
A cura di Federica CAIAZZO
L’autrice, nota e cara ai soci dell’associazione per la bellissima presentazione del suo romanzo d’esordio Il treno dei bambini, torna in libreria con Oliva Denaro, la storia di una ragazza che diventa donna in un luogo e in un tempo in cui essere donne era una condanna.
Siamo nella Sicilia negli anni Sessanta e Oliva è una quindicenne curiosa e intelligente. Corre per il paese con i suoi zoccoletti al fianco del fratello Cosimino, studia volentieri il latino e passeggia dopo scuola in compagnia della sua amica Liliana, figlia del comunista Calò, che le regala libri e riviste che Oliva nasconde sotto il materasso. Oliva si sente libera ma sa che presto la sua condizione cambierà: non appena arriverà il “marchese”, non potrà più camminare da sola, dovrà tenere gli occhi bassi per non intercettare gli sguardi allusivi degli uomini, dovrà attendere casta l’arrivo di colui che la chiederà in sposa. Tuttavia questa rigida sequenza di regole viene interrotta da un terribile evento: Oliva viene sequestrata e violentata nel giorno del suo sedicesimo compleanno dal boss del paese che vorrebbe sposarla con un matrimonio riparatore. Già la sorella Fortunata si era piegata al medesimo triste destino, sepolta viva in casa di un marito prepotente e violento. Oliva, al contrario, non si piega e, con l’aiuto di Liliana e di Calò, ha il coraggio di denunciare la violenza subita. Accanto a lei in questa dolorosa battaglia, ci sarà il padre Salvo, un contadino che cura i suoi campi con pazienza tenace. A Oliva piace dargli una mano, svegliarsi presto per andare con lui a raccogliere lumache. Questo rito alimenta la loro intesa fatta di silenzi e taciti incoraggiamenti: «Lo sai che cosa sono i figli?» le chiede Salvo nella quarta parte del romanzo, che è una sorta di confessione alternata tra padre e figlia «Sono come quei semi portati dal vento che vengono a germogliare nella tua terra, devi lasciarli crescere per capire che frutto daranno, mica lo puoi stabilire tu dal principio. Pensavo di avere tre piantine deboli e ho scoperto nel mio campo tre alberi fruttuosi e resistenti. Anche dalla terra bruciata dal sale può rinascere vita». Accanto a Oliva ci sarà anche la madre Amalia, una donna energica e severa, di idee conservatrici, che tuttavia, pur non comprendendo del tutto le scelte di sua figlia, si schiera dalla sua parte e la sostiene con gesti di profonda tenerezza. Oliva infatti spezza una catena generazionale che si trasmette da madre in figlia perché, come osserva Liliana: «Sono loro a insegnare alle figlie le stesse cose che sono state raccomandate a loro. Se le madri spiegassero ai figli maschi il rispetto della donna, la parità, se permettessero alle ragazze di vivere liberamente e senza chiusure, se le facessero studiare e preparare per un lavoro… La mentalità di chi è la colpa? Solo dell’uomo o anche della donna? Io penso che deve partire proprio da noi!».
Ecco dunque che la battaglia di Oliva sembra assumere i caratteri della battaglia dell’eroe tragico Oreste che cerca giustizia senza ricorrere alla vendetta, o di Renzo che, opponendosi ai poteri forti, compie il suo personale percorso di formazione e di crescita. La battaglia di Oliva Denaro è soprattutto quella di Franca Viola che per prima si oppose a un matrimonio riparatore con il boss di Alcamo. Il “no” di Franca-Oliva dà avvio a un lungo dibattito politico che soltanto nel 1981 portò all’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore. Sebbene siano passati quarant’anni dal quel successo, le battaglie delle donne non sono di certo concluse e proprio da qui deriva la grande attualità di questo romanzo che parla al lettore di oggi, uomo e donna del ventunesimo secolo, spingendolo a confrontarsi con la complessità delle questioni di genere e con la lentezza delle istituzioni rispetto ai cambiamenti del tempo e dell’opinione pubblica.
Molti i punti di contatto tra i due romanzi di Viola Ardone: c’è Maddalena Criscuolo che dalla Napoli di Amerigo arriva nella Sicilia di Oliva per sostenere e guidare la ragazza durante e dopo il processo; ci sono la scuola, il ruolo centrale dell’educazione e della cultura per la costruzione di una società civile e consapevole, e una nuova, affascinante figura di docente, la maestra Rosaria; c’è inoltre la scrittura di Viola Ardone che, ancora una volta, inchioda alla pagina. I singoli capitoli del romanzo, brevi e intensi, si concludono in quello successivo creando una sorta di carmen continuum, la ripetizione di frasi formulari concorre alla costruzione di un lessico magico, segreto, a cui ricorrono i personaggi per sentirsi amati e al sicuro, infine, pensieri e azioni, riflessioni e eventi disegnano sulla pagina un equilibrio sapiente. Il piccolo Amerigo del Treno dei bambini è ormai cresciuto e ha passato il testimone a Oliva Denaro, anagramma di Viola Ardone, la quale sta percorrendo e illuminando frammenti di storia d’Italia attraverso personaggi e storie di sublime bellezza.
