di Mirella SAULINI
Il caso della letteratura teatrale dei Gesuiti
La letteratura teatrale tragica dei Gesuiti rappresenta una buona parte della produzione poetica neo-latina dell’Europa della prima età moderna (1). Essendo il teatro parte integrante dell’attività didattica dei collegi della Compagnia di Gesù, esso è sottoposto alle regole formulate nelle varie Ratio Studiorum, da quelle dei collegi, a cominciare dal Collegio Romano, fondato nel 1551, la cui normativa, data la centralità dell’istituzione, superava le mura del collegio stesso, alla versione finale del 1599 e sua revisione del 1616.
La struttura delle tragedie raccoglie l’eredità del dramma classico, cinque atti in metro giambico con cori finali e parti liriche all’interno degli atti, non sempre prologo, e talvolta epilogo.
La regola della Ratio prevedeva tre punti: argomento «sacro e pio», lingua latina e assenza di personaggi femminili. Alle donne era interdetto insieme al palcoscenico, anche l’ingresso nel teatro, eccezion fatta «in transalpinis provinciis, aut locorum necessitas aut usus aliud suadeat superioris arbitrio» (nelle province d’Oltralpe, nel caso le necessità o i costumi locali, facciano decidere diversamente, a discrezione del superiore) (2).
Quello dell’esclusione delle donne dal pubblico del teatro gesuitico di collegio è un problema a parte rispetto a quello dei personaggi femminili e dunque non lo affrontiamo in questa sede. Ricordiamo però, a tale proposito, che autori delle opere rappresentate erano solitamente i docenti di retorica dei collegi e che a recitare erano gli allievi degli stessi. Il pubblico era selezionato, composto da ecclesiastici e da appartenenti a famiglie in vista, che spesso sostenevano le scuole con donazioni, nonché dai genitori degli allievi, fossero o no questi sul palcoscenico. È evidente che l’esclusione delle donne, in particolare di madri e sorelle degli allievi e di patronesse, poneva in serio imbarazzo i responsabili del collegio (3).
Tornando all’esclusione dei personaggi femminili dalle storie drammatizzate, occorre precisare che fino alla Ratio Studiorum del 1591 la regola bandisce muliebris habitus, dunque, a rigore, leggendo habitus non nel significato originario di aspetto, persona, ma in quello post augusteo di abito indossato, vestendo il personaggio femminile con l’abito talare che la Ratio del Collegio Romano prescriveva per le allegorie (4) e usando qualche accorgimento si poteva rendere la regola meno precettiva. Tenendo presente questo, non sembra casuale che, su questo punto, la Ratio atque Insitutio Studiorum Societatis Jesu definitiva prescrivesse perentoria: «nec persona ulla muliebris vel habitus introducatur», bandendo così dai palcoscenici dei collegi della Compagnia di Gesù tanto muliebris habitus che vestis (5).
I drammaturghi sentirono molto il condizionamento del bando ai personaggi femminili, ci sono testimonianze di questo. Tanto la Bibbia che il Martirologio offrono senza dubbio molte storie drammatizzabili, ma il protagonismo femminile fortemente presente limitava non poco la scelta degli autori. Era prevista la possibilità di richiedere deroghe alla regola, ma la loro concessione era a discrezione dei superiori e ovviamente non era garantita (6).
Gli scrittori di teatro hanno dunque un canone da seguire; esso è, abbiamo visto, esterno alla Compagnia di Gesù relativamente alla struttura della tragedia, modellata su quella classica, interno, regolato dalla Ratio Studiorum, relativamente allo scopo, alla lingua e al contenuto dell’opera.
Restringendo il discorso al teatro gesuitico italiano, prenderemo in esame alcune tragedie, comprese in un arco di tempo che va dal 1564 al 1632; autori ne sono quattro tra i più grandi drammaturghi gesuiti: Stefano Tucci (1540-1597) e i più giovani Bernardino Stefonio (1560-1620), Alessandro Donati (1584-1640 e Leone Santi (1584-1652). Essi intervennero, in modi diversi, sulla parte del canone dovuta alla Ratio; lo fecero però rispettando il fine didattico ed edificante, che è fondamento e ragion d’essere del teatro dei Gesuiti, e senza stravolgere il canone stabilito bensì stabilendone uno meno limitante. A guidarli furono da una parte ragioni d’ordine drammaturgico dall’altra le esigenze del pubblico; entrambe sono spia di una professionalità in passato spesso sottovalutata o non pienamente riconosciuta.
Nel 1564, Stefano Tucci (7) scrisse e rappresentò per la prima volta a Messina Juditha, tragedia in cinque atti, con prologo ed epilogo; per le parti recitate l’autore scelse l’esametro, ritenendo il giambo poco adatto ai contenuti cristiani, e verso dalla cadenza troppo dura. Confermò la scelta dell’esametro nella successiva trilogia cristologica (8).
