di Antonio GRIECO
A quarant’anni dalla morte, una riflessione su due lavori di bruciante attualità del grande drammaturgo napoletano: Napoli Milionaria! e La paura numero uno, e un ricordo del vivace dibattito sulla svolta neorealistica del suo teatro
Uno dei temi più attuali della drammaturgia eduardiana è, senz’altro, quello della guerra: un incubo – basti del resto osservare le tremende immagini dei massacri di civili inermi che quotidianamente ci giungono da Gaza, dall’Ucraina, dal Libano o dalla Siria – che, purtroppo, sta ritornando, trasformando, ancora una volta, radicalmente il nostro sguardo sul mondo. Siamo ormai ad oltre quarant’anni dalla morte di Eduardo – avvenuta il 31 ottobre del 1984 – e in questo importante anniversario non si è mancato, soprattutto a Napoli, di ricordarne, con interessanti iniziative – come, ad esempio, la pubblicazione (per “la Repubblica”), a cura di Maria Procino e Alessandro Toppi, dello spettacolo di Lino Musella Tavola tavola, chiodo chiodo …, o lo Speciale Eduardo (edito dalla rivista “Infiniti Mondi”) – la genialità di un grande uomo di teatro che partendo da un microcosmo ai margini della scena internazionale, riuscì, con un linguaggio semplice e popolare, ad essere inteso da comunità tra loro diversissime e lontanissime dalla nostra storia e cultura. Negli ultimi anni, tuttavia, – e soprattutto osservando alcuni rifacimenti televisivi dei suoi lavori – abbiamo intravisto il rischio che il suo teatro sia spesso oggetto di riattivazioni ingenue, che puntano più a fare il verso al suo magistrale comportamento attoriale, che a “rileggerlo“ intercettando i territori meno esplorati della sua invenzione scenica; un attraversamento critico della sua drammaturgia che riuscì invece molto bene, in momenti diversi e con inediti attraversamenti sperimentali, ad attori artisti come Leo De Berardinis, Antonio Neiwiller, Enzo Moscato, per citarne solo qualcuno.
Uno dei modi per rendere vivo oggi il suo messaggio artistico e umano, è, dunque, tornare a meditare su alcuni aspetti della sua poetica rimasti in ombra nelle recenti “riscoperte” del suo teatro: primo tra tutti, come accennavamo, quello della guerra, che ritorna, come sappiamo, in due importanti lavori de la “Cantata dei giorni dispari”: Napoli Milionaria! e La paura numero uno, rispettivamente del 1945 e del 1950. In entrambi i testi, l’autore attore napoletano sorprende, a nostro avviso, per la capacità intuitiva (e artistica) di capire il senso delle cose mentre accadono: quando, cioè, noi stessi, siamo parte di un unico, caotico processo di trasformazione di cui non comprendiamo dove ci condurrà: in sostanza, dal buio, dall’interno di un magma incandescente, Eduardo seppe “vedere”: riuscì cioè a scorgere la profonda trasformazione del nostro mondo interiore nel dinamico e incomprensibile fluire della vita intorno a noi.
Proprio per il “sofferto” contributo di Eduardo allo “svelamento” di questo infinito “tempo dell’uccidere” (1) – ripensando qui a un titolo di un noto romanzo di Ennio Flaiano – ci sembra opportuno, se pur brevemente, ricostruire la genesi di questi suoi due importanti lavori. Il primo, Napoli milionaria!, è legato, molto probabilmente, ad una decisione che interesserà, nel 1944, la vita stessa del drammaturgo napoletano all’indomani della liberazione della sua città dai nazisti: l’acquisto di una abitazione a Parco Grifeo, a Napoli, nello stesso palazzo dove abitava Paolo Ricci, pittore e critico, suo fraterno amico (2).
