di Pasquale IACCIO
Mi sono occupato di censura fin dalla mie prime ricerche, da quando, io sconosciuto ricercatore di storia contemporanea, ebbi la fortuna di pubblicare un lungo saggio sulla rivista «Storia Contemporanea» diretta da Renzo De Felice(1). La cosa non era del tutto normale perché in quegli anni dominava la storia “politica” o comunque legata a fonti e enti “istituzionali” e De Felice era il massimo rappresentante di questa tendenza. Tuttavia, forse proprio perché l’argomento non rientrava nei canoni della sua e delle altre scuole concorrenti, non ebbe alcuna difficoltà ad accettare il lavoro di un giovane sconosciuto. In realtà, il saggio era fondato su ciò che gli storici, tradizionali o meno, ritengono alla base dei loro lavori e cioè un fondo archivistico. Si trattava della censura teatrale fascista esistente presso l’Archivio di Stato di Roma. Solo che questa documentazione era del tutto ignorata, sia dagli storici del teatro, che si dedicavano di preferenza ai testi degli autori, sia dagli storici contemporaneisti che, a quel tempo, consideravano il teatro, ma anche il cinema e gli altri settori delle cultura di massa, come ambiti di minore importanza rispetto a quelli della storia politica, economica, degli affari esteri e così via. La conseguenza di tutto ciò era che, quando pure si citava una fonte bibliografica relativa alla censura teatrale, sia nelle ricostruzioni degli storici contemporaneisti, sia di quelli del teatro, si ricorreva alle Memorie inutili, scritte dallo stesso censore teatrale dopo il fascismo che, per quanto documentate e scritte con cura, non potevano non avere un intento “giustificatorio”(2). Era come se, per parlare di Napoleone, si citassero solo le sue memorie scritte a Sant’Elena o di Mussolini solo la sua opera omnia.
Lo studio sui 13.000 copioni, sopravvissuti dei 18.000 mila esaminati dal 1931 al 1943, fu invece rivelatore di molto più che una semplice riflessione sull’opera di un normale revisore.
La censura teatrale esisteva in Italia già prima dell’epoca fascista e aveva una lunga e consolidata tradizione. Era demandata ai prefetti del Regno che avevano il compito di vagliare i copioni delle opere che le varie compagnie intendevano rappresentare nei teatri delle diverse città italiane. Era quindi decentrata e non centralizzata, come quella cinematografica, istituita in Italia nel 1913 che rispondeva a un Ufficio Unico. La censura teatrale, per la sua stessa struttura, creava non pochi problemi al teatro italiano che si basava su un sistema di compagnie di giro che tenevano spettacoli nei teatri sparsi per il paese e le colonie. Il prefetto di una data città, o piazza teatrale, poteva consentire uno spettacolo, mentre quello della città vicina, poteva vietarlo in tutto o in parte. Questo sistema lasciava nell’incertezza i capocomici quando dovevano far fronte a un divieto improvviso sostituendo il testo vietato con uno di riserva o con altri accorgimenti. A volte alcuni attori, che godevano del favore del duce, si rivolgevano direttamente a Mussolini per avere un permesso (o favori di altro genere) scavalcando così il normale vaglio del prefetto revisore. Da parte sua il duce si regolava secondo un criterio personale e, come un principe rinascimentale, spesso concedeva lui un permesso che naturalmente era insindacabile. Ciò creava problemi, come nel caso della rappresentazione di un’opera che, per qualsiasi motivo, poteva dar adito a strascichi e polemiche. Per questo motivo, oltre che per una razionalizzazione di ordine generale che si ebbe negli Anni Trenta, la censura decentrata dei prefetti fu uniformata a quella cinematografica nel ’31 con l’istituzione di un Ufficio Unico presso il Ministero degli Interni (poi inglobato nel Ministero per la Cultura Popolare). L’Ufficio Unico venne affidato a un viceprefetto, Leopoldo Zurlo, proveniente, come molti suoi colleghi, dalle file dell’amministrazione giolittiana, che dal ’31 al ’43 vagliò da solo la bellezza di oltre 18.000 copioni (dal teatro drammatico alla rivista musicale, dalle opere del settore primario a quelle popolari ecc.). Zurlo fu un funzionario di grande cultura e di straordinaria abilità che svolse il suo compito con perizia e garbo tanto da raggiungere due risultati notevoli. Restò in carica per un periodo lunghissimo senza venir sostituito (come accadeva ai responsabili di altri uffici ministeriali sostituiti con facilità secondo i desideri del duce) e soprattutto riuscì a far digerire ai richiedenti la sua funzione di “cerbero” divenendo una sorta di tramite tra autori e potere. Si proponeva nelle