La tragedia riprende la storia dell’eroina biblica la quale, chiamata dall’angelo di Dio, uccise il generale Oloferne, comandante in capo dell’esercito di Nabucodonosor, e salvò la città di Betulia stremata dall’assedio dell’esercito assiro. Accanto a Giuditta c’è, come nella Bibbia, l’anziana serva Abra; per motivi che supponiamo di verosimiglianza, Tucci introduce alcuni cittadini, tanto uomini che donne, affamati e assetati. I personaggi femminili appena citati sono però personaggi di contorno; a imporsi come presenza scenica portatrice del messaggio edificante è Giuditta ed è su di lei che Tucci lavora, anticipando le possibili obiezioni alla sua presenza (9).
Appena entrato in scena, Prologo comunica che si rappresenterà Giuditta e, riprendendo l’interpretazione figurale della Bibbia spiega il perché: Giuditta è figura di Maria, alla quale la città di Messina è devota. Procede poi a un minuzioso confronto tra Giuditta e la Vergine Maria, entrambe pronte alla chiamata dell’angelo, entrambe caste, coraggiose e portatrici di salvezza. Per concludere:
Quam bene conveniat Mariae Juditha videtis,
Unaque et alterius forma sit atque typus.
Iam si tantus honor Mariae, si gloria tanta est,
Si tanti Mariae nomina, Zancla (10), facis
Curae aliae cedant. Linguisque animisque favete
Juditha Assyrium dum ferit ense caput (11).
(Vedete quanto bene Giuditta si addica a Maria / come fisionomia e carattere siano dell’una e dell’altra / Ora, se tanto grandi sono l’onore e la gloria di Maria / se tanto grande venerazione hai del nome di Maria, Zancle / via tutti gli altri pensieri. Si fermino le lingue e le menti / mentre Giuditta ferisce di spada l’assirio capo.)
La facile obiezione che anche quello di Maria è un personaggio femminile, in un contesto cristiano, per meglio dire cattolico visto che siamo dopo il Concilio di Trento, non regge. Non soltanto Maria è assunta in cielo e dunque è al di fuori di ogni categoria terrena, ma è anche il modello al quale ogni donna cristiana dovrebbe ispirarsi. Se, come scrisse il professor Griffin, l’esclusione dei personaggi femminili era parte d’un pregiudizio secondo il quale il teatro aveva cattiva influenza sui comportamenti delle donne (12), ciò non poteva accadere se ad apparire in scena era la Vergine Maria!
Maria torna sul palcoscenico di Messina, questa volta non figurata ma reale, nella seconda tragedia cristologica di Tucci: Christus Patiens (13). La data della composizione e della messinscena dell’opera non è accertata, ma essa fu certamente scritta prima del 1569, anno del Christus Iudex, che chiude la trilogia.
Tratta dai Vangeli della Passione, la tragedia ha il suo protagonista nel Cristo, ma Maria, lungi dall’essere un personaggio di contorno vi ha una rilevanza forse anche maggiore che nei Vangeli ed è presente nella lista dei personaggi con il proprio nome, non come madre di Gesù. L’autore modella un personaggio di mater dolorosa che, pur consapevole di quanto il Cristo è chiamato a fare, della sua missione di salvezza, esprime tutto il proprio umano dolore prima per i patimenti del figlio, poi, in un pianto irrefrenabile ai piedi della croce, per la sua morte:
Quae feritas? Quae gens Solymo tam barbara caelo est?
quis tam crudeles optavit sumere poenas?
cui tantum de te licuit?, cur, hei mihi, presso
ore riges! […]
Heu, non ulla quies animi nullusque doloris
est modus, exanimes gliscunt sub pectore curae
incenduntque animis luctus! (5, vv. 301-311)
(Qual ferocia! Chi è tanto barbaro / sotto il solimo cielo? chi volle dare pene così crudeli? / chi poté tanto su di te? ohimè, perché è rigido / il corpo martoriato? […] / Oh, nessuna quiete ha l’animo e nessuna misura / lo strazio, cure e dolore affannano il petto, brucia / l’animo!) (14)
L’umanità e il dolore materno fanno di Maria un personaggio nel quale ogni madre può riconoscersi. Ancora guidato da un’esigenza di verosimiglianza, Tucci mette in scena anche le altre donne della Passione.
La modifica della parte della regola relativa ai personaggi femminili non è di poco conto e va sottolineata la precocità degl’interventi su tale punto. Bisogna invece arrivare alla fine del XVI secolo, per avere la cosiddetta riforma di Bernardino Stefonio (15), il quale allarga alla Storia, nel caso quella di Roma, il bacino al quale attingere per scrivere una tragedia d’argomento «sacro e pio».