Antologia Teatrale. Atto II
a cura di Emanuela QUARANTA
Il volume affronta le più importanti tematiche inerenti allo studio della letteratura teatrale quali: la questione della lingua (ed il rapporto imprescindibile, in ambito teatrale, tra lingua, dialetti e linguaggi); la “stratificazione” del testo teatrale, costantemente sottoposto a revisioni, modifiche e riscritture; infine, il legame tra due aree, l’area sicula, l’area campana, un legame che ha prodotto e continua a produrre prolifici scambi culturali, soprattutto nell’ambito del teatro.
Il volume comprende ventitré saggi, articolati in quattro sezioni.
Nel saggio introduttivo Gius Gargiulo compie un’efficace sintesi dei nodi tematici del precedente volume “Antologia teatrale” (a cura di Antonia Lezza, Annunziata Acanfora, Carmela Lucia), e pone l’accento, attraverso un’attenta analisi dei singoli contributi, sulla complessità e pluralità del testo teatrale (“Tra l’autore e l’attore”). Il saggio di Gargiulo è preziosissimo per la ricchezza dei riferimenti intertestuali, per gli originali spunti critici, ma anche perché individua il forte legame tra i due volumi.
La prima sezione, Studi sul teatro, comprende tredici saggi; ciascun contributo concorre, con un apporto contenutistico specifico ed un taglio peculiare, ad arricchire la riflessione sul teatro, sulle poetiche e sugli autori.
Nel saggio Tra teologia, pedagogia e drammaturgia:
il teatro della Compagnia di Gesù Mirella Saulini illustra, con grande
competenza e attraverso una serie di esempi efficaci, le peculiarità del teatro
dei Gesuiti, fenomeno complesso, per il quale – afferma la studiosa – ciascuna
definizione, presa singolarmente, potrebbe risultare insufficiente. Lo studio,
condotto attraverso l’attenta analisi dei testi di autori come Bernardino
Stefonio, Stefano Tuccio e Ortensio Scamacca, e la loro fortuna critica,
rappresenta un contributo molto importante per la conoscenza del teatro dei
gesuiti.
Il genere della farsa cavaiola – nella sua formazione e nel suo sviluppo – è il
tema centrale del saggio La farsa cavaiola e il teatro di Vincenzo Braca
di Rosa Troiano. La studiosa analizza, con grande capacità critica e
competenza, il corpus delle opere di Vincenzo Braca, ponendo particolare
attenzione alla questione della lingua utilizzata: l’antico “cavoto” e alla
tipologia comica “cavota” con una serie di osservazioni molto interessanti.
Nel saggio Per una riconsiderazione storico-critica di Francesco Cerlone,
“Molière napoletano” Anna Scannapieco analizza una serie di elementi della
biografia di Cerlone che influirono (ed influiscono!) sugli studi successivi.
La demolizione di tali assunti biografici desunti da una tradizione inesatta
costituisce una conditio sine qua non per un nuovo profilo biografico
dell’autore, oggetto del saggio che si distingue per la ricchezza e il valore
dei riferimenti critici.
A seguire, due contributi, differenti per contenuto e modalità d’espressione, sono
dedicati a Raffaele Viviani. Nel saggio Ritorno a Viviani poeta Antonia
Lezza analizza la produzione poetica dell’autore, tenendo conto dello stretto
legame che ha con l’esperienza di Viviani attore. Nel saggio, Antonia Lezza
compie un lavoro sui testi poetici molto accurato e ricco di spunti originali.
Emerge, ancora una volta, l’importanza della questione della lingua: una
“lingua napoletana composita”, quella di Viviani, frutto di aggregazione
singolare di input differenti ed originalissimi.
Nel successivo saggio dedicato a Viviani – Il teatro di Viviani va in
rete: dall’edizione critica analogica alla base dati digitale – Maria
Senatore Polisetti descrive, con grande chiarezza e precisione, il progetto di
digitalizzazione dell’opera completa Teatro di Raffaele Viviani, realizzato
nell’ambito dell’iniziativa “Cantieri Viviani”. Il teatro di Viviani in rete è
un traguardo molto importante per la conoscenza dell’autore! A seguire, Luca
Vaccaro in “Quant’è bello ’o culore d’ ’e pparole”.
Dal romanzo di guerra di Gennaro alle occhiate di Amalia nella “Napoli
milionaria!” di Eduardo si concentra sulla trattazione della drammaturgia
eduardiana, con un focus sull’opera “Napoli Milionaria!”. A rendere molto
efficace il saggio sono i riferimenti puntuali ai testi e la propensione
all’analisi psicologica con cui lo studioso analizza i personaggi eduardiani.