vesti di amico dei richiedenti (autori, capocomici, impresari) in grado di far approvare opere che, senza i suoi paterni “consigli”, mai avrebbero ottenuto il permesso. Il suo operato rispondeva a un abile criterio di politica censoria in grado di indurre gli stessi autori ad adeguarsi alle linee della politica culturale del regime. Nei confronti dei richiedenti appariva però come una persona comprensiva che li aiutava a destreggiarsi tra i molti ostacoli che gli autori dovevano superare per vedere le loro opere rappresentate sulle scene. Col tempo, il costume di “consigliare” portò, nella stragrande maggioranza dei casi, a un adeguamento automatico degli autori che a volte chiedevano lumi al censore anche in via preventiva. Sembra un paradosso, ma, nella memorialistica e nelle testimonianze successive al fascismo, non si trova un solo autore che non abbia considerato Zurlo come un amico del teatro e degli stessi richiedenti, dispensatore di permessi che la legge (volutamente generica e passibile di mille interpretazioni) difficilmente avrebbe consentito. Nel duello del gatto col topo, che si instaura in ogni circostanza del genere, è il potere che stabilisce le regole del gioco e ottiene i risultati voluti, a dispetto di quanto gli stessi autori ritengono di aver conseguito. Molte delle opere che circolavano sulle scene avevano un co-autore in più di quelli regolarmente riportati in cartellone: il censore Leopoldo Zurlo. Il fine ultimo di qualsiasi ufficio di censura non è il divieto palese, ma di indurre gli autori a seguire “spontaneamente” le tendenze che il potere stabilisce per gli operatori culturali. La censura teatrale o – meglio – la gestione della politica culturale nei confronti della scena drammatica, come anche dello schermo e degli altri comparti dello spettacolo, si inseriva in una tendenza che si andò consolidando nel corso degli Anni Trenta.
Il fascismo fu un prodotto originale della storia politica italiana che divenne poi modello per altre esperienze del genere che fecero tesoro delle sue realizzazioni. Ma ebbe un periodo abbastanza lungo di adattamento anche nel campo dello spettacolo. Per anni dovette destreggiarsi tra la spinta innovatrice che molti intellettuali vedevano nel nuovo corso della politica anche in campo culturale. Mussolini fu inondato da proposte di tanti uomini dello spettacolo che vedevano in lui il possibile innovatore di vecchie e consolidate consorterie. E il duce nei primi anni, influenzato dalle idee di una donna a cui era molto legato, come Margherita Sarfatti, si regolava secondo le tendenze del momento e le simpatie personali. Il passaggio da questa fase “movimentista” (secondo una definizione di De Felice) a quella “istituzionale” degli anni del fascismo maturo, si ebbe all’inizio degli Anni Trenta quando il regime prese nelle sue mani tutto il settore della comunicazione, dello spettacolo e della formazione dello spirito pubblico con l’istituzione di Direzioni Generali, come quella del Teatro, affidata a Nicola De Pirro, che perseguiva un indirizzo culturale in linea con gli intenti ideologici dei vertici. La censura teatrale fu quindi incardinata in questa istituzione. Zurlo revisionava le opere. De Pirro stabiliva l’andamento “politico” del movimento teatrale entrando nel merito della composizione delle compagnie, di quanti autori stranieri fossero consentiti in una stagione, a chi dovessero essere destinate le “sovvenzioni” e tante altre cose. E’ impressionante il numero di iniziative che vennero abbondantemente sovvenzionate, naturalmente se si adeguavano ai desiderata dei vertici, diventando uno strumento di cattura del consenso e di coinvolgimento per gli intellettuali (è stato calcolato in oltre 900 il numero dei destinatari di sovvenzioni). Chi non si uniformava, non solo veniva escluso dalle sovvenzioni, ma finiva per essere escluso da ogni forma di lavoro intellettuale. Si venne così a creare un sistema incrociato di controllo e promozione che lasciava pochi margini all’autonomia individuale, alla sperimentazione e alla creatività dei singoli autori. Il fascismo mise in opera il sistema del bastone (censura) e della carota (sovvenzioni) che uniformò, istituzionalizzò e rese docile il settore dello spettacolo secondo un criterio di direzione politica della cultura. Ottenne ciò che più gli stava a cuore: acquiescenza, autocensura, conformismo, compromissione, adulazione a cui fu ridotto lo spettacolo italiano alla fine degli Anni Trenta. Singoli casi di autonomia intellettuale – pochi in verità – valgono per quello che sono: splendide testimonianze individuali.