Nel 1597 Stefonio mette in scena a Roma Crispus Tragoedia, il cui protagonista è Giulio Flavio Crispo, figlio dell’imperatore Costantino, cristiano come suo padre e mandato da lui a morte per l’accusa, falsa, mossagli dalla matrigna Fausta, di averla insidiata (16). Nella tragedia, il principe, al pari dei martiri cristiani, affronta la morte coraggiosamente, senza desideri di vendetta e fiducioso nella promessa divina:
Horrere mortem quempiam, non est pium.
Iam victa, iam mansueta, iam demum mihi
ultima videtur esse, non asperrima:
hac abitus, hac et reditus in caelum est piis;
exire qui cunctatur, imprudens sibi
exilia lento prorogat patriae exuli.
[…]
Nunc liber animus, omnis exempto metu
Discriminis, quo tendit in patriam evolat. (5,I, vv. 319-329) (17)
(Non è pio temere qualsivoglia morte. / Ormai vinta, ormai doma, mi pare ormai proprio ora / l’ultima, ma non la più ardua soglia: / per essa c’è l’accesso, per essa il ritorno al cielo per i pii; / chi indugia a uscire, stolto prolunga a sé stesso, / pigro esule dalla patria del cielo, l’esilio. […] Adesso l’anima libera, cessata ogni paura del pericolo / vola verso la patria alla quale tende.)
Il Crispus è, come fa intendere l’autore stesso nell’Argumentum della tragedia, una rilettura in chiave cristiana del mito d’Ippolito e dunque si pone in linea con l’Ippolitus di Euripide e la Fedra di Seneca (18). Scegliendo deliberatamente una vicenda che si situa in un momento storico di progresso del Cristianesimo, in cui però il paganesimo non è ancora vinto e utilizzando il criterio dell’imitazione del Cristo, Rex Martirum, Stefonio riesce ad armonizzare le strutture classiche e il messaggio cristiano creando la tragedia del martire (19). In questa fusione di elementi culturali lontani se non contrastanti, consiste quella che viene dalla critica definita ‘riforma stefoniana’. Nel 1600, il drammaturgo ripeterà con Flavia Tragoedia, dove a morire innocenti per volontà dell’imperatore Domiziano, sono prima i suoi nipoti ed eredi al trono di Roma Tito Flavio Domiziano minore e Tito Flavio Vespasiano, poi il loro padre Tito Flavio Clemente, tutti cristiani (20).
La modifica apportata da Stefonio alla prescrizione della Ratio può apparire di poco conto paragonata all’inserimento del protagonismo femminile che nei fatti non rispetta quella parte del canone. Certo, l’argomento delle due tragedie stefoniane non è a rigore sacro, ma non si può dire che la vicenda di principi cristiani che muoiono innocenti, privi di rimpianti e fiduciosi nella promessa divina non sia un argomento pio.
Il problema nasce piuttosto sul piano della poetica; ad evidenziarlo e risolverlo, senza però mettere fine a una discussione durata fino ai nostri giorni, fu, nel 1633, il gesuita, amico ed ex allievo di Stefonio, Tarquinio Galluzzi, al quale si deve la definizione tragedia del martire (21). Nel suo Rinovazione dell’antica tragedia e Difesa del Crispo, Galluzzi, tenendo presente Aristotele, si domanda se un martire cristiano, che non è l’uomo di mezzana bontà richiesto dal filosofo, ma è uomo perfetto, possa essere protagonista d’una tragedia. Galluzzi trova la soluzione uscendo dalla norma aristotelica e scegliendo l’idea di Platone, secondo il quale l’origine della tragedia è nell’odio degli Ateniesi per la tirannide di Minosse, re di Creta: la tragedia è un mezzo atto a suscitare odio contro la tirannide. Senza approfondire i motivi, che si suppongono storici, del passaggio dalla visione platonica a quella aristotelica, Galluzzi sottolinea la concordanza di scopo tra la tragedia antica e quella del martire: ambedue mirano al bene comune dal momento che il loro fine è antitirannico, poco importa se il tiranno è Minosse che minaccia gli Ateniesi o Satana che minaccia le anime (22).
Richiede qualche parola la questione dei personaggi femminili in queste due tragedie di Stefonio. Nel Crispus Fausta non appare mai, ma si sentono le urla disperate con le quali finge di reagire all’azione di Crispo, un espediente drammaturgicamente inattaccabile, che però è stato accusato d’ipocrisia (23). Nel 1600, un anno dopo la Ratio definitiva, l’autore sceglie invece la soluzione radicale e rimuove da Flavia la scena nella quale compaiono la madre dei giovani, Domitilla, sua nipote e le loro ancelle. Va sottolineato che fa questo senza creare un vuoto nell’intreccio (24).
