Guida Galattica per i Lettori | Novembre 2023

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AMICO ROMANZO

L’AMARA FATICA DI CRESCERE

di Federica CAIAZZO


Piera Ventre, Zucchero. Piccola storia amara, Napoli, Marotta&Cafiero, 2023

Piera Ventre, autrice dello splendido romanzo Palazzokimbo, edito da Neri Pozza nel 2016, sperimenta, con il suo Zucchero, una nuova dimensione scrittoria, a metà tra romanzo e racconto. Come lei stessa ha dichiarato, durante la presentazione del volume a Napoli nell’ambito della fiera «Ricomincio dai libri», scrivere questa storia è stata una sfida faticosa e al tempo stesso interessante: per rientrare nel numero preciso di battute previsto dall’editore per questo progetto, la scrittrice ha provato a procedere per sottrazioni così da eliminare il superfluo e illuminare l’essenziale senza cedere alla ridondanza. Piera Ventre non solo ha accettato tale sfida, ma l’ha superata con originalità e maestria, condensando in circa novanta pagine l’intenso racconto dell’estate di Enni e Lora, due gemelle che, dopo essere state abbandonate dal padre, si trasferiscono con la madre in una nuova casa nei pressi di uno zuccherificio. Il lettore non sa dove sorge lo zuccherificio né l’anno esatto in cui avvengono i fatti narrati; la vicenda si svolge in una imprecisata periferia italiana nell’arco temporale di un’estate del secondo dopoguerra.
Le due protagoniste si muovono all’unisono, esplorano la campagna intorno alla fabbrica che diffonde un odore di zucchero penetrante e stucchevole, trascorrono lenti pomeriggi sdraiate sull’erba a riconoscere le forme e le figure delle nuvole, si addormentano al sole, scoprono le botteghe del paese e conoscono i loro vicini di casa, i coniugi Gaetano e Marilù Tarantino. La donna, in particolare, appare agli occhi della piccola Lora, che racconta la vicenda, come una strega inquietante e solitaria; la teme e si sente minacciata dalla sua presenza. Le due sorelle agiscono come se avessero un’anima sola in due corpi, sebbene ciascuna abbia i propri tormenti, e si divertono a mettersi l’una di fronte all’altra imitando i gesti reciproci come riflesse in uno specchio. Sono identiche e speculari: «Non saprei dire perché le nostre nature così tanto differissero, quantunque posso confermare che, come avviene per la maggior parte dei gemelli, tra noi ci fosse un filo di sutura assai speciale che a me permetteva di sentire la sua paura e a lei la mia spavalderia. In entrambi i casi, erano echi che ci facevano vibrare.». La trama, coesa e lineare, è turbata da una tragedia annunciata fin dalla prima pagina: una delle due sorelle, Enni, scomparirà. 
Sul racconto, pertanto, cade inesorabile il sentimento dell’attesa. L’estate si trasforma in un tempo sospeso, le azioni delle protagoniste diventano effimere ed evanescenti, quasi fossero un rituale di congedo. La dualità, simboleggiata dalle gemelle, si carica di sensi e pervade il breve romanzo dal suo esordio fino alla conclusione. Nel lettore si insinua l’ipotesi che l’estate, in termini metaforici, sia la rappresentazione di una fase particolare della vita di ogni essere umano e che, quando Enni scompare, in Lora cominci un doloroso e necessario processo di individuazione. Il dolore per la scomparsa è sordo perché non raccontato, ma solo distillato nelle parole di Lora che da adulta rievoca la vicenda con le alterazioni e le deformazioni che caratterizzano i ricordi d’infanzia. 
L’ossimoro creato dal titolo e dal sottotitolo, vale a dire la dissonanza tra la dolcezza dello zucchero e l’amarezza della storia, appare come il presagio della dualità che attraversa l’intera vicenda e ben rende l’andamento a tratti sereno a tratti disturbante del racconto. D’altra parte, l’odore dello zucchero che avvolge l’estate di Enni e Lora è tutt’altro che dolce, è esso stesso stucchevole, nauseabondo. 
In questo intreccio di contraddizioni la coerenza è affidata alla mirabile scrittura di Pietra Ventre che soppesa ogni parola, ogni immagine, ogni passaggio narrativo. La costruzione della pagina è attenta, quasi maniacale. C’è una sorta di ritmo intrinseco nella prosa che l’orecchio del lettore coglie e che è partitura sapiente e delicata. La parola è la vera protagonista, la possibilità di esprimere il non detto, di lasciare spazio al sottinteso, di accrescere il mondo dei personaggi al di là di quanto dichiarato, grazie all’intensità del lessico: «Del resto era notte fonda e ogni cosa nell’oscurità sembra sciagurata. Qualsiasi dolo si potenzia, al buio, si fa liquido e insinuante, si insuffla in ogni osso, in ogni muscolo, in ogni nervo.».
La lingua è una spada che fende l’aria rarefatta di un’anonima periferia italiana avvolta dall’odore di zucchero, amaro come il gioco ossimorico che investe la vita delle due protagoniste, amaro come la fatica di crescere liberandosi o rinunciando a parti di sé. Soltanto così, soltanto adesso, la storia di Lora può avere inizio.