Qui, non di rado, Eduardo invita alcuni suoi amici e intellettuali napoletani, perché ascoltino dalla sua viva voce le prime bozze delle sue commedie ed esprimano liberamente il proprio pensiero. Di una di queste riunioni – a proposito proprio di Napoli Milionaria! – scrive, nel 1950, all’uscita del film omonimo, Ugo Bosco (probabilmente pseudonimo di uno scrittore napoletano) sul periodico di destra «Il Borghese», raccontando di un forte disappunto di Ricci alla lettura di Eduardo della prima bozza del testo. Che avrebbe addirittura insistito con tono minaccioso perché Eduardo trasformasse la sua opera. «Fatto sta – egli aggiunge – che la commedia subì alcune modifiche, ma poiché i suoi amici e compagni non erano molto intelligenti ed Eduardo lo era molto di più, Napoli milionaria restò una bella commedia qualunquista» (3). Certo, la fonte è molto parziale e si avverte anche nei toni («Ricci si fece paonazzo e urlò» (4)) una certa acredine nei confronti dell’artista critico comunista amico di Togliatti (di cui eseguì il ritratto, quando, nel 1944, giunse a Napoli dall’Unione Sovietica ), di Paul Éluard, di Pablo Neruda, di Max Ernst, di Raffaele Viviani, di Eduardo, e di tanti altri artisti e intellettuali di fama internazionale che ospitò nel suo studio a Villa Lucia, sulla collina vomerese. Bisogna però qui sottolineare che sia per Eduardo (5) che per Ricci quella riunione di cui parla il giornalista napoletano, in realtà, non si era mai tenuta: ma che se pure ci fosse stata – scrive il critico in una lettera al periodico diretto da Longanesi, poi pubblicata da l’Unità di Napoli – l’estensore dell’articolo non avrebbe mai avuto il piacere di parteciparvi «perché Eduardo è molto prudente nell’accogliere nella propria casa persone sospette. E fa benissimo» (6). Tuttavia, di un dissenso dell’artista critico alla famosa battuta “Haddà passà ‘a nuttata” parla anche Maurizio Valenzi, futuro sindaco di Napoli, suo amico e anch’egli pittore, sostenendo che quella frase sembrava a Ricci un invito alla rassegnazione (7). Di «significato attesistico» (8), riferendosi a quella stessa battuta, scrive anche Vittorio Viviani nella sua Storia del teatro napoletano (Guida Editori, 1969), affermando, tra l’altro, che in un primo tempo Eduardo aveva in mente di intitolare il lavoro Don Gennaro ‘a borsa nera: «Al modo di Aldo Fabrizi che, a Roma, pochi mesi dopo la fuga dei Tedeschi, aveva dato il primo lavoro di attualità del dopoguerra: “Come si dice in inglese?”; e nel quale agiva il napoletano Passarelli. Eduardo, infatti, che aveva assistito a quella commedia, parlò a Curcio di un suo progetto analogo, da ambientarsi a Napoli: “Don Gennaro ‘a borsa nera”; ma al ritorno nella sua città, rimase smarrito dagli avvenimenti più grandi di lui, che gli fecero abbandonare la posizione “scettica… » (9). Il punto decisivo, che spinge Eduardo a rivedere il progetto iniziale trasformando “Don Gennaro” nell’eroe positivo della commedia, crediamo sia proprio questo cui allude Viviani. La convinzione cioè che la sua arte dovesse in qualche modo non restare indifferente di fronte alle immani sofferenze del suo popolo. C’è qui, inoltre, da sottolineare che in questo impegnativo lavoro, Eduardo collocò con convinzione il suo teatro nel clima neorealistico dell’arte e della letteratura italiana del tempo. «Il fatto è che allora – scrive Ricci rispondendo duramente al Bosco – nel ’44, la commedia “Napoli milionaria!” meravigliò coloro che conoscevano solo superficialmente Eduardo: molti infatti non riuscivano a spiegarsi il contenuto francamente democratico e antifascista di quella commedia perché non si rendevano conto dell’evoluzione subita da tutta l’arte e la cultura italiana negli anni terribili della guerra» (10). Per questo, sembra poco persuasiva l’idea del giornalista e scrittore Marco Demarco (11), che si dice convinto che la cultura dei comunisti di allora sia viziata “dall’antiamericanismo” e che lo stesso Eduardo esprima in fondo, a suo modo, lo stesso pregiudizio ideologico (12) . Anche Napoli Milionaria! dunque rientrerebbe in questo tipico scontro ideologico da “Guerra fredda”? Noi lo escludiamo decisamente, soprattutto se riandiamo alle parole con cui Eduardo racconta la nascita del suo capolavoro: «Poche settimane dopo la liberazione, egli ricorda, mi affacciai al balcone della mia casa di Parco Grifeo, e detti uno sguardo al panorama di questa città martoriata: allora mi venne in mente in embrione la commedia e la scrissi tutta d’un fiato, come un lungo articolo sulla guerra e le sue deleterie conseguenze» (13).