Svevia Tragoedia di Alessandro Donati (25), scritta e rappresentata a Roma nel 1629, è un esempio di come nei primi decenni del diciassettesimo secolo le modifiche apportate al canone possano ormai considerarsi acquisite. Svevia è una tragedia storica d’ambientazione medioevale, nella quale, come in tutte le opere del genere, né la cronologia degli eventi né il carattere dei personaggi sono perfettamente aderenti alla realtà. Siamo nel 1254, e il nodo tragico è la rivalità tra i figli ed eredi del defunto imperatore Federico II di Svevia: l’imperatore Corrado IV e i fratellastri Manfredi e Giordano che, recita la didascalia, «alcuni chiamano Enrico». Evidente che nel personaggio è adombrata la figura dell’ultimogenito di Federico, non battezzato Enrico, ma più tardi chiamato con il nome dello zio Enrico III d’Inghilterra o forse del fratellastro Enrico, morto nel 1242 in circostanze misteriose.
Manfredi, a suo dire penalizzato nel testamento paterno, vuole a qualunque costo sedere, da solo, sul trono imperiale. Per raggiungere lo scopo, che, ci dice la Storia, non raggiungerà mai, avvelena Corrado; questi, già entrato in sospetto del giovane fratellastro, viene convinto da Manfredi del tradimento di Giordano. L’accusa è falsa, ma per essa il giovane è mandato a morte (26).
Pur non avendo la fede profonda dei principi di Stefonio, Giordano rivolge il proprio pensiero a Dio e, soprattutto, crede in Dio quale Rex Regum dal quale proviene ogni potere terreno; lo rivela questa frase da lui detta all’imperatore Corrado: «Habet timendum, cuncta qui superat, Deum / humana pendet omnis hinc felicitas» (Colui che prevale su tutto deve temere Dio; / tutta la felicità umana è appesa a questo filo) (1,IX, vv. 609-610) (27).
L’azione della tragedia ci dice che, diversamente dai fratelli, il giovane re meriterà il Paradiso; infatti, nell’ultimo atto, mentre tutti, anche i cittadini che sentono di aver perduto un buon sovrano, piangono accanto al feretro di Giordano, il coro canta il suo spirito che sale verso il cielo:
Quam fortis heu funere in ultimo
offers cruentis colla securibus!
Dignus secula vincere
primo concidis aevo.
Eheu, quam pius occidis!
Sanctis ictus amoribus,
pulcer spiritus extulit
inter sidera cursum. (5,VIII, vv. 532-539)
(Oh, come coraggioso nell’estrema rovina / offri il collo alle scuri sanguinarie! / Degno di superare i secoli, / cadi nell’età giovanile. / Ohimè, come devoto cadi! / Colpito da un amore santo, / il fulgido spirito s’aprì / la via tra le stelle) (28)
Dunque, in Svevia Tragoedia non soltanto lo schema base della tragedia del martire è rispettato, ma l’arco della Storia che offre argomenti sacri e pii da drammatizzare si estende a comprendere anche quella del Medio Evo.
Donati inserisce in Svevia, unico personaggio femminile della tragedia, l’imperatrice Isabella, madre di Giordano, nata principessa d’Inghilterra, che giunge dopo un lungo e faticoso viaggio in nave per affiancare Giordano e supplicare Corrado di salvare il figlio. Nell’elenco dei personaggi si precisa che è «virili habitu», indossa cioè abiti maschili. Spiega ella stessa il motivo: ha dovuto, per prudenza, dato il tempo e le circostanze, nascondere la propria persona e la propria regalità.
Il fatto è che Isabella d’Inghilterra era morta nel 1241, quando il figlio aveva soli tre anni e dunque va considerata alla pari d’un personaggio femminile d’invenzione la cui presenza, dal momento che Corrado non l’ascolta, è ininfluente e drammaturgicamente irrilevante. Sul perché Donati decida la sua presenza si può però formulare qualche ipotesi. Di certo la sua supplica accorata di madre a Corrado IV e la richiesta estrema di farla morire insieme al figlio creano un pathos che cambia per un momento l’atmosfera della tragedia, ma c’è anche altro. L’implacabilità di Corrado evidenzia come l’ambizione del potere renda l’imperatore non soltanto del tutto privo di sentimenti fraterni, ma soprattutto di quella pietà che un buon sovrano dovrebbe saper usare quando è necessario. Di contro risalta la mitezza dell’innocente Giordano e il messaggio cristiano si fa più forte.
