Polvere. Verbale di un amore

di Rossella PETROSINO

L’1 e il 2 novembre, la rassegna monografica che il Teatro Sala Assoli/Moscato ha dedicato all’opera di Saverio La Ruina ha conosciuto la sua conclusione con Polvere. Una chiusura che, lungi dall’essere una semplice cesura narrativa invece si è rivelata una deposizione concettuale che non concede requie, lasciando lo spettatore in una condizione di irrisolta e necessaria sospensione. Non un semplice finale di rassegna, ma una chiusura che pesa, “che si deposita”.
In scena, due figure si confrontano in un rituale quasi sacro del controllo. Sono prive di un nome proprio, eppure identificate da un unico, ossessivo appellativo: “amore”. Un termine che, nella sua affettuosa genesi, tradisce presto la sua promessa, degradando a puro strumento di controllo, a dispositivo di cancellazione identitaria, fino a configurarsi come vero e proprio atto di proprietà emotiva. Saverio La Ruina e Cecilia Foti sono collocati ad un tavolo, uno di fronte all’altra, in una composizione scenica che evoca la stasi glaciale di un interrogatorio o di un processo senza fine. La luce, scarna, ferma, quasi da stanza d’inchiesta, restringe lo spazio teatrale a una dimensione claustrofobica – una cella, un tavolo per verbali di natura squisitamente emotiva.

La scenografia di Polvere è essenziale e chirurgica, riducendo lo spazio a un desolante, quanto efficace, minimalismo: solo un tavolo, due sedie e un quadro. Questa scelta scenica, inquadrata da perimetri di luce, spoglia l’azione di ogni distrazione, concentrando l’intera attenzione sul dialogo. L’allestimento asciutto amplifica la sensazione di vuoto e claustrofobia, rendendo la dinamica relazionale il vero e unico motore dello spettacolo. Le musiche originali di Gianfranco De Franco sono usate con estrema parsimonia, quasi solo come brevi intermezzi nei cambi scena, contribuendo all’atmosfera opprimente senza mai rubare il primato alle parole. Questa rarefazione sonora sottolinea che l’unica vera “colonna sonora” dello spettacolo è il dialogo serrato e micidiale dei due personaggi.

Lui indaga, lei risponde o tace. I movimenti sono minimi, calibrati: un millimetro di spalla che si ritrae, un sopracciglio che si inarca, una mano che sfiora il tavolo e si ritira. Ripetuti per tutta la durata dello spettacolo – poco più di settantacinque minuti effettivi – creano la sensazione di un confronto che si protrae per ore. Nessuno urla, nessuno sbatte la porta. L’abuso, qui, si manifesta nella sua forma più sottile e micidiale. Per questa ragione,  Polvere trascende la mera narrazione di una storia di violenza di genere; ne mostra il lento accumulo, la progressione invisibile e perciò inesorabile. Ogni parola scambiata, ogni gesto contenuto, sembra spostare un granello di polvere che, alla fine, si sedimenta sulla psiche. La polvere diviene così una metafora complessa: simbolo tanto dell’accumulo silenzioso quanto dell’invisibilità sociale della violenza quotidiana che fiorisce nell’assenza di consapevolezza ed educazione affettiva.

In questo testo, Saverio La Ruina opera una scelta linguistica cruciale: abbandona il dialetto calabrese tipico di lavori precedenti per utilizzare un italiano standard e convenzionale, senza alcuna inflessione regionale. Questa decisione universalizza immediatamente il tema della violenza psicologica, dimostrando che l’abuso non è un fenomeno geograficamente circoscritto. Il ritmo linguistico è costantemente incalzante, serrato e asciutto. Le battute sono semplici ma affilate, contribuendo alla creazione di una tensione crescente che non dà tregua allo spettatore. È attraverso questa progressione dialogica brutale che si manifesta la “polvere” che avvelena la relazione. 