Il testo si avvale anche di un’ampia e pertinente bibliografia critica che
rappresenta un ulteriore e utilissimo contributo agli studi su Eduardo.
Il confronto tra la produzione teatrale di Achille
Campanile e la produzione teatrale dei futuristi è il nodo tematico del saggio
successivo Una nuova idea di teatro: il Futurismo e Achille Campanile di
Stefania Stefanelli. La studiosa, esperta di Avanguardie, fornisce numerosi
esempi mutuati dai testi che concorrono a fornire al lettore un quadro più
chiaro dei rapporti intercorsi tra le rispettive drammaturgie analizzate.
Il teatro per me è come l’acqua per i pesci. Paolo Grassi ovvero il teatro
come disciplina di civiltà di Stella Casiraghi introduce la figura di Paolo
Grassi, a quarant’anni dalla sua scomparsa. La studiosa evidenzia sapientemente,
nel saggio, i rapporti fecondi tra Grassi e la scena culturale contemporanea e
contribuisce ad una più approfondita conoscenza della figura di un grande
intellettuale qual è Grassi. Antonio Grieco in Il teatro è l’attore. Leo de
Berardinis tra teoria e prassi tratta la figura di Leo de Berardinis, non
solo in quanto attore – ed, in proposito, risulta inevitabile il riferimento
all’esperienza con Perla Peragallo alla Masseria Sentino, a Marigliano – ma
anche, e soprattutto, in quanto teorico, uno tra i più acuti ed originali
teorici del teatro del Novecento, auspicando un “ritorno a Leo”, una riscoperta
della sua lezione.
Il saggio di Angela Albanese Aristofane a Scampia e Dante a Nairobi: la
pedagogia teatrale di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari affronta con
ricchezza di argomentazioni la tematica del rapporto con i classici, concentrandosi,
nello specifico, con grande competenza, sul Teatro delle Albe e sulla
singolarissima esperienza della pedagogia teatrale, tradottasi nell’iniziativa della
“non-scuola”.
Il tema dei classici è ripreso nel saggio Classici siciliani “nell’occhio
del Ciclope”: tra testi greci e riscritture moderne di Martina Treu,
congiunto all’analisi del contesto storico-culturale siciliano, con particolare
attenzione all’esperienza teatrale a Palermo e nelle zone limitrofe. La
studiosa delinea sapientemente i contorni di una drammaturgia molto particolare
che mostra, contestualmente, un forte legame con il territorio e la vocazione a
rivolgersi ad un pubblico universale.
Il rapporto tra il contemporaneo ed il classico – per la cui analisi sono esemplari le opere di
Ruggero Cappuccio – è il tema del saggio di Carmen Lucia La fortuna dei classici
nel teatro contemporaneo e le “irredimibili seduzioni” di Sofocle, Tomasi di
Lampedusa e Shakespeare nel teatro di Ruggero Cappuccio. La studiosa
affronta con grande capacità critica le opere di Cappuccio, risalendo agli
autori ed ai modelli che hanno maggiormente influito sulla sua scrittura. Emerge,
da questa analisi, il profilo di una drammaturgia all’insegna dell’ibridismo e
della mescolanza di lingue, di generi e stili.
A concludere la prima sezione del volume è il saggio di Emanuela Ferrauto La
drammaturgia siciliana contemporanea e il grottesco familiare: follia,
solitudine e morte. Emanuela Ferrauto concentra la propria analisi, che si
distingue per la sua originalità, su uno dei fili rossi che attraversa tale
produzione: la descrizione di situazioni familiari prive di strutture stabili o
di equilibri ed offre uno sguardo accuratissimo sull’evoluzione di tale Leitmotiv
in tre generazioni di drammaturghi siciliani contemporanei con una serie di
esempi molto efficaci e pertinenti.
La seconda parte del volume comprende i contributi, particolarmente interessanti, di due grandi drammaturghi: Enzo Moscato e Manlio Santanelli. Moscato in Malaparte e ’o paese d’ ’e buscie tratta del romanzo “La pelle” di Curzio Malaparte e, nel suo stile personalissimo, svela al lettore le peculiarità stilistiche del romanzo (“un pastiche, una coloratissima guache, un inganno”). Il secondo contributo – Il mare in fondo al water di Manlio Santanelli – è un racconto singolarissimo, unico per linguaggio e per stile, a metà strada tra la narrazione letteraria e la scrittura drammaturgica, che, sul piano linguistico, mescola finemente l’italiano ed il dialetto napoletano.
La terza sezione “Regia/critica” è aperta dal saggio Occhi gettati. Viaggio molto fuori confine a partire dalle scritture e riscritture di Enzo Moscato di Francesco Saponaro, un interessante “diario di bordo”, racconto del lavoro sull’opera di Moscato, “Occhi gettati”, e della sua messa in scena nel maniero di San Barbato a Manocalzati. Il saggio successivo – La possibile eredità di Carmelo Bene di Giorgio Taffon – è attraversato da un interessante interrogativo: quale eredità ha lasciato Carmelo Bene? Lo studioso riuscirà, nel corso del saggio, a fornire una risposta attraverso un’attenta ed accurata analisi dei testi di Bene.