Ultimo autore del quale vediamo l’opera è il padre Leone Santi (29). Il gesuita, che pure scrisse in latino opere poetiche e teatrali, preferì per Il Gigante, tragedia in cinque atti con cori e parti liriche all’interno degli atti basata sulla storia biblica di Davide e Golia, andata in scena a Roma nel 1632, e nello stesso anno pubblicata, la lingua italiana. In un discorso Al Benigno Lettore che introduce l’edizione a stampa dell’opera, il drammaturgo motiva la propria scelta d’una lingua diversa dal latino previsto dalla Ratio Studiorum per le opere teatrali (30).
L’ostacolo, chiamiamolo così, costituito dalla lingua latina era stato in passato evitato in modi differenti, come risulta dall’analisi di testi manoscritti (31). Alla luce di ciò acquistano maggiore importanza tanto la scelta del padre Santi che l’averne dichiarato esplicitamente il motivo.
L’indirizzo di Leone Santi Al Benigno Lettore non nasce esclusivamente dalla volontà di spiegare il perché di una scelta linguistica che negava un’importante regola del canone che i drammaturghi gesuiti erano tenuti a seguire. Esso è una vera e propria dichiarazione di poetica che
rappresenta un contributo originale all’interno del dibattito che si accende tra gli ultimi anni del Cinquecento e i primi decenni del Seicento attorno al problema della ricodificazione del genere tragico secondo i canoni del teatro greco classico, con particolare riferimento al teatro gesuitico nascente. […] Di particolare importanza per il nostro testo appaiono, tra gli altri, il modello della pastorale guariniana […] e quello del poema eroico di stampo tassiano (32).
Risultano evidenti tanto il posto che Leone Santi occupa nella storia del Teatro che il significato de Il Gigante. Un motivo d’interesse dell’opera è, per esempio, il Prologo recitato in musica, «una vera e propria piccola azione, protagonista della quale è il fiume Giordano che, allietato e onorato da ben tre cori», riceve dall’angelo Gabriele l’annuncio che Davide risolverà la situazione d’Israele. A questo Prologo potrebbe essersi ispirato Giulio Rospigliosi (33).
Ci fermiamo qui, rimandando per ulteriori approfondimenti e per la bibliografia agli studi citati e torniamo alla scelta linguistica del drammaturgo.
L’esordio del discorso motiva e quasi giustifica come inconsueta per il repertorio del Seminario Romano nel periodo di Carnevale la recita del Gigante. Sono state la grave situazione del momento in Europa – si era nel pieno della crisi del Seicento e della Guerra dei Trent’anni – e particolarmente in Italia, dove dilagava un’epidemia di peste, a consigliare di preferire ad una
Attione di comici scherzi, o burlevoli grazie […] un’Attione (anchor che fatta per altro fine (34)) piana, e giovevole, la quale con la pietà del fatto rappresentato, e con la facilità della lingua, compensasse in parte la grandezza, e vaghezza delle cose, altre volte ivi fatte, con tanta grazia e maestà, e che servisse più tosto per saggio di quello, che si potrebbe fare anche in questo genere fin da gli antichi tempi tralasciato (35).
Ai fini del nostro discorso è importante sottolineare il riferimento alla «facilità della lingua», la quale assicura allo spettatore da una parte «l’intelligenza delle sacre imprese degli antichi Eroi», importante in uno spettacolo destinato alla «ricreazione dei giovani», dall’altra e soprattutto, evidenzia il Santi drammaturgo gesuita che guarda al messaggio che l’opera deve inviare, fa sì che «più profondamente s’imprimono nelle menti de’ spettatori le cose della nostra religione, che nelle sentenze e attioni rappresentate s’esprimono», il che è fondamentale in opere destinate al divertimento di giovani che sono nel Seminario Romano non come in una semplice scuola, «ma come in luogo dove l’altre humane attioni anche si esercitano» (36).
Non c’è molto da aggiungere alle parole del drammaturgo Leone Santi il quale, mentre nel modificare la prescrizione relativa alla lingua mostra di tenere presenti le esigenze del pubblico, e scrivendo «più profondamente s’imprimono…» non manca di sottintendere una piccola riserva sul latino prescritto dalla Ratio Studiorum, proprio nel porre implicitamente la «facilità della lingua» al servizio, diciamo così, della piena comprensione delle «cose della nostra religione, che nelle sentenze e attioni rappresentate s’esprimono», conferma la propria adesione alla finalità religiosa, prevista dalla Ratio Studiorum della letteratura teatrale prodotta per essere rappresentata nei collegi della Compagnia di Gesù.
L’opzione per la lingua locale era dichiaratamente aperta e, come dimostrano i repertori, molti drammaturghi ne approfittarono. Allo stesso modo essi colsero la possibilità di trarre anche dalla Storia gli argomenti delle proprie tragedie; quanto ai personaggi femminili, come abbiamo visto, c’è una molto precoce, tacita accettazione della loro presenza sul palcoscenico.