«… ognuno di noi ha un altro se stesso sepolto, 
che attende, con coperte faville, 
il suo giorno.  

Fabrizia Ramondino, Althénopis, 1981»
L’autrice non poteva scegliere esergo più vivido e luminoso.



SIPARI APERTI

Franco Scaldati. Arriva l’opera omnia!

di Rossella PETROSINO

Franco Scaldati.
Teatro 1975 – 1979, a cura di Valentina Valentini,
Viviana Raciti, Venezia, Marsilio, 2022
Franco Scaldati.
Teatro 1981 – 1990, a cura di Valentina Valentini,
Viviana Raciti, Venezia, Marsilio, 2022

«[…] è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; […] ma proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo».
È sempre impagabile l’entusiasmo che si prova nell’imbattersi in pensieri che, pur non riferendosi espressamente a un dato contesto, calzano perfettamente sullo stesso. Le parole di Giorgio Agamben pare siano state scritte pensando a Franco Scaldati; una sera qualunque apri un volumetto di filosofia contemporanea e trovi la migliore definizione si possa utilizzare per descrivere il profilo di un artista.
Franco Scaldati è esattamente l’“inattuale” di cui parla Agamben, ma da questa condizione trova forza espressiva ed è quindi “contemporaneo” perché da outsider elabora un tipo di teatro che diventa da subito uno straordinario esempio di resistenza morale e culturale alla barbarie che avanza, alla quale egli contrappone con fermezza e coerenza la forza della sua poesia. Con determinazione lo scrittore non si adegua alla scena a lui contemporanea, anzi, dice: «Più io entravo nella città, nella civiltà che andava verso il progresso, e più mi sentivo spinto indietro. Mi sentivo a ricavare l’essenza, a cercare il luogo in cui si è nati. Più mi proponevano il progresso e più andavo in direzione opposta».
L’estraneità della scrittura di Scaldati alle temperie estetico-culturali a lui contemporanee (a partire dalla metà degli anni Settanta al primo decennio del nuovo secolo) ha fatto sì che la sua bibliografia, per quanto riguarda la letteratura critica, sia particolarmente esigua. Fino al novembre dello scorso anno avremmo potuto dire lo stesso anche della sua produzione letteraria, quando infatti si contavano 13 opere pubblicate, a fronte di una vastissima produzione drammaturgica.  Ma da più di un decennio un gruppo di studiosi e studiose lavora affinché le opere di Franco Scaldati non finiscano nel dimenticatoio. Un conto è essere il “poeta dei dimenticati” – come lo definisce Viviana Raciti – e un altro conto è essere dimenticato.
Fino allo scorso anno, della sua vasta opera – fatta di temi e personaggi che attraversano quasi liquidamente un corpus drammaturgico in continuo movimento, nel quale i testi non si sistematizzano, non si fermano a causa del costante lavorio dell’autore attorno alle diverse versioni – permaneva una sola piccola traccia disponibile al pubblico, mentre le edizioni di Ubulibri e Rubbettino degli anni Novanta e Duemila erano ormai esaurite. Alla sua morte (avvenuta nel 2013) si scopre però – con sorpresa persino dei più stretti collaboratori – un ampio fondo di opere teatrali, la maggior parte delle quali inedite, nonché una consistente mole di varianti redatte anche a distanza di anni. Tutto questo era sepolto in parte nella sua abitazione e in parte in un minuscolo studio di Palermo, dove Scaldati si trovava ogni mattina, con passione e dedizione a forgiare la sua lingua e i suoi personaggi con la sua Olivetti lettera 33. Malgrado l’indifferenza delle Istituzioni Siciliane prima e dell’editoria poi, questa storia ha un lieto fine: tutto il materiale viene accolto dalle studiose Viviana Raciti e Valentina Valentini che, inconsapevoli della vastità del corpus di opere e dopo una serie lunga di vicissitudini – incontrano la casa editrice Marsilio e con questa curano e programmano la pubblicazione dell’opera omnia di Scaldati.