L’ultima sezione “Scrivere il (di) teatro” include differenti testimonianze di attori e drammaturghi. Il contributo – acuto e provocatorio – di Rosario Palazzolo Azzannare le parole. Un controcanto è un’analisi, al contempo, di sé e dell’arte e, anche, una dichiarazione d’intenti, all’insegna della “contestazione”. Nella riflessione di Tino Caspanello, Un tempo di parole e un tempo di silenzi, molto interessante risulta la riflessione sul tempo, il concetto di ritardo come “vizio” dello scrittore – “mi piace ritardare la scrittura” confessa il drammaturgo – e la ciclicità della parola che trova la morte nella scrittura, che rinasce sulla scena.
L’immagine suggestiva del “corpo teatrale” è affrontata nello scritto La drammaturgia: dalla scrittura alla rappresentazione di Spiro Scimone e Francesco Sframeli. Il saggio analizza il rapporto (ed i rapporti) tra autore/personaggi/attori attraverso l’analisi di “Sei” (riscrittura di “Sei personaggi in cerca d’autore): quale testo sarebbe stato più indicato, in fondo, per una simile analisi? A seguire, Lino Musella in Brevi riflessioni sulla scrittura e sull’attore pone l’accento sulla questione – ricorrente nell’intero volume – del testo scritto, del binomio scrittura e scena, affrontando il suo dilemma “recitare o improvvisare?”. A conclusione del volume, è posto il meraviglioso contributo di Antonio Casagrande Io so’ nato ccà. Il testo, fortemente autobiografico, scritto da Casagrande in prima persona e nel suo dialetto, è il racconto della sua nascita: a rendere unico il contributo è lo stile semplice ed immediato che tanto somiglia al racconto dal vivo, al monologo, al linguaggio di scena.
Tutti i saggi contribuiscono all’esito felicissimo
del volume che, come scrive Antonia Lezza nella Prefazione, è frutto del lavoro di collaborazione tra docenti,
studiosi, critici, drammaturghi, attori, legati da antichi e più recenti
rapporti di scambio culturale avvenuti nel corso degli anni.
A tenere uniti i contributi, certamente, è la ricerca sul teatro, sulla
drammaturgia, sul testo teatrale; perché, in fondo, – come scrive Lino Musella
– “cosa sia veramente un testo teatrale ancora non si sa”.
Il volume comprende ventitré saggi, articolati in quattro sezioni.
Nel saggio introduttivo Gius Gargiulo compie un’efficace sintesi dei nodi tematici del precedente volume “Antologia teatrale” (a cura di Antonia Lezza, Annunziata Acanfora, Carmela Lucia), e pone l’accento, attraverso un’attenta analisi dei singoli contributi, sulla complessità e pluralità del testo teatrale (“Tra l’autore e l’attore”). Il saggio di Gargiulo è preziosissimo per la ricchezza dei riferimenti intertestuali, per gli originali spunti critici, ma anche perché individua il forte legame tra i due volumi.
La prima sezione, Studi sul teatro, comprende tredici saggi; ciascun contributo concorre, con un apporto contenutistico specifico ed un taglio peculiare, ad arricchire la riflessione sul teatro, sulle poetiche e sugli autori.
Nel saggio Tra teologia, pedagogia e
drammaturgia: il teatro della Compagnia di Gesù Mirella Saulini illustra,
con grande competenza e attraverso una serie di esempi efficaci, le peculiarità
del teatro dei Gesuiti, fenomeno complesso, per il quale – afferma la studiosa
– ciascuna definizione, presa singolarmente, potrebbe risultare insufficiente. Lo
studio, condotto attraverso l’attenta analisi dei testi di autori come
Bernardino Stefonio, Stefano Tuccio e Ortensio Scamacca, e la loro fortuna
critica, rappresenta un contributo molto importante per la conoscenza del teatro
dei gesuiti.
Il genere della farsa cavaiola – nella sua formazione e nel suo sviluppo – è il
tema centrale del saggio La farsa cavaiola e il teatro di Vincenzo Braca
di Rosa Troiano. La studiosa analizza, con grande capacità critica e
competenza, il corpus delle opere di Vincenzo Braca, ponendo particolare
attenzione alla questione della lingua utilizzata: l’antico “cavoto” e alla
tipologia comica “cavota” con una serie di osservazioni molto interessanti.
Nel saggio Per una riconsiderazione storico-critica di Francesco Cerlone,
“Molière napoletano” Anna Scannapieco analizza una serie di elementi della
biografia di Cerlone che influirono (ed influiscono!) sugli studi successivi.
La demolizione di tali assunti biografici desunti da una tradizione inesatta
costituisce una conditio sine qua non per un nuovo profilo biografico
dell’autore, oggetto del saggio che si distingue per la ricchezza e il valore
dei riferimenti critici.