In conclusione, possiamo dire che, nella sostanza, a prevalere sulla parte del canone fondante stabilita dalla Ratio Studiorum è il canone che nasce dalla gestione da parte dei drammaturghi di quello originario. Nel tentativo di gestirlo conformandosi ad esso, gli autori sembrano aver distinto tra elementi primari e secondari agendo solo sui secondi.
La struttura classica non venne infatti modificata – la scelta dell’esametro da parte di Tucci è un’eccezione – e lo scopo edificante venne rispettato e addirittura ribadito, esplicitamente, abbiamo visto, da Santi, implicitamente dagli altri, soprattutto da Stefonio che fa pronunziare ai propri martiri che affrontano la morte parole non molto diverse da quelle del Cristo sulla croce e da Tucci che mettendo in scena Maria, prima per interposta persona poi direttamente, propone il vero modello cristiano di virtù femminile.
Diciamo che la lingua, l’argomento, i personaggi esclusi, vale a dire la parte del canone che appare sui palcoscenici dei Gesuiti, regolata sì dalla Ratio Studiorum ma che tocca ai drammaturghi gestire, costituiscono l’apparenza dietro la quale deve celarsi, ma in modo tale da essere comprensibile e dunque da incidere sull’animo degli spettatori, il messaggio edificante delle opere, parte essenziale del canone. È nello sforzo di meglio trasmettere questo messaggio rispettando al contempo le esigenze della drammaturgia che gli autori agiscono sul canone e modificano il contingente senza stravolgere il tutto.
- 1) La bibliografia sul teatro dei gesuiti è ormai davvero molto ampia. Per un’informazione preliminare vedi: N. Griffin, Jesuit Drama. A Guide to Literature, in I Gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, a cura di M. Chiabò, F. Doglio, Roma, Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, 1996, pp. 465-496. Relativamente all’Italia, vedi: J.-F. Chevalier, Neo-Latin Theatre in Italy. Renaissance of Latin Tragedy: Poetry, Politics, and Spirituality, in Politics and Aesthetics in European Baroque and Classicist Tragedy a cura di J. Bloemendal, N. Smith, Leiden, Brill, 2016, pp. 182-217; M. Saulini, Tra teologia, pedagogia e drammaturgia: il teatro della Compagnia di Gesù, in Antologia teatrale. Atto secondo, a cura di A. Lezza, F. Caiazzo, E. Ferrauto, Napoli, Liguori Editore, 2021, pp. 31-45.
Per l’aggiornamento, si rimanda ai repertori bibliografici onnicomprensivi pubblicati periodicamente sulla rivista «Archivum Historicum Societatis Jesu». - 2) L. Lukács S.J., a cura di, Monumenta Paedagogica Societatis Iesu V Ratio atque Institutio Studiorum Societatis Iesu (1586 1591 1599), Romae, Institutum Historicum Societatis Iesu, 1986, p. 205.
- 3) Sull’argomento vedi: N. Griffin, Plautus Castigatus. Rome, Portugal and Jesuit Drama Texts, in I Gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, a cura di M. Chiabò, F. Doglio, Roma, Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, 1996, pp. 257-286: 263-265.
- 4) C. Gόmez Rodeles, M. Lecina, V. Agusti, A. Cervo, A. Ortiz, a cura di, Monumenta Paedagogica Societatis Iesu quae primam Rationem Studiorum anno 1586 editam praecessere, Matriti, Typis Augustini Avrial, 1901, pp. 372-373.
- 5) L. Lukács S.J., Monumenta Paedagogica Societatis Iesu V Ratio atque Institutio Studiorum Societatis Iesu (1586 1591 1599), cit., p. 371.
- 6) Abbiamo ampiamente trattato l’argomento dei personaggi femminili nelle opere dei drammaturghi gesuiti in un saggio al quale rimandiamo per ogni ulteriore approfondimento, anche bibliografico: M. Saulini, Attribuire un significato a muliebris habitus, in «Archivum Historicum Societatis Jesu», 2021, 181, pp. 159-186.
- 7) Stefano Tucci nacque a Monforte San Giorgio, piccolo centro della diocesi e provincia di Messina nel 1540 e nel Collegio Mamertino di Messina entrò nella Compagnia di Gesù nel 1557. Dalla Sicilia si trasferì a Roma nel 1572. Fu oratore papale, ma soprattutto fu un teologo, e docente di teologia, di altissimo livello tanto da essere chiamato nel 1583 dal preposito generale, Claudio Acquaviva, a far parte della commissione incaricata di redigere la Ratio atque Institutio Studiorum Societatis Iesu. La sua attività di drammaturgo si esaurì a Messina, dove, tra il 1564 e il 1569, scrisse e rappresentò sei tragedie; tre bibliche, Nabuchodonosor, a tutt’oggi da considerarsi perduta, Juditha, Goliath, e la trilogia Christus Nascens, Christus Patiens, Christus Iudex. Quest’ultima tragedia, nella versione rivista e messa in scena a Roma nel 1573, fu qui pubblicata nel 1673; essa fu inoltre rappresentata e tradotta anche fuori d’Italia. Tucci morì a Roma nel 1597: M. Saulini, Tucci, Stefano, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 2020, 97, ad vocem.