La svolta nella gestione della politica teatrale fu probabilmente provocata da un episodio clamoroso, e imbarazzante per il regime, che si verificò a Roma nel 1929 quando un’opera di Roberto Bracco venne interrotta da una delle peggiori gazzarre squadristiche verificatesi sulle scene italiane.
Roberto Bracco era all’inizio degli Anni Venti un autore di lunga e stimata carriera, apprezzato in Italia e all’estero. Ebbe però la cattiva idea di schierarsi contro il nascente fascismo e presentarsi come candidato della lista di Opposizione Costituzionale capeggiata da Giovanni Amendola nelle elezioni del ’24. Non solo. Ma fu uno dei pochi che, anche dopo l’affermazione del regime, non ricorse a una delle tante vie traverse (come un “atto di omaggio” al duce o al fascismo) con cui tanta parte della cultura italiana fece dimenticare qualche avversione al fascismo nei propri trascorsi. Il risultato fu che Bracco si vide escluso da tutti i settori in cui prestava la propria opera: teatro, cinema, riviste, editoria e perfino avversato nella conquista del Nobel che venne dirottato nel ‘26, in seguito a pressioni del governo italiano, verso Grazia Deledda (fu, a detta di testimoni dell’epoca, la prima volta che il governo di un paese si adoperava contro e non in favore dell’assegnazione a un connazionale)(3).
Dopo alcuni anni di silenzio, Bracco venne ripresentato sulla scena da un’attrice, Emma Gramatica, sua vecchia amica (e, in anni lontani, fiamma amorosa), che, contemporaneamente, era una fervente “italiana”, ammirata dallo stesso Mussolini. Per ottenere il consenso all’ultima commedia di Bracco, I pazzi, pubblicata nel ‘22 ma scritta nel ‘17, la Gramatica aveva dovuto far ricorso a uno speciale permesso del duce. L’opera debuttò a Napoli nel ‘29 ed ebbe uno straordinario successo di critica e di pubblico, tributato da una platea entusiasta, composta, in buona parte, da esponenti del fascismo locale accorsi per salutare un vecchio e stimato commediografo che ritornava alle scene dopo un periodo di silenzio. Per un breve momento sembrò possibile la libera circolazione di un’opera di un autore non ortodosso e che la magia del teatro consentisse di superare gli ostacoli che la politica sembrava imporre al mondo della cultura. Sfortunatamente per Bracco, la manifestazione di simpatia fu giudicata, dagli informatori della polizia e dagli esponenti dell’ala più radicale del regime, come manifestazione di “antifascismo intellettuale”. In teatro si trovavano molti rappresentanti del vecchio mondo liberale, compresi alcuni esponenti del circolo crociano, che salutavano il ritorno dell’autore alle scene e contribuirono al successo del debutto partenopeo. Questa circostanza determinò il sabotaggio, avvenuto pochi giorni dopo, in un teatro della capitale. La commedia venne interrotta da una vera e propria azione squadristica che si rivolse non solo contro gli ammiratori di Bracco, ma investì gli attori, bersagliati da lanci di monetine, provocò l’intervento della forza pubblica, devastò il teatro e sollevò un’enorme impressione nel mondo della cultura. La vicenda de I pazzi, le sue due rappresentazioni e la successiva esclusione dai