A seguire, due contributi, differenti per contenuto e modalità d’espressione, sono
dedicati a Raffaele Viviani. Nel saggio Ritorno a Viviani poeta Antonia
Lezza analizza la produzione poetica dell’autore, tenendo conto dello stretto
legame che ha con l’esperienza di Viviani attore. Nel saggio, Antonia Lezza
compie un lavoro sui testi poetici molto accurato e ricco di spunti originali.
Emerge, ancora una volta, l’importanza della questione della lingua: una
“lingua napoletana composita”, quella di Viviani, frutto di aggregazione
singolare di input differenti ed originalissimi.
Nel successivo saggio dedicato a Viviani – Il teatro di Viviani va in
rete: dall’edizione critica analogica alla base dati digitale – Maria
Senatore Polisetti descrive, con grande chiarezza e precisione, il progetto di
digitalizzazione dell’opera completa Teatro di Raffaele Viviani, realizzato
nell’ambito dell’iniziativa “Cantieri Viviani”. Il teatro di Viviani in rete è
un traguardo molto importante per la conoscenza dell’autore! A seguire, Luca
Vaccaro in “Quant’è bello ’o culore d’ ’e pparole”.
Dal romanzo di guerra di Gennaro alle occhiate di Amalia nella “Napoli
milionaria!” di Eduardo si concentra sulla trattazione della drammaturgia
eduardiana, con un focus sull’opera “Napoli Milionaria!”. A rendere molto
efficace il saggio sono i riferimenti puntuali ai testi e la propensione
all’analisi psicologica con cui lo studioso analizza i personaggi eduardiani.
Il testo si avvale anche di un’ampia e pertinente bibliografia critica che
rappresenta un ulteriore e utilissimo contributo agli studi su Eduardo.
Il confronto tra la produzione teatrale di Achille
Campanile e la produzione teatrale dei futuristi è il nodo tematico del saggio
successivo Una nuova idea di teatro: il Futurismo e Achille Campanile di
Stefania Stefanelli. La studiosa, esperta di Avanguardie, fornisce numerosi
esempi mutuati dai testi che concorrono a fornire al lettore un quadro più
chiaro dei rapporti intercorsi tra le rispettive drammaturgie analizzate.
Il teatro per me è come l’acqua per i pesci. Paolo Grassi ovvero il teatro
come disciplina di civiltà di Stella Casiraghi introduce la figura di Paolo
Grassi, a quarant’anni dalla sua scomparsa. La studiosa evidenzia sapientemente,
nel saggio, i rapporti fecondi tra Grassi e la scena culturale contemporanea e
contribuisce ad una più approfondita conoscenza della figura di un grande
intellettuale qual è Grassi. Antonio Grieco in Il teatro è l’attore. Leo de
Berardinis tra teoria e prassi tratta la figura di Leo de Berardinis, non
solo in quanto attore – ed, in proposito, risulta inevitabile il riferimento
all’esperienza con Perla Peragallo alla Masseria Sentino, a Marigliano – ma
anche, e soprattutto, in quanto teorico, uno tra i più acuti ed originali
teorici del teatro del Novecento, auspicando un “ritorno a Leo”, una riscoperta
della sua lezione.
Il saggio di Angela Albanese Aristofane a Scampia e Dante a Nairobi: la
pedagogia teatrale di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari affronta con
ricchezza di argomentazioni la tematica del rapporto con i classici, concentrandosi,
nello specifico, con grande competenza, sul Teatro delle Albe e sulla
singolarissima esperienza della pedagogia teatrale, tradottasi nell’iniziativa della
“non-scuola”.
Il tema dei classici è ripreso nel saggio Classici siciliani “nell’occhio
del Ciclope”: tra testi greci e riscritture moderne di Martina Treu,
congiunto all’analisi del contesto storico-culturale siciliano, con particolare
attenzione all’esperienza teatrale a Palermo e nelle zone limitrofe. La
studiosa delinea sapientemente i contorni di una drammaturgia molto particolare
che mostra, contestualmente, un forte legame con il territorio e la vocazione a
rivolgersi ad un pubblico universale.
Il rapporto tra il contemporaneo ed il classico – per la cui analisi sono esemplari le opere di
Ruggero Cappuccio – è il tema del saggio La fortuna dei classici nel teatro
contemporaneo e le “irredimibili seduzioni” di Sofocle, Tomasi di Lampedusa e
Shakespeare nel teatro di Ruggero Cappuccio. La studiosa affronta con grande
capacità critica le opere di Cappuccio, risalendo agli autori ed ai modelli che
hanno maggiormente influito sulla sua scrittura. Emerge, da questa analisi, il
profilo di una drammaturgia all’insegna dell’ibridismo e della mescolanza di
lingue, di generi e stili.