Saverio La Ruina – drammaturgo calabrese la cui opera ha già da tempo varcato i confini nazionali – offre in Polvere uno dei suoi testi più chirurgici. I suoi lavori viaggiano: Dissonorata e Italianesi hanno trovato casa in Francia; Polvere ha attraversato l’Oceano, arrivando in Messico, Venezuela e Stati Uniti; Masculu e fimmina ha calcato le scene in Belgio. Mentre in Italia il dibattito pubblico è ostaggio di iniziative legislative che mirano a sottrarre l’educazione affettiva e sessuale dai programmi scolastici, altrove i testi di La Ruina sono assunti come strumenti per interrogare la natura del potere, delle relazioni e della corporeità. È in questa luce che lo spettacolo rivela la sua straordinaria urgenza contemporanea: l’imperativo di riconoscere le dinamiche malsane, di demarcare i confini del sé e dell’altro, e di comprendere l’assioma di consenso ed empatia. Questo spettacolodiventa una lente su ciò che non viene insegnato, su quello che cresce silenzioso nelle relazioni private mentre la società finge di non vedere. L’identità evapora lentamente in scena. L’unico appellativo è “amore”, una spersonalizzazione programmata che toglie il nome per togliere la possibilità di esistere fuori dallo sguardo dell’altro. La conversazione – a tratti talmente lucida da sfiorare il didascalismo – si configura come un manuale di controllo psicologico: lui corregge, suggerisce, pretende; lei cerca appigli, li perde, resiste in silenzio. Ci sono frasi che sembrano prese da un glossario della violenza emotiva, ma la recitazione le salva, rendendole autentiche. I due attori, infatti, non si limitano a narrare la violenza, ma la mettono in scena: essi disvelano con meticolosa precisione la dinamica insidiosa dell’abuso psicologico, anziché raccontarla. La Ruina non forza mai l’interpretazione del carnefice urlando: lo lascia insinuarsi, vivere, prosperare nello spazio delle pause. Sorprende pensare che, nell’arco di una settimana, l’attore/autore metta in scena tre spettacoli diversi mantenendo una memoria e una precisione quasi ascetiche: un vero tour de force di concentrazione scenica. La Ruina, infatti, cambia registro senza mai perdere il controllo, modulando l’ironico, il minaccioso, il dolce e l’affilato. Accanto a lui, Cecilia Foti regge la tensione con una presenza costante, che non esplode ma resiste: ogni silenzio, ogni sguardo basso è un atto di sopravvivenza. L’attrice lo accompagna con una presenza emotiva densa, capace di modulare fragilità, resistenza e tensione crescente. Il pubblico assiste praticamente a una lezione sul funzionamento dell’abuso emotivo: il testo gioca sul confine tra normalità apparente e controllo totalizzante. Polvere non cerca catarsi facile né sollievo consolatorio. Al contrario, costringe lo spettatore a dimorare senza mediazioni nella sofferenza. In questo, il pubblico merita un plauso per aver saputo resistere all’impulso di intervenire o di interrompere la scena, guardando fino in fondo e assolvendo il suo scomodo ma essenziale ruolo di partecipatore silente; lasciando che il teatro compia il suo lavoro sporco. Al termine dello spettacolo sembra esserci solo polvere. Polvere che non si vede, ma si deposita lenta sulla propria idea di “amore”. In questa rarefazione, il teatro permane come luogo di educazione emotiva in cui imparare a riconoscere tutto questo. Un lavoro essenziale, potente e dolorosamente attuale, che unisce precisione recitativa ed accuratezza drammaturgica. 

POLVERE
SALA ASSOLI/ENZO MOSCATO
1-2 NOVEMBRE 2025
Polvere
drammaturgia e regia Saverio La Ruina
con Saverio La Ruina e Cecilia Foti
musiche originali Gianfranco De Franco
produzione Scena Verticale
con il sostegno di MiC, Regione Calabria, Comune di Castrovillari

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