Nel decennale della morte di Franco Scaldati la casa editrice pubblica i primi due tomi degli otto complessivi dedicati all’intera opera del drammaturgo, che conterrà cioè il corpus delle tredici opere note a cui si aggiungono i trentasei inediti e le molte varianti che l’autore scrisse aggiornando continuamente i testi già scritti. Per il momento Marsilio ha dato alle stampe i primi tre volumi dell’opera di Franco Scaldati ed è prevista la pubblicazione di altri cinque volumi che dovrebbe avvenire entro il 2025. Otto volumi in totale che ci consentono finalmente di avere a disposizione l’intera produzione drammaturgica di un autore che si contraddistingue per la libertà della sua scrittura, in continua ricerca ed esplorazione. Più di 800 pagine per il libro con i testi degli anni Settanta, oltre 600 per la raccolta relativa agli anni Ottanta, e ben 1368 per il volume che copre la produzione dal 1990 al 1999. Si tratta come abbiamo già detto di una produzione vastissima che è stata curata in questi primi volumi nel pieno riguardo della visionarietà e nell’uso della dimensione epica del teatro di Scaldati.
Si giunge a questo attraverso una intensa operazione di ricerca e studio effettuato da Viviana Raciti e Valentina Valentini, alle quali si deve innanzitutto il lavoro di scavo effettuato nell’archivio di Scaldati a Palermo, dove le due studiose si sono trovate di fronte non solo un corpus di decine di drammaturgie ma anche a una serie di varianti dei testi originari. La disposizione dei testi all’interno dei volumi segue un ordine cronologico e alla base è evidente ci sia stato un egregio lavoro di selezione e scarto che ha risposto a dei criteri obiettivi e di confronto. Si tratta di un intervento molto complesso per la natura stessa del materiale che è in gran parte manoscritto con note a margine ed è soprattutto è espresso in “linguaggio scaldatiano”, ovvero quel palermitano che costituisce la cifra distintiva di Scaldati.
Il recupero filologico dell’opera con la meticolosa proposizione dei testi accompagnati dalla traduzione in italiano a fronte, ha quindi comportato la collaborazione di Melino Imparato (attore, storico collaboratore di Scaldati e direttore artistico della Compagnia “Franco Scaldati”) e Antonella Di Salvo (collaboratrice di Franco Scaldati). I due – profondi conoscitori della poetica del drammaturgo siciliano e della lingua di Palermo anche più arcaica – assolvono il proprio compito rispettando il senso profondo della scrittura di Scaldati. Di fronte la duplicità della sua lingua che da un lato è una lingua pienamente poetica, e dunque artificiale ed antimimetica, e dall’altro lato è radicata dentro una precisa realtà, la scelta che viene fatta dai traduttori è quella di tradire il meno possibile il fonema. È il modo probabilmente più giusto per rispettare e restituire la poetica dell’autore che in un’intervista dice: “m’intriga immaginare l’origine della lingua, così come gli uomini hanno cominciato a parlare. E credo che i primi livelli di comunicazione siano stati i suoni. La lingua deve essere piena dei sentimenti che noi ci portiamo dentro, non deve appartenere solo alla testa, deve appartenere al corpo intero e possibilmente all’anima”. Ebbene appare evidente dalle traduzioni a fronte che il metodo scelto è quello di prediligere la fedeltà del suono nella scelta delle parole