A concludere la prima sezione del volume è il saggio di Emanuela Ferrauto La
drammaturgia siciliana contemporanea e il grottesco familiare: follia,
solitudine e morte. La studiosa concentra la propria analisi, che si
distingue per la sua originalità, su uno dei fili rossi che attraversa tale
produzione: la descrizione di situazioni familiari prive di strutture stabili o
di equilibri. Emanuela Ferrauto offre uno sguardo accuratissimo sull’evoluzione
di tale Leitmotiv in tre generazioni di drammaturghi siciliani
contemporanei con una serie di esempi molto efficaci e pertinenti.
La seconda parte del volume comprende i contributi, particolarmente interessanti, di due grandi drammaturghi: Enzo Moscato e Manlio Santanelli. Moscato in Malaparte e ’o paese d’ ’e buscie tratta del romanzo “La pelle” di Curzio Malaparte e, nel suo stile personalissimo, svela al lettore le peculiarità stilistiche del romanzo (“un pastiche, una coloratissima guache, un inganno”). Il secondo contributo – Il mare in fondo al water di Manlio Santanelli – è un racconto singolarissimo, unico per linguaggio e per stile, a metà strada tra la narrazione letteraria e la scrittura drammaturgica, che, sul piano linguistico, mescola finemente l’italiano ed il dialetto napoletano.
La terza sezione “Regia/critica” è aperta dal saggio Occhi gettati. Viaggio molto fuori confine a partire dalle scritture e riscritture di Enzo Moscato di Francesco Saponaro, un interessante “diario di bordo”, racconto del lavoro sull’opera di Moscato, “Occhi gettati”, e della sua messa in scena nel maniero di San Barbato a Manocalzati. Il saggio successivo – La possibile eredità di Carmelo Bene di Giorgio Taffon – è attraversato da un interessante interrogativo: quale eredità ha lasciato Carmelo Bene? Lo studioso riuscirà, nel corso del saggio, a fornire una risposta attraverso un’attenta ed accurata analisi dei testi di Bene.
L’ultima sezione “Scrivere il (di) teatro” include differenti testimonianze di attori e drammaturghi. Il contributo – acuto e provocatorio – di Rosario Palazzolo Azzannare le parole. Un controcanto è un’analisi, al contempo, di sé e dell’arte e, anche, una dichiarazione d’intenti, all’insegna della “contestazione”. Nella riflessione di Tino Caspanello, Un tempo di parole e un tempo di silenzi, molto interessante risulta la riflessione sul tempo, il concetto di ritardo come “vizio” dello scrittore – “mi piace ritardare la scrittura” confessa il drammaturgo – e la ciclicità della parola che trova la morte nella scrittura, che rinasce sulla scena.
L’immagine suggestiva del “corpo teatrale” è affrontata nello scritto La drammaturgia: dalla scrittura alla rappresentazione di Spiro Scimone e Francesco Sframeli. Il saggio analizza il rapporto (ed i rapporti) tra autore/personaggi/attori attraverso l’analisi di “Sei” (riscrittura di “Sei personaggi in cerca d’autore): quale testo sarebbe stato più indicato, in fondo, per una simile analisi? A seguire, Lino Musella in Brevi riflessioni sulla scrittura e sull’attore pone l’accento sulla questione – ricorrente nell’intero volume – del testo scritto, del binomio scrittura e scena, affrontando il suo dilemma “recitare o improvvisare?”. A conclusione del volume, è posto il meraviglioso contributo di Antonio Casagrande Io so’ nato ccà. Il testo, fortemente autobiografico, scritto da Casagrande in prima persona e nel suo dialetto, è il racconto della sua nascita: a rendere unico il contributo è lo stile semplice ed immediato che tanto somiglia al racconto dal vivo, al monologo, al linguaggio di scena.
Tutti i saggi contribuiscono all’esito felicissimo
del volume che, come scrive Antonia Lezza nella Prefazione, è frutto del lavoro di collaborazione tra docenti,
studiosi, critici, drammaturghi, attori, legati da antichi e più recenti
rapporti di scambio culturale avvenuti nel corso degli anni.
A tenere uniti i contributi, certamente, è la ricerca sul teatro, sulla
drammaturgia, sul testo teatrale; perché, in fondo, – come scrive Lino Musella
– “cosa sia veramente un testo teatrale ancora non si sa”.
La spina dorsale di Danni Antonello
a cura di Ariele D’AMBROSIO
La spina dorsale di Danni Antonello
È bello recensire un libro di un poeta anche libraio antiquario, editore e comparatista linguistico. Ne avevo sentito parlare, qualche intervista vista su youtube, poi distratto l’ho perso. Ma la poesia è una cosa strana: ritorna una parola, il suo suono, anche il suo rumore, e vai a scoprire, a ricercare, a trovare, a conoscere.