teatri, dimostrava l’impreparazione dei vertici del regime nel decidere, alla fine degli Anni Venti, un chiaro indirizzo in un settore così importante come il teatro primario. Mussolini non ritenne di intervenire per modificare il corso degli avvenimenti. La forzatura degli ambienti più radicali del fascismo romano aveva trasformato una vicenda, iniziata come una delle novità di una stagione teatrale, in un vero e proprio monito rivolto al mondo della scena perché si conformasse a un costume in cui le implicazioni politiche erano ritenute prevalenti su quelle artistiche. Prima di allora non era mai avvenuto che un’opera teatrale venisse tolta dalla circolazione perché le idee dell’autore non erano in linea con le idee del potere. La commedia non aveva contenuti politici. Dopo di allora le cose cambiarono. Probabilmente proprio l’episodio della gazzarra in un teatro romano contribuì all’istituzione di un sistema centralizzato di censura preventiva che doveva impedire che le estemporanee decisioni di Mussolini, in seguito a personali richieste di qualche attore vicino al regime, potessero creare conseguenze così contraddittorie come era avvenuto nella vicenda de I pazzi. Bracco fu uno dei pochi (e forse l’unico) che non cercò, né accettò alcun tipo di compromesso, né ricorse a uno dei preziosi “consigli” di Zurlo per schivare le censure. Fu anche l’unico, tra i tanti che ottennero la famosa “sovvenzione”, a restituire la somma di denaro che, a sua insaputa, Emma Gramatica aveva richiesto per lui al Ministero per la Cultura Popolare per ragioni di salute. Impiegò più di due anni per rimandare indietro l’assegno al ministero, solo perché non era mai avvenuto, né avverrà in seguito, che un beneficiato restituisse l’elargizione. Il “caso Bracco”, che si prolungò fino al ’43, data di morte del vecchio autore intransigente, fu il classico sassolino nel ben oliato sistema di controllo e addomesticamento del mondo della cultura da parte di un regime che vantava tra i suoi meriti la promozione dell’arte e degli intellettuali italiani. Non è certo un caso che Zurlo, nel suo libro di memorie, ammettesse la “mala azione” nei riguardi di Bracco come l’unico “errore” compiuto nell’opera di revisione delle oltre diciottomila opere da lui revisionate.
Anche il cinema nel periodo fascista fu assoggettato al sistema di controllo da parte del regime. Dopo la Grande Guerra lo schermo italiano, che era stato uno dei primi al mondo, andò incontro ad un grave declino e il mercato di casa nostra fu invaso dai prodotti del cinema americano che si avviavano alla conquista del mondo. Mussolini non si preoccupò di tutto ciò sia perché riteneva il teatro il settore più importante e in grado, tra l’altro, di veder nascere un grande poeta drammatico che avrebbe illustrato la nuova era inaugurata dal fascismo, sia perché considerava l’italiano medio immune dall’influenza dei prodotti americani. L’una e l’altra previsione si rivelarono errate. Il teatro non espresse il grande poeta politico, né – per la verità – nemmeno un onesto cantore delle gesta del regime. Le opere che furono rappresentate ebbero scarso successo e alcune furono addirittura controproducenti.