in lingua italiana. Deve essersi trattato di un lavoro non semplice in quanto l’uso che Scaldati faceva delle sue parole andava al di là della razionalità e del senso concreto di ogni parola; in ognuna di queste ci sono mille significati, mille sfumature, mille colori e sensazioni e quindi restituire questo in un’altra lingua è davvero difficile. È inevitabile che il senso poetico della sua scrittura evapori un po’ con la traduzione, ma si coglie il tentativo di evitarlo da parte dei traduttori anche nella composizione sintattica della frase, che il più delle volte appare lasciata così com’era nella versione originale.
Nondimeno oltre la traduzione a fronte di ogni testo presentato nell’originale disposizione del dattiloscritto vi è l’integrazione con schede introduttive. Ciascun volume include inoltre saggi di contestualizzazione storico-critica che, procedendo cronologicamente, contribuiscono ad una ricostruzione capillare e profonda dell’intera drammaturgia di Franco Scaldati.
Il primo volume riporta quindi i testi d’esordio scritti a partire dalla seconda metà degli anni Settanta: che sono Il pozzo dei pazzi, Lucio, Manu Mancusa, e gli inediti Il cavaliere Sole e Fiorina. I cinque testi sono inseriti all’interno di una cornice saggistica che vede a introduzione Viviana Raciti con Tra barboni, girovaghi e teatranti. Gli anni settanta di Franco Scaldati, e a conclusione Valentina Valentini con Il teatro di Franco Scaldati: il divenire è l’eterno. I due saggi sono guida di lettura e collante tra le varie opere, restituendo coerenza all’intero volume che si compone di ben 838 pagine. 
Il saggio di Viviana Raciti è una importante finestra introduttiva sul contesto nel quale Scaldati scrive le opere che seguono nel volume; nondimeno – essendo suddiviso in piccoli paragrafi titolati – è una sorta di guida interpretativa, laddove analizza, seppur brevemente, gli elementi fondanti di ogni testo. L’analisi della Raciti attraversa ogni testo inserito nel volume restituendo l’andamento complessivo della prima fase di scrittura di Scaldati, caratterizzata da una profonda libertà estetica che ha come unica costante – scrive la Raciti – “la messa in crisi della categoria di realismo”. Valentina Valentini conclude il volume con un saggio che rielabora suoi precedenti scritti sulla figura di Scaldati e che guarda più ampiamente alla drammaturgia dell’autore siciliano. 
Il secondo volume è leggermente meno corposo del primo e contiene otto testi che l’autore scrive dal 1981 al 1990: La guardiana dell’acqua, Indovina Ventura, Assassina, Occhi, Angeli, Fate, Le sette morti del Tamerlano, Edipo.  La cornice saggistica vede ancora una volta a introduzione un saggio di Viviana Raciti che, questa volta si sofferma sugli anni Ottanta che fanno da sfondo e come lingua e scelte estetiche si evolvono nella scrittura di Scaldati di quegli anni. A conclusione troviamo uno splendido saggio dello studioso e poeta scomparso Antonio Barbieri, che aveva precedentemente presentato questo saggio inedito in occasione delle giornate di studio Il teatro di Franco Scaldati promosse dall’Università della Calabria. È un saggio che raccoglie quattro preziose analisi di quattro diverse opere di Scaldati, Il pozzo dei pazzi, La guardiana dell’acqua, Assassina e Occhi, soffermandosi sulla profonda cosmogonia della sua scrittura.
Per il momento la buona notizia è che le opere di Scaldati siano in salvo. Recentemente sono stati pubblicati il terzo e il quarto tomo; attendiamo la pubblicazione dei prossimi volumi e facciamo spazio sugli scaffali della nostra libreria. 