Il libro, della bella edizione di Giometti&Antonello, morbido e solido mi è davanti. I due nomi dell’autore, su questa copertina di colore écru, assai elegante, mi trasporta subito verso quei giochi dell’infanzia. In alto a sinistra infatti, si vede con piacere e con tenerezza una bambolina, una robotina fabbricata di geometrici segmenti colorati e che accenna un passo su mattonelle azzurre, così le interpreto, ma che potrebbero anche essere dei vetri solidi e trasparenti che rimandano al mare e su cui poter camminare. E Joan Mirò mi viene nella mente. Ma quale il ponte tra una vita breve di questo giovane poeta durata trentanove anni, una bambolina-robotina stampata su un colore écru, e questo titolo La spina dorsale?
Sarà tutto da scoprire mentre odoro la carta e sfoglio le pagine anche con il rituale giocoso di farle scorrere velocemente sotto il pollice opponibile, in un piccolo vento in cui scrutare parole stampate che mobili mi chiedono di fermarle per leggerle, guardarle, udirle, sentirle entrare dentro di me come se quella vita diventasse un po’ anche la mia.
Poesie dal 2009 al 2017; sedici anni di poesie sono tanti con i versi che si dipanano nell’arco del tempo raccolti in capitoli cronologici. Ed è come entrare in una vita che scorre, guarda, riflette, s’emoziona, dice.
Introduce bene la prefazione di Andrea Ponso: «Dovessi pensare ad un parallelo pittorico per la poesia di Danni non potrei non rivolgermi ai Tiepolo, padre e figlio Giandomenico. Le grandi, spettacolari visioni del primo e le precise e sorprendenti attenzioni del secondo verso ciò che da queste viene escluso: i poveri, la natura umile e quotidiana o, ancora, l’inquietante apparizione dei Pulcinella.».
Sfogliando il libro, cronologicamente leggendo, mi soffermo sulle poesie che mi prendono istintivamente e si fanno riflessione emotiva. Sarà bello vederne anche la mutazione della forma nel tempo, se ci sarà, comprenderne i temi, semmai le contraddizioni.
«Era l’adolescenza dell’indecise clessidre; / io trovavo i suoi cardini vuoti di qualunque porta. / Di fronte all’entrata senza custode / passare fu più difficile: / l’ordine buio dentro la stanza / spaventava quanto un invito.» Siamo a pagina venti e già c’è tanto tra immagini che amplificano il senso indeciso nel tempo dell’adolescenza: i passaggi solo apparentemente liberi, l’invito che teme il buio senza riferimenti. Un modo molto brillante per descrivere le contraddizioni degli ossimori.
È una poesia che costruisce la sua forma sintattica su delle spezzature spigolose, a volte intermittenti che danno al ritmo sonoro la forza di sospendersi nella riflessione. Ma è nel lessico che ne ravvedo il talento pittorico che dice anche del nascosto dietro l’angolo. Poi d’improvviso segmenti di suono antico, sonorità sillabiche della tradizione: «I putti laccati d’argento / dispersi nell’aria ridenti / come li ho letti una volta / …»; due novenari piani seguiti da un ottonario che non t’aspetti.
La spina dorsale era lo Zed o Djed nella religione degli antichi Egizi, era la spina dorsale di Osiride, re dell’oltretomba, ed era la sede del fluido vitale per la stabilità di una vita eterna. In questo libro, almeno in tratti di esso c’è una mistica che lo sottende. La figura di Cristo è presente insieme ai punti d’oscurità dove la speranza insegue Bruegel e i suoi ciechi. «Cristo bambino l’altro mostrava / le braccia i polsi gonfiati / quasi a dire vittoria, / sacrificato infine, alla tua voglia, / alla iena che mi sorveglia. …». Una scrittura forte, possente, in un poeta giovane che mi conduce ad antiche traduzioni delle poesie di Dylan Thomas.
Su youtube ho ascoltato un’intervista assai tenera al giovane Danni. Presentava la sua prima raccolta in un piccolo libro di un piccolo editore. Il titolo era: La spina dorsale. Desidero trascrivere un segmento di quell’intervista, forse inutile a tanti sedicenti “poeti” che imperversano sul web con le loro scorie, la loro effimera autoreferenzialità, rassegnati ai like, a questo logo di pollice recto che compensa la frustrazione della loro trasparenza. E così dice il giovanissimo Danni a ventitré anni: «… leggere molto e scrivere molto. Molte persone scrivono poesie senza conoscere la poesia. …è importante che una persona prima di dichiararsi poeta, scriva e scriva tanto, butti via tanto, entri costantemente in crisi e non apprezzi mai quello che scrive, perché sono dell’idea che solo cercando sempre di fare del meglio si può arrivare ad un risultato buono. Perché la poesia è una carta e una penna in fin dei conti, quindi è la cosa più semplice da realizzare, però la poesia buona, appunto perché è così facile da ottenere una poesia, la poesia buona quindi è ancora più difficile da raggiungere come risultato. …»
«Contro la luna le ossa di lupo / ti hanno trovato / nella fossa dei bari e delle zecche / mentre chiedevi a un cardellino impagliato / cosa vede un occhio di vetro.» Avrà letto tanto Danni e soprattutto concentrato tanta vita, per scrivere dilatando in metafore surreali un dolore metafisico.
