di Rossella PETROSINO
Lo spettacolo Vita di San Genesio – che ha inaugurato la stagione al Ridotto del Mercadante ed è stato in scena dal 13 al 23 novembre 2025 – è una esperienza teatrale stratificata e di grande risonanza. Il drammaturgo e regista Alessandro Paschitto opera un vero e proprio smantellamento dell’apparato teatrale, per ricostruirlo come un autentico rito d’assalto.
La forza di questo spettacolo risiede in una sorprendente densità scenica e testuale che, sfruttando la figura di San Genesio – “patrono degli attori, dei guitti e dei giullari” – interroga l’ossessione contemporanea per la performance. In un mondo dove la fede è migrata altrove, che come l’energia – si sa – non si crea né si distrugge, Paschitto ne documenta la rarefazione.
L’intero impianto drammaturgico può essere letto come un rito di passaggio (sul modello di Victor Turner), ma è orientato verso una deliberata mancanza di risoluzione. L’esperienza è per questa ragione interamente liminale, costringendo la platea nella posizione di un altare sacrificale per una vocazione disperata dei tre interpreti in scena. Il processo prende avvio già nel foyer del teatro, con l’allestimento di cabine per la confessione. Qui, i tre attori si fanno confessori per gli spettatori penitenti che decidono di sottoporvisi. Questo non è un invito alla communitas, ma un obbligo alla vulnerabilità preliminare. La cabina funge da luogo liminale preparatorio, dove lo spettatore si spoglia del suo status protetto, anticipando la dissoluzione dell’identità richiesta dal rito-spettacolo che seguirà. A definire ulteriormente la natura ambigua di questo spettacolo, prima ancora del suo inizio, è il libretto che lo spettatore trova sulla poltrona, a mimare i messali liturgici. Questo dettaglio scenico, di impatto tanto solenne quanto profondamente ironico, prepara il pubblico ad un rito, stabilendo fin da subito il contrasto tra la sacralità della forma e la profanità dei contenuti, scaturito dalla crisi contemporanea.
La fase centrale (lo spettacolo vero e proprio) sembra catapultare gli spettatori in un limbo. I ruoli ordinari di attore e di spettatore sono sospesi, la scena è invasa da simboli di culto, oggi considerati negativi, addirittura tossici: la velocità, la fama, lo sport. Gli attori, in uniformi satinato-sportive (le tre stampe, allineate sulle magliette degli attori, compongono il simbolo D10S), sono figure sospese, betwixt and between: né attori, né sacerdoti, ma neofiti esposti, uniti in una communitas parodica dal comune fallimento. È in questa sospensione che intonano il primo canto, il coro partenopeo “Sarò con te”, costretto nella forma del canto gregoriano. L’intensità dell’opera orchestra il contrasto stridente tra la solennità delle forme, mutuate dalla liturgia (Eucarestia, Funerale, Matrimonio) e l’urgenza caotica del contenuto. Il testo infatti è un flusso di coscienza concitato, l’urlo di un’anima che ha scambiato l’impegno per la fede. L’ossessione e il terrore di aver fatto «tutto a vuoto» e il pensiero che «i soldi sono diventati velocissimi» non si inseriscono in un dramma borghese, quanto piuttosto in una confessione collettiva che sembra riflettere e fondare l’angoscia della generazione ossessionata dal risultato. La preghiera culmina nel pianto dell’attrice Raimonda Maraviglia, efficace interprete della disperazione: «io sono talmente ridicola e disperata… per favore, salvami».