COME SUGHERI SULL’ACQUA

OSSIMORICA DICOTOMIA NELLA POESIA DI EMILIO NIGRO

di Emanuela FERRAUTO

Emilio Nigro, Edipo in fuga, Bari, Les Flâneurs Edizioni, 2022, pp.81, €10

Critico teatrale conosciuto quasi dieci anni fa, quando la regione Puglia e il Teatro Pubblico Pugliese invitavano i giovani critici teatrali italiani ad assistere a debutti nazionali o internazionali, o durante i Festival settembrini, quando si partecipava assiduamente agli appuntamenti teatrali proposti da Rete Critica e da ANCT, Associazione Nazionale Critici Teatro: Emilio Nigro, classe 1981, è calabrese cosentino, aspro e affettuoso come la sua terra, dalla lingua subito riconoscibile, dall’indole spigolosa, ma profondamente sincera. Uomo schietto, di esperienza teatrale, indagatore e dall’animo sensibile, come si evince attraverso la lettura dei suoi versi, mostra una passione sempre viva nei suoi racconti, nelle conversazioni tra uno spettacolo e l’altro, tra una colazione e un pranzo. Fogli e appunti sparsi che negli anni si stanno ricostituendo in una produzione poetica che ha fisionomia, indole e natura ben precise. 
L’ultima pubblicazione, affidata a Les Flâneurs Edizioni, edita nel 2022, si intitola Edipo in fuga, e raccoglie in un volume di 81 pagine alcune delle sue numerose poesie. Proprio il titolo della raccolta ci propone un’ennesima dicotomia, caratteristica fondamentale di questo nostro poeta: dall’Edipo che non riesce a camminare, uomo dai piedi gonfi e cieco, ma che è in continua fuga, all’uomo del Sud che è profondamente radicato nella sua terra, ma si scontra continuamente con le sue origini ed è destinato, come il personaggio greco, ad un destino ineluttabile di allontanamento. L’ossimorico contrasto del titolo, incarnato nella vita e nella storia del protagonista tragico, sembra caratterizzare non solo il nostro autore, ma impregna costantemente i versi di questo volume, le cui pagine attraversano un arco temporale che va da marzo 2021 ad aprile 2022. L’autore, infatti, indica giorno, mese ed anno, in alcuni casi solo mese ed anno, in calce ad ogni componimento anonimo e senza titolo; l’inserimento della data indica il verso conclusivo, che altrimenti potrebbe essere collegato con il verso inziale del componimento successivo, in un flusso costante di pensieri ininterrotti. A partire dai componimenti del novembre 2021 sono indicati anche i luoghi, in una continua alternanza tra Pescara e Napoli. 
La vita di Emilio Nigro, tra teatro, giornalismo, lavoro in amministrazione scolastica e vicende personali, si svolge su e giù per l’Italia, con una lunga permanenza al Nord, fino al recente approdo a Napoli, luogo molto caro al nostro autore. Anche i versi e il viaggio che il lettore affronta tra le burrasche poetiche e intime del poeta, sembrano navigare in diversi luoghi, per poi tornare e approdare alla ricerca di radici. Il concetto di fuga, evidenziato all’interno del titolo, emerge costantemente: l’animo inquieto non si placa, si affievolisce e prende respiro solo davanti al mare, distratto dalle onde e dai rumori notturni: 

«Solo il canto del mare
è motivo fedele
e l’esule luna, amica» (p.13).

La prima parte del volume è caratterizzata da una fortissima mancanza, percezione che riemerge attraverso ricordi dolorosi e lontanissimi; si agganciano continuamente citazioni di ricordi familiari, immagini di luoghi e descrizioni di sensazioni. La dimenticanza e il ricordo caratterizzano ancora una volta una dicotomia ossimorica, un contrasto violento che è sottolineato da verbi al passato, da frasi che ritornano ad un ricordo, dalla malinconia e dal “ciò che è stato”, che tiene legati, ma da cui bisogna fuggire.

L’atmosfera onirica, fortemente crepuscolare, ombreggia sulle pagine che compongono la prima parte del volume, in cui la perdita e la fuga frammentano l’autore, che per un momento si ferma e si rende conto del suo sgretolamento: 

«[…] perduto il centro 
faccio finta nascosto
di stare intero» (p.31).