Dunque, il tema vero di questa commedia è la guerra, insieme all’aspirazione ad un armonico mondo di pace che il grande autore attore vede sempre più allontanarsi all’orizzonte («No! Vuie vi sbagliate… ‘A guerra nun è fernute… E nun è fernute niente!», dirà infatti Gennaro ad Adelaide, amica di Amalia, nel secondo atto del dramma (14)): battuta indubbiamente rivelatrice del profondo turbamento esistenziale di Eduardo, però già presente nella prima stesura del dramma, e non – come ritiene il Demarco – inserita solo in un secondo momento, quando la commedia debuttò, nel ’77, al Festival di Spoleto, in versione opera lirica con le musiche di Nino Rota (15). Dunque, Napoli milionaria! sembra appunto l’eco di una profonda inquietudine dell’autore attore napoletano, cui, allora, stava soprattutto a cuore la messa in scena di una Italia tragica (e reale) deliberatamente occultata dalla classe dirigente al potere. La svolta neorealistica di Eduardo si distinse anche per un poetico immaginario simbolico che ritroveremo in altri suoi lavori di quel periodo: «Ricordate – nota a questo proposito Ricci, che pubblicherà l’opera a puntate su «La Voce» (16), il giornale socialcomunista napoletano di cui è responsabile della pagina culturale – l’ultima scena di Napoli milionaria! si conclude con la celebre battuta di Gennaro Iovine, il reduce della prigionia che al ritorno trova la sua famiglia disgregata, corrotta, travolta dalla generale ondata di vizi: «“Ha da passà ‘a nuttata”, dice, alludendo alla figlioletta che ha bisogno di un medicinale per sopravvivere. Quella bambina era Napoli e il medicinale era la speranza del riscatto, la volontà del popolo di riconquistare dignità umana e lavoro» (17). Per molti versi, ancora più “rivelatore” dello stato d’animo di Eduardo di quegli anni, è la tensione emotiva che si coglie dall’inizio alla fine in La paura numero uno, una commedia rappresentata da Eduardo nel 1950, quando nel dibattito pubblico italiano si torna insistentemente a parlare di un nuovo conflitto globale, e di un nuovo, terrificante utilizzo della bomba atomica. Il tema della commedia, che allora debuttò con successo al Festival della prosa di Venezia – ricorda Fiorenza Di Franco, acuta esegeta del suo Teatro – è «il timore diffuso all’epoca di una terza conflagrazione mondiale. Era il tempo della guerra fredda e gli uomini che erano usciti dagli orrori della guerra vivevano nel terrore di ricadervi. Eduardo però va oltre questo tema contingente, dimostrando che la vita stessa è una guerra, poiché gli uomini si combattono tra loro, vivono avidamente, e quando amano lo fanno malamente» (18). Parole condivisibili che rispecchiano il sofferto stato d’animo dello scrittore nei primi anni del dopoguerra. Tuttavia, ciò che ancora colpisce in questo dramma, è appunto la sua chiara allusione simbolica: a partire dal comportamento di Matteo Generoso, che vive ossessionato dalla possibilità di nuovi, violenti spargimenti di sangue, a quello della madre, che per paura di perdere suo figlio non esita addirittura a “murarlo” per evitargli il rischio di essere chiamato alle armi. «Nell’atmosfera tra allucinante e paradossale del secondo atto si stacca – osserva Ricci – dapprima come una nota modesta, la figura forse poeticamente più alta e bella di tutta l’opera: la madre. La madre non può opporre alla follia della guerra che il suo cuore. Agli assassini che tentano di prendere il figlio, come le presero il marito e come le presero il primo figlio, ella reagisce cercando di sottrarlo agli uomini e quasi rinchiudendolo nuovamente nel grembo» (19).