- 8) S. Tuccius S.J., Christus Nascens, Christus Patiens, Christus Iudex Tragoediae, Edizione, introduzione, traduzione di M. Saulini, Rome, Institutum Historicum Societatis Iesu, 2011, pp. 270-271.
- 9) Juditha Tragoedia è disponibile in edizione moderna. La prima pubblicazione del testo latino è dell’inizio del ventesimo secolo: B. Soldati, Il Collegio Mamertino e le origini del teatro dei Gesuiti, Torino, Loescher, 1909, pp. 121-192. Tra le edizioni moderne segnaliamo, con traduzione a fronte: S. Tutii S.J., Juditha Tragoedia, a cura di M. Grandieri, B.A. Graphis, 2001; S. Tutii S.J., «Judith» Tragedia en cinco actos, Ediciόn, introducciόn, versiόn ritmica y notas de J. Quiñones, Melgosa, México, Instituto de Investigaciones Filolόgicas, 2006.
- 10) Zancle (falce) è l’antico nome di Messina, derivato dalla forma a falce del suo porto.
- 11) B. Soldati, Il Collegio Mamertino e le origini del teatro dei Gesuiti, cit. p. 124. (La traduzione dal latino, come tutte le altre nell’articolo è nostra).
- 12) N. Griffin, Plautus Castigatus. Rome, Portugal and Jesuit Drama Texts, cit., p. 259.
- 13) La tragedia è disponibile in edizione moderna: S. Tuccius S.J., Christus Nascens, Christus Patiens, Christus Iudex Tragoediae, cit., pp. 49-142.
- 14) Ivi, pp. 138-139.
- 15) Bernardino Stefonio nacque a Poggio Mirteto, in provincia di Rieti, l’8 dicembre 1560, entrò nella Compagnia di Gesù il 2 febbraio 1581 e morì a Modena, dove era stato inviato quale precettore dei figli del duca d’Este, l’8 dicembre 1620. Stefonio non fu soltanto un drammaturgo, ma anche un umanista di profonda cultura, frequentatore delle conversazioni di palazzo Barberini, e un grande oratore e docente di retorica. Per il teatro scrisse, nel 1591, Sancta Symphorosa Tragoedia e un’opera allegorica, Mimus, rappresentata a Roma nel 1613. Furono pubblicate in un unico volume nel 1655. Nel 1597 scrisse e rappresentò a Roma Crispus Tragoedia, pubblicata nel 1601. Più tardi l’opera fu rappresentata, con modifiche, a Napoli; questo testo fu pubblicato nel 1603. Nel 1600, in occasione del Giubileo indetto da Clemente VIII, Stefonio scrisse e rappresentò Flavia Tragoedia, pubblicata nel 1621: F. Lucioli, Stefonio, Bernardino, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 2019, 94, ad vocem.
- 16) Il Crispus è disponibile anche in edizione critica moderna: A. Torino, Bernardinus Stephonius Societatis Iesu, Crispus Tragoedia, Roma, Bardi by Accademia dei Lincei, 2007. Si rimanda all’Introduzione, pp. 497-503, per la storia del testo e della sua pubblicazione.
- 17) Ivi, p. 597.
- 18) Ivi, p. 506.
- 19) J.-M. Valentin, Le drame de martyr européen et le Trauerspiel. Caussen, Masen, Stefonio, Galluzzi, Gryphius, in Id., L’école, la ville, la cour, Paris, Klincksieck, 2004, pp. 419-460: 434-439.
- 20) La tragedia è disponibile anche in edizione moderna: B. Stephonius S.J., Flavia Tragoedia, Edizione, introduzione, traduzione di M. Saulini, Monte Compatri (RM), Edizioni Espera, 2021.
- 21) Non intendiamo qui tornare su un tema che abbiamo già affrontato altrove e che, per la vastità, ci porterebbe lontano dal nostro argomento. Vedi almeno: G. Steiner, Morte della tragedia, Milano, Garzanti, 1992; B. Hoxby, What Was Tragedy? Theory and the Early Modern Canon, Oxford, Oxford University Press, 2015.