Agli inizi degli Anni Trenta il cinema, come gli altri settori della cultura, fu oggetto di un interesse che doveva portare alla sua “rinascita” e alla sua affermazione in grado, addirittura, di far concorrenza ai prodotti americani. Si misero in essere iniziative anche di grande importanza, come l’istituzione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il Centro Sperimentale di Cinematografia, la costruzione degli studi di Cinecittà. E, rispetto al teatro, si realizzarono anche film che, in qualche caso, si rivelarono di buon livello. Vecchia guardia e 1860 di Blasetti, Cavalleria e Luciano Serra pilota di Alessandrini, Scarpe al sole di Elter e perfino un curioso film di Mario Camerini Il grande appello, sulla guerra d’Africa, e pochi altri raggiunsero risultati migliori delle opere teatrali dello stesso genere.
Ma il cinema fascista non diede i risultati sperati per vari motivi. Intanto non si riuscì a realizzare un numero consistente di opere ideologicamente orientate (non più del 5% secondo una stima alla buona), vuoi per una certa riluttanza degli autori, vuoi per il disinteresse del pubblico maggiormente attratto dalle opere di altri generi o addirittura dai divi del cinema hollywoodiano. Ma soprattutto per un equivoco di fondo che costringeva gli autori ad essere esposti alle critiche degli organi di stampa più oltranzisti che sparavano ad alzo zero contro qualsiasi soluzione narrativa che non disegnava i personaggi come eroi granitici dell’ideologia fascista. Blasetti fu uno dei registi che, nonostante i buoni risultati raggiunti, fu sotto gli strali di questi apologeti della critica incapaci di capire che, anche per fare onesta propaganda, era necessario non mettere su un piedistallo marmoreo il protagonista di un film narrativo. Gli americani, non a caso, si regolavano in modo diverso e quando, durante la guerra, produssero opere di “propaganda” adoperarono diversi e più abili schemi narrativi.
Ma soprattutto il regime fallì il suo esperimento più importante quando promosse, con una enorme grancassa pubblicitaria, il film più costoso e propagandato del periodo realizzando Scipione l’africano diretto da Carmine Gallone, con cui si proponeva di “celebrare” la conquista di un Impero e, contemporaneamente, di far concorrenza al prodotto americano(4). Il film, uscito nel 1937 dopo la conquista dell’Impero, era la maggiore metaforizzazione di Mussolini (il nuovo Scipione) e del fascismo paragonato alle glorie della Roma antica. Più che un normale film di finzione, Scipione l’africano fu un vero e proprio “manifesto” filmato del regime con una sommatoria di simboli, personaggi e “valori” che dovevano illustrare il presente ed esaltare la figura del duce. Perfino le scenografie dell’epoca furono sovradimenzionate per disegnare i caratteri di una grandezza che doveva illuminare la Roma di Mussolini. Il film non solo non conquistò i mercati esteri, ma finì per avere meno incassi di un normale film in costume, come il contemporaneo Giuseppe Verdi del solito Gallone. Fu un grave smacco per i teorici del regime che constatavano il maggior successo, in Italia e all’estero, di tanti film del melodramma italiano, con la capacità evocativa della musica lirica, che non le opere sui “condottieri”, come nel caso di Scipione. Beniamino Gigli, col suo fisico corpulento e poco marziale, e gli altri tenori della lirica di casa nostra, vincevano sulla gloria degli Scipioni a cavallo (e di Mussolini, a cavallo o meno). In un mio libro, Lo spettacolo asservito(5), si riportano le critiche che, su una rivista fascista, un giovane poeta come Alfonso Gatto, coraggiosamente muoveva in questi termini al filone ideologico del cinema italiano, mentre esaltava i migliori prodotti del cinema USA che fino al ’38 erano l’80% dei film che si proiettavano sugli schermi del nostro paese (altro paradosso dello spettacolo durante il fascismo). Dopo il ’38, con il “contingentamento”, furono fortemente limitati i prodotti d’oltreoceano col risultato di lasciare il pubblico italiano privo di un immaginario affascinante a cui ormai era abituato. I prodotti autarchici non riuscirono a colmare questa lacuna, anzi fecero aumentare negli spettatori il desiderio dei nuovi orizzonti intravisti nelle opere straniere.
In margine al tema della censura è il caso di accennare a qualche considerazione riguardante il rapporto tra potere e mondo culturale italiano che va anche oltre il ventennio.