«… Il solco arato a fondo, la fibra vera dei campi, / il lavoro soltanto aveva in seme, fibra / arata contro, negro solco dei campi, / il braccio nervoso di chi fu servo / prima che forca.»
Non mi soffermo sul tema sociale, sul dolore delle ingiustizie, su quel negro solco dei campi così esplicito, desidero soffermarmi sulle spezzature di questi cinque versi per sottolineare la capacità dell’inciampo sonoro, del singhiozzo improvviso nel suo unico enjambement. Si provi a dirli a voce alta, rispettando gli accapo voluti, come sempre succede a un buon poeta, e si inciamperà, dopo quella fibra, in un singhiozzo improvviso.
La cronologia mette insieme poesie con titoli. Fin’ora quelle del duemilanove e del duemilaundici: dai trentuno ai trentatré anni di età, ma verosimilmente scritte anche prima; per dire della maturità giovane di questo poeta. «… i santi insistono a implorare / incendi da una candela, …», «Le scapole a vento di Icaro / se non rimane niente / a fingere aquiloni su in granaio. …», «… il rogo rovente teme la cenere.». Poi d’improvviso qualche consonanza: «Lingue di menta, nera placenta, salive / correnti tra il corpo di latte nascente / e il rimosso d’acqua cascante – …» che ti riporta ad un suono antico, mentre «… Erbe matte inviolate corteggiano il lago, / e vietano il passo a chi osa di fonte.». Un figurativo che nella sintesi espressiva dà maggiore vita e senso a ciò che si vede e fermano in sospensione il passo. Qui, la capacità della vera poesia di interrompere la facile comprensibilità sintattica per diventare il dato emotivo dell’irrisolto, e «Al manicomio di Treviso / seduto su un sasso / Gino Rossi sfogliava / ad occhi socchiusi / un’ombra di salice. …». Tutto sembrava semplice, ma d’improvviso t’accorgi, e non t’aspetti, che anche l’ombra la si può sfogliare.
In GALGüT A CORONA poesie dal duemilatredici al duemilasedici, ne scelgo una, ma per intero: «Vestiti a niente nel paese dei venti contrari, / rifondi le ombre, le devastate, irrora i deserti: / vaste sono le ombre e vasti i deserti / qui tra i portatori di sabbia / dove chi viene non è chiamato, / dove nessuno viene chiamato. / Nasce parlante e si ripete, è tutta sabbia, / la stessa che prima era pietra, blocco / di linee e linee senza orizzonte e oltre… // Per rubare la copia dell’orizzonte / ha venduto persino il falsario. / E quello sì, quello era innocente.».
Poesia criptica nella sua parte finale? Ma poi ti accorgi che è proprio questa apparente oscurità che ti risucchia in una rilettura interpretativa costante, per scoprirne visioni e connessioni, ponti e percorsi. Qui l’essere umano che fabbrica mandala di sabbia colorata e s’allena al vento che la porta via. Qui la consapevolezza di quello che è, anche dell’orizzonte linea che non è infinito. Ma è la forma che fa della riflessione metafisica un’emozione metafisica. Chi sarà il falsario innocente? L’uomo o il Mistero?
Poesia complessa che si fa anche inconscio, anche quando descrive. Siamo al duemiladiciasette, dove una vita si è fermata, ma non la sua parola. La parola che resta l’invenzione più straordinaria dell’essere umano, e che nella poesia esiste come segno e percorso, come senso da dare ad una sabbia dispersa ma che dimora ed è vera.
ULTIMI VERSI E FRAMMENTI è l’ultimo titolo dell’ultimo capitolo, e se ultimi sono, nessuno lo saprà mai. Il frammento mi attira come un rudere consumato ma pieno del suo tempo, dei suoi profumi, della sua materia maleolente, delle carezze e delle violenze, delle delusioni, delle disillusioni e delle speranze di chi non rinuncia a scoprire, a conoscere, a vedere.
«… dove il sarto dei toni estrae il fumo dal fuoco / per renderlo ai fatui.»; «… Ogni terna / è sirena d’un punto incendiato / e un punto incendiato è tutto il creato. …». Un poeta che è sarto e si dichiara fatuo, un poeta che diventa sirena per un punto che diventa il tutto di rima che incendia. E tanto altro per ogni parola, ogni virgola, ogni punto.
Finisco con la fine che fa iniziare l’indice che indica, e resto muto, perché il lettore legga questo magnifico poeta, questo magnifico libro di Danni Antonello.
«il verso preciso ormai l’ho perso, / intriso di sangue parlava di acqua, / di una fonte sotto a un monte / dentro a un buco chiamato inferno, / un’acqua secca che probabilmente non è esistita / ma che guariva, e dava una casa // una somiglianza sarebbe bastata».
Ariele D’Ambrosio
Napoli gennaio 2022