- 22) T. Galluzzi, Rinovazione dell’antica tragedia e Difesa del Crispo, In Roma, Nella Stamparia Vaticana, 1633, passim. Vedi anche : J.-M. Valentin, Le drame de martyr européen et le Trauerspiel. Caussen, Masen, Stefonio, Galluzzi, Gryphius, cit., pp. 439-450.
- 23) G. Gnerghi, Il teatro gesuitico ne’ suoi primordi a Roma, Roma, Nella Stamparia Tipografica, 1907, pp. 53-54.
- 24) B. Stephonius S.J., Flavia Tragoedia, cit., p. 26-29.
- 25) Alessandro Donati, di famiglia nobile, nacque a Siena nel 1584 ed entrò nella Compagnia di Gesù il 25 gennaio 1600. Morì a Roma il 24 aprile 1640. Fu grande oratore e docente di retorica, prima nel Collegio di Siena (1613-1615) poi nel Collegio Romano; nel 1631 fu pubblicato, per essere più volte ristampato, il suo importante trattato De Arte Poetica Libri Tres. Per il teatro, in occasione della canonizzazione di Ignazio di Loyola e Francesco Saverio nel marzo 1622, scisse Pirimalus Celiani princeps, il cui protagonista è appunto Saverio. Nel 1629 mise in scena Svevia Tragoedia, pubblicata nel medesimo anno, e nel 1633 Guelfa Tragoedia, della quale fu pubblicato nello stesso anno l’Argomento, sulla drammatica vicenda di Enrico di Hohenstaufen, il figlio primogenito di Federico II, di parte guelfa, filopapale: G. Formichetti, Donati, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 1992, 41, ad vocem.
- 26) La tragedia, è disponibile in edizione moderna: A. Donatus S.J., Svevia Tragoedia, Edizione, introduzione, traduzione di M. Saulini, Monte Compatri (RM), Edizioni Espera, 2024.
- 27) Ivi, pp. 106-107.
- 28) Ivi, pp. 252-253.
- 29) Leone Santi nacque a Siena nel 1584 ed entrò nella Compagnia di Gesù il 17 dicembre 1601. Morì a Roma il 4 febbraio 1652. Fu per molti anni docente di diverse materie, anche teologia, al Collegio Romano e dal 1644 al 1652 fu prefetto agli studi al Collegio Germanico. È autore di componimenti lirico-drammatici e sviluppa la ricerca dell’adattamento della poesia alla musica. Per il teatro scrisse, oltre ad opere minori, Il Gigante, Somniator sive Joseph, Philippus, rappresentata nel 1656 nell’ambito dei festeggiamenti per Cristina di Svezia. È considerato uno degl’iniziatori del melodramma sacro romano: O. Sartori, Santi, Leone, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 2017, 90, pp. ad vocem.
- 30) L. Santi, Il Gigante, Roma, appresso Francesco Corbelletti, 1632. Nel 1637 l’opera fu messa in scena di nuovo, e di nuovo stampata, con cambiamenti e con il titolo Il David: S. Franchi, Drammaturgia romana. Repertorio bibliografico cronologico dei testi drammatici pubblicati a Roma e nel Lazio. Secolo XVII, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1988, ad indicem. Non è disponibile versione moderna; traiamo le citazioni dall’edizione del 1632.
- 31) N. Griffin, Plautus Castigatus. Rome, Portugal and Jesuit Drama Texts, cit., pp. 265-267.
- 32) E. Pietrobon, Un’amabile tragedia di eroici pastori: intersezione di modelli e linguaggi nel Gigante e nel David di Leone Santi, in La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, Atti del XVI Congresso Naz. Adi, Sassari-Alghero, 19-22 sett. 2012, a cura di G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon, F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014, pp. 1-16: 1-2.http://www.italianisti.it/Atti-di-Congresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=397[consultato il 31/10/2018]. Vedi anche B. Filippi, «… Accompagnare il diletto d’un ragionevole trattenimento con l’utile di qualche giovevole ammaestramento». Il teatro dei Gesuiti a Roma nel XVII secolo, in «Teatro e Storia», 1994, 16, pp. 91-128.
- 33) S. Santacroce, Il Gigante di Leone Santi tra Rospigliosi, il Corago e Tarquinio Galluzzi, in «Studi Secenteschi», 2015, 56, pp. 411-417: 411.
- 34) Santi si riferisce qui al fatto che l’opera ha origine da una serie di intermezzi con acccompagnamento musicale, simili alle actiunculae da lui precedentemente composte. Nel 1647 la tragedia divenuta Il David e accompagnata dalla musica di Benedetto Graziani, dunque in ‘versione melodramma’ fu rappresentata di nuovo.
- 35) L. Santi, Il Gigante, cit., pp. 3-4.
- 36) Tutte le citazioni: ivi, p. 4.