Nel corso della primavera 2021 le allusioni al ricordo sembrano emergere prepotentemente e l’autore sembra esprimersi più chiaramente, dichiarandosi al lettore, scoprendo la sua fragilità:


«Voglio starti insieme
ovunque siamo
facciamo
vicini, lontani» (p. 36).


E ancora: 


«Tornare
alle strade di ieri
al tremore sconosciuto
all’assenza di famiglia
alla mancanza di cuore
di corpo
inoccupato» (p.37).

Si susseguono versi in cui l’autore chiede all’interlocutore o interlocutrice se rimarrà, afferma di essere in grado di aspettare, fino a concludere con tre componimenti – o forse un unico intero – senza data, a cavallo tra fine maggio e metà giugno 2021, attraverso cui emerge una certa rassegnazione:

«Non domandare attesa all’amore
come dire al vento di smettere
d’annodare ulivi
al papavero di non appassire» (p.44),

per poi concludere con:

«Levata l’ancora 
[…] Giù le mani dal timone,
in alto le vele» (p. 44).

La seconda parte del volume è caratterizzata da una partenza, da un distacco, da qualcosa che non è recuperabile, ma che rimane fortemente ancorato e radicato in una terra. La partenza, il mare, la nave, tutti elementi che riempiono i racconti antichi, sembrano non identificare il sogno di un approdo, bensì l’allontanamento e lo sradicamento:

«Io ti guardo amore mio
dall’altra parte del mare
trattengo il respiro
le mani, la faccia.
Io ti guardo amore
e non ti vedo più
inghiotto l’aria
il sale, il silenzio.
Scoglio di questo mare
solitaria vela mossa appena
profilo di città tra foschia
morso di luna nuova» (pag. 46).

Quest’ultimo verso, che ricorda l’opera di Erri De Luca, si conclude con l’inserimento grafico di una barra che sancisce evidentemente una chiusura di un momento o di una parte del racconto poetico.
I componimenti e i versi che seguono e che caratterizzano l’ultima parte del volume, sembrano condurre il lettore attraverso un momento di sconforto in cui viene invocata la Madre, intesa come persona o terra di origine, in contrapposizione ai numerosi vocaboli che fanno riferimento a luoghi funerei, alla morte, al mito di Orfeo e all’impossibilità di voltarsi indietro. Lo stesso poeta dichiara, nella pagina successiva: 

«Non ho voglia di tornare.
Avvolto.
In silenzio.
Addosso l’aria.
E una pelle nuova.» (p.47).

È evidente l’improvviso utilizzo della punteggiatura, dei punti che concludono i versi; il poeta, infatti, ha presentato, in quasi tutte le pagine, versi liberi, senza uno schema ben definito e in  assenza di segni di interpunzione. Non è un caso, dunque, che proprio questi versi finali di un componimento senza data, siano “bloccati” da un punto.

L’ultima parte del volume ci conduce tra Pescara e Napoli, tra Sapri e Miliscola, attraverso riflessioni contrastanti da cui emerge la volontà di cambiamento; è evidente l’incompiutezza del percorso (che conosciamo in parte per lunga amicizia e che sembra aver avuto esito positivo per il nostro poeta), ma emerge una maggiore consapevolezza nell’analizzare il passato. Il poeta comincia a voltarsi indietro, a tornare con il pensiero e fisicamente, comincia a ricostruire. È inevitabile, però, l’incompiutezza del volume che si chiude al 26 aprile 2022 e che ci presenta alcuni versi più estesi, chiusi da punti e caratterizzati da sospensioni in enjambement, che sottolineano l’incertezza del momento:

«[…] Vado. Per non guardare dietro.
Per non guardare troppo
dentro.
Perché dagli strappi
germoglino
pallidi fiori» (p. 81).

Emilio Nigro continua a comporre i suoi versi, a scrivere anche per il teatro e per il giornalismo teatrale, seguendo la “fuga” del suo Edipo attraverso tutta l’Italia, grazie alle numerose presentazioni organizzate in tutto il Sud Italia e a quelle future, previste nei prossimi mesi.