La prima è la questione della continuità tra l’epoca giolittiana e quella fascista in cui i membri dell’amministrazione, di vertice e di base, non trovarono ostacoli insormontabili a transitare dalla liberal-democrazia alla dittatura (Zurlo si è sempre vantato, anche in seguito, di aver fatto rispettare una legge che non stava a lui giudicare).
La grande novità fu che, mentre lo stato liberale si limitava a esercitare una “normale” censura nei riguardi del teatro o del cinema, il regime fascista inaugurò una pesante politica del consenso o del coinvolgimento di enti e di singoli intellettuali attraverso quella che ho definito la “politica delle sovvenzioni” che finì per determinare un costume in cui veniva premiata, non la qualità artistica delle opere, ma la fedeltà ideologica degli autori. Lo stato divenne parte attiva nella promozione culturale del paese e questo costume è rimasto in vita anche dopo la caduta del regime. In altre parole, se lo stato è l’ente che finanzia le iniziative culturali di un paese, anche se democratico, non può non determinarsi una sorta di riserva mentale tra chi distribuisce finanziamenti e chi invece dovrebbe esprimere liberamente valutazioni, riflessioni o addirittura critiche nei riguardi di quello stesso stato che lo mantiene in vita. Tradotta in una facile formula, tutto questo si manifesta nel costume di “correre in soccorso del vincitore” da parte di tanti esponenti della cultura ad ogni cambio di governo o ad ogni stormir di fronda.
Il rapporto tra intellettuali e potere fu magistralmente tradotto per la scena nel primo atto de L’arte della commedia di Eduardo quando rappresentò un umile capocomico di un teatro viaggiante che si recava a chiedere un sostegno a un prefetto dell’Italia democratica. Eduardo affrontava il tema della continuità tra fascismo e democrazia repubblicana che, specie nel settore dello spettacolo, vide una sostanziale continuità nei metodi e perfino nei funzionari. Si pensi che gran parte del personale amministrativo rimase saldamente all’interno degli uffici ministeriali che si occupavano dello spettacolo (non Zurlo, ma solo per limiti d’età).
Un solo esempio: l’avvocato Nicola De Pirro, a capo della Direzione Generale del Teatro negli Anni Trenta, divenne, in epoca repubblicana, il responsabile di tutto il settore dello spettacolo fino agli inizi degli Anni Sessanta. La lunga lista dei soggetti cinematografici di autori progressisti, abortiti per le censure ministeriali nel periodo neorealista e anche dopo, è ancora tutta da scrivere. Francesco Rosi mi disse una volta che, per far passare il suo Salvatore Giuliano, un capolavoro del cinema italiano del dopoguerra, dovette recarsi al Ministro dello Spettacolo per “contrattare” col solito De Pirro la resa di alcune scene fondamentali dell’opera e perfino quante scariche di mitra si dovevano sentire nel finale del suo film…
1. P. Iaccio, La censura teatrale durante il fascismo, «Storia Contemporanea», a. XVII, n. 4, agosto 1986, pp. 567-614.
2. Leopoldo Zurlo, Memorie inutili. La censura teatrale nel ventennio, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1952.
3. P. Iaccio, L’intellettuale intransigente. Il fascismo e Roberto Bracco, Guida editori, Napoli 1992. Roberto Bracco e la cultura italiana tra liberalismo e fascismo, «Meridione. Sud e Nord nel Mondo», a. xx, n. 1, gennaio-marzo 2020, pp. 151-195.
4. P. Iaccio, (a cura di), Non solo Scipione. Il cinema di Carmine Gallone, Liguori, Napoli 2003.
5. P. Iaccio, Lo spettacolo asservito. Teatro e cinema in epoca fascista, ESI, Napoli 2020. In questo volume si riporta come alcuni esponenti del teatro napoletano, Viviani, i fratelli De Filippo, Maldacea, nonostante la damnatio memoriae che circondava Bracco, furono a lui vicini e in qualche caso riuscirono a portare sulle scene opere dell’autore in disgrazia.