La collisione tra liturgia e cultura di massa governa la scena. La scenografia impone un simbolismo brutale. L’altare è una gabbia riflettente; la croce è un assemblaggio di cerchi di neon freddi; l’ostia è pane da supermercato e il vino è in brick: la conferma che il sacro è stato sostituito da simboli di culto che generano tossicità psicologica e comportamentale, eseguiti con una precisione chirurgica che Paschitto usa per esaltare il vuoto. Nonostante questa sostituzione, la ritualità non si estingue. Il bisogno di rielaborare le crisi è perenne e si è solo riposizionato, rivelando l’esigenza dell’uomo di dare forma al caos. L’anelito incontra una nuova, sbalorditiva, distanza nelle scene dei laser e dei visori. Sono l’ossimoro perfetto: la disperazione nella ricerca di un dialogo con Dio finisce imprigionata da una tecnologia fredda e impersonale. Il disegno luci, curato da Carmine Pierri, è fondamentale nel definire questa dimensione algida. L’urgenza spirituale viene neutralizzata dalla forma e gli attori si allontanano dal pubblico, come da Dio, diventando irraggiungibili in questo momento scenico, accompagnati dall’efficace brano musicale di Gianluigi Montagnaro.
Il rito crolla nel momento in cui esige una verità insopportabile. Il punto di rottura, e l’elemento più incisivo, è la violenza rituale imposta al pubblico nella scena del funerale interattivo. Uno dei tre attori estrae un membro della platea per celebrarne il “funerale”, costringendolo a reggere il lumino e a confrontarsi con interrogativi definitivi: «C’è qualcosa che avresti voluto fare e non hai fatto?». L’uomo, refrattario all’interattività imposta – o semplicemente perché lo spettacolo non è stato di suo gradimento – lascia la sala subito dopo la scena che lo ha coinvolto. Questo gesto può essere letto come la risposta più onesta al rito contemporaneo: il rifiuto di sacrificare l’ultima risorsa rimasta, ovvero l’integrità della propria finzione e del proprio anonimato. La resistenza all’incorporazione rituale (o forse non si era confessato?).
Ottima la prova attoriale dei tre interpreti in scena – Mattia Lauro, Raimonda Maraviglia e Francesco Roccasecca – che hanno recitato con un trasporto autentico e si sono mostrati all’altezza di una buona prova vocale nell’intonare i diversi canti gregoriani pop (da Dragon Ball, Sailor Moon e Supercalifragili). Le altre musiche dello spettacolo sono a cura di Renato Grieco.
Tornando a Victor Turner, bisogna sottolineare che in Vita di San Genesio non vi è ri-aggregazione. Il lavoro di Paschitto dimostra che la terza fase del rito di passaggio è negata all’uomo contemporaneo. Non offre la consolazione del rito compiuto. La sua estetica iper-moderna non salva, ma ci espone con esattezza chirurgica al nostro fallimento. Allora, la sacralità di questo spettacolo non risiede più nel raccontare una storia, ma nel celebrare, con lucidità spietata, l’assenza di un epilogo felice. Il rito fallisce, la trasformazione e il ritorno a un nuovo ordine sono negati, lasciando lo spettatore nella perenne condizione liminale: una condizione che si delinea come l’unica, autentica e disperata, dell’uomo contemporaneo.
Per chi non fosse in cerca di risposte, lo spettacolo è in programma al Teatro San Ferdinando il 1 dicembre 2025.
VITA DI SAN GENESIO
testo e regia Alessandro Paschitto
con Mattia Lauro, Raimonda Maraviglia, Francesco Roccasecca
scene Sara Palmieri
costumi Rosario Martone
musiche Renato Grieco
vocal coach Valentina De Giovanni
disegno luci Carmine Pierri
direttrice di scena Flavia Francioso
datrice luci Desideria Angeloni
fonico Guido Marziale
macchinista Marco Di Napoli
foto di scena Ivan Nocera
un progetto Ctrl+Alt+Canc
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
con il sostegno di Teatro del Carro / Residenza MigraMenti, Carrozzerie n.o.t – residenza produttiva, Toscana Terra Accogliente 2024 – Residenze Kanterstrasse, Pilar Ternera, Officine Papage, Teatrino dei Fondi
in memoria di Manuel Severino