Abbiamo ritenuto opportuno riprendere questi due straordinari testi di Eduardo, perché convinti che, entrambi, nei tremendi, autodistruttivi scenari contemporanei, continuino a interrogare drammaticamente il nostro presente. E che riattivarli oggi drammaturgicamente crediamo possa anche aiutarci a scoprire quell’Eduardo “segreto”, crudelmente visionario, che col suo “Teatro civile” seppe riconoscere per tempo il ritorno delle inquietanti ombre del passato, gridando forte il suo sdegno e il suo dolore contro la follia della guerra.
- 1) Il titolo esatto del romanzo di E. Flaiano è Tempo di uccidere, edito da Longanesi nel 1947.
- 2) Cfr. M. Giammusso, Vita di Eduardo, Roma, Elleu, 2004, p. 208.
- 3) U. Bosco, Il teatro alla napoletana, in «Il Borghese», Milano, ottobre 1950, n.15.
- 4) Ibidem.
- 5) Si veda, al riguardo, la lettera che Eduardo De Filippo scrive a Ricci da Milano il 6 novembre 1950: «Ho letto la lettera che hai spedito a Longanesi e apprendo tutte le notizie che mi dai di quel Bosco. Credo che la tua messa a punto basti, ed inutile occuparmi ancora di quel farabutto». La lettera è nell’“Archivio privato Paolo Ricci”, presso l’Archivio di Stato di Napoli.
- 6) P. Ricci, I latrati non coprono la voce di Eduardo, in «l’Unità-Napoli», 14 novembre 1950
- 7) Cfr. P. Gargano, La passione civile: nel ricordo di Valenzi, in «Il Mattino», speciale Eduardo, 26 maggio 2000.
- 8) V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida Editori, 1959, 915.
- 9) Ibidem. p. 911.
- 10) P. Ricci, I latrati non coprono la voce di Eduardo, cit.
- 11) Cfr. A. Grieco, Eduardo e Paolo Ricci, storia di un’amicizia tra impegno civile, arte e vita, in «Infinitimondi», Eduardo De Filippo, l’uomo, il teatro, il suo sdegno civile nello sguardo di Paolo Ricci, n. 37, 2024, p. 15.
- 12) M. Demarco, l’altra metà della storia, spunti e riflessioni su Napoli da Lauro a Bassolino, prefazione di Giuseppe Galasso, Napoli, Guida, 2007, pp. 34-36.
- 13) Citato in Napoli milionaria!, Wikipedia.
- 14) E. De Filippo, Napoli Milionaria!, in Cantata dei giorni dispari, Torino, Einaudi, 1979, p. 70.
- 15) Cfr. M. Demarco, cit. p. 37.
- 16) Cfr. Paolo Ricci: un barlettano al servizio della cultura, in «Omaggio a Paolo Ricci». Esposizione delle opere donate al Museo Civico di Barletta, catalogo delle opere, Azienda di Soggiorno e Turismo Barletta e Canne della battaglia, 1980.
- 17) P. Ricci, Il teatro di Eduardo, in «Cronache meridionali», Napoli, aprile 1958.
- 18) F. Di Franco, Il teatro di Eduardo, Bari, Laterza, 1975, p. 157.
- 19) P. Ricci, Il grido di Eduardo contro la follia della guerra, in «l’Unità», 12 giugno 1951.