di Annamaria FERRENTINO
Le luci di sala si sono spente e si sono accese quelle della scena. Viene illuminata allora una carta da parati ingiallita e scrostata dal muro. Sul palco c’era una scatola nera enorme e rettangolare: una casa, in cui erano inseriti, anzi rinchiusi, i personaggi dello spettacolo. Questa casa portava, evidenti, i segni del tempo. Oltre la carta da parati, tutto era sbiadito, usurato: il fornetto sulla destra; la vasca e le piastrelle sporche sulla sinistra; il termosifone impolverato e la porta in legno sul fondo; le due finestre alte ai lati. Tutto suggeriva che c’era stato un tempo in cui ogni cosa era nuova di zecca.
Eppure, la prima didascalia originale di Finale di partita riporta: “Interno senza mobili”. Nessuna casa e nessuna carta da parati. Il taglio registico di Gabriele Russo risiede anche nel dare una connotazione a quell’interno e nell’arredarlo, grazie alla preziosa scenografia a cura di Roberto Crea. Con questo gesto, infatti, Russo scavalca il simbolismo del testo originale per donare alla scena la materialità realistica della dimensione temporale. Nelle interpretazioni che negli anni sono state presentate rispetto a questo interno senza mobili, si è pensato, infatti, ad un bunker o ad una rappresentazione di uno spazio mentale. Il tempo resta quello di un post. C’è la desolazione di chi è sopravvissuto ad una catastrofe. Fuori, oltre le due finestre, non ci sono segni di vita e quando ci sono- una pulce, un bambino, un topo- sono destinati anch’essi ad una fine ineluttabile, ma che tarda ad arrivare.
Nel testo di Beckett, per i protagonisti non c’è alcuna possibilità di riscatto o di azione. Hamm, vecchio e cieco vive il finale della sua partita immobilizzato su una sedia a rotelle, Clov, suo servitore/figlio adottivo gli ruota attorno, rispondendo ai suoi ordini. Se il primo è condannato all’immobilità, Clov, invece, claudicante, non può sedersi. A loro si uniscono i genitori di Hamm, Nagg e Nell, immobili dal canto loro perché inseriti in due bidoni dell’immondizia, che nella versione domestica di Russo sono trasformati in una vasca.
È questo uno dei testi più incisivi del drammaturgo. La disillusione per l’insensatezza della realtà e per il linguaggio, cavo e inutile, è totale. Le forme svuotate di un dialogo impossibile e di un reale scandito dai medicinali sono tematizzate ed esibite. Tutto diventa funzione, anche l’interlocutore. Hamm lo dice esplicitamente, quando Clov gli chiede del proprio ruolo (CLOV: “A cosa servo?” HAMM: “A darmi la battuta”). L’esibizione delle funzioni del linguaggio si declina anche in una dimensione metateatrale, come quando Hamm sottolinea che una battuta non è rivolta a lui: “Un «a parte»! Idiota! È la prima volta che senti un «a parte»?”.
Nella drammaturgia di Beckett ogni elemento è la negazione di sé stesso: lo spazio è un non-luogo, il tempo è definito solo in relazione ad una catastrofe avvenuta prima e a quello che certamente non avverrà dopo, la parola quando rompe il silenzio è inutile e l’unica azione possibile è l’attesa.
I personaggi, che nel testo beckettiano non fatichiamo a inquadrare come il segno di un’umanità relitta alle prese col proprio finale, nella regia di Russo, diventano membri di un nucleo famigliare. Sono posizionati come in una linea del tempo, da sinistra a destra: prima i genitori (Alessio Piazza e Anna Rita Vitolo) in una vasca, poi al centro Hamm (Michele Di Mauro) su una sedia a rotelle e a destra Clov (Giuseppe Sartori), il quale si muove poi, claudicante, per rispondere agli ordini del padrone/padre. Anche i costumi di Enzo Pirozzi vanno nella direzione della concretezza, tutto porta il segno del tempo (chissà da quanto questa partita sta finendo): la seta della madre, il maglione ingiallito del padre, la salopette di Clov, la tuta di Hamm. Nella scatola asfissiante e consolatoria che è la casa, l’esterno si manifesta, come possibile via di fuga, con una porta al centro, sul fondo, e, come irruzione, con la luce di due finestre alte, aperte e chiuse all’occorrenza da Clov. Quella porta centrale ci appare fin dall’inizio come la soluzione, a portata di mano. Eppure, le vie di fuga bisogna saperle usare. Quando Clov tenta per la prima volta di fuggire, resta lì, fuori dalla porta chiusa: ne vediamo l’ombra.
Il gruppo di attori ha colto la sfida lanciata dal regista con maestria. Michele Di Mauro e Giuseppe Sartori sono entrati in grande sintonia, giocando con il ritmo non facile di questo testo: da un lato la voce rauca e indistinta di Di Mauro, dall’altro il piglio, la reattività e una grande gestione del corpo di Sartori, il quale mette in scena in maniera efficace la frustrazione di avere una porta a disposizione e di non saperla usare. E i momenti di ironia non sono mancati. Nel dialogo talvolta fitto, talvolta più allargato, si inseriscono, meravigliosi, Alessio Piazza e Anna Rita Vitolo. Genitori giovani, eterei nella loro vasca da bagno, metaforicamente in “ammollo”, pronti ad intervenire. Tra movimenti lenti e risate pungenti, i due attori offrono un tocco di tenerezza a questo spazio. E se da Clov ci aspettiamo la fuga, o il coraggio della fuga, dal passato- dai genitori- non sappiamo cosa aspettarci. Ci chiediamo, ogni tanto, cosa faranno dietro a quella tenda da doccia. Forse proprio per loro non può che esserci una fine, ma che vorremmo fosse senza accuse, più amorevole e senza rabbia, con la consapevolezza che se di certo non siamo responsabili del nostro inizio, e tutto sommato neanche del finale, lo siamo per lo meno della nostra personale partita.
Quando nel 1957 il testo è andato in scena per la prima volta al Royal Court Theatre di Londra, nell’euforia e nella disperazione del dopoguerra, Beckett ha messo in scena la condizione dell’umanità dopo la devastazione. Se l’impatto storico e artistico è stato indubbiamente sovversivo, ora è pur vero che questa pista aperta dal drammaturgo è stata poi ampiamente esplorata e condivisa nel corso degli anni. Pensiamo ad alcuni esempi del teatro meridionale, come Enzo Moscato, Manlio Santanelli o Franco Scaldati, che fanno propria la lezione beckettiana. Le sue parole, così, da avanguardistiche sembrano aver fatto il giro completo fino a diventare già dette.
Dunque, dopo la visione di Finale di partita di Gabriele Russo ci poniamo, forse, delle domande. Perché mettere in scena questo testo oggi? E cosa resta del teatro di Beckett se gli si affibbia un’ambientazione o, addirittura, un significato?
Ricordiamoci, però, che i protagonisti sciolgono senza esitazioni il dubbio lecito.
HAMM Non può darsi che noi… che noi…si abbia un qualche significato?
CLOV Un significato! Noi un significato! (Breve risata). Ah, questa è buona!
Foto : Flavia Tartaglia
Teatro Bellini, Napoli
Sabato 29 novembre 2025
FINALE DI PARTITA
di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero
regia Gabriele Russo
con Michele Di Mauro, Giuseppe Sartori, Alessio Piazza, Anna Rita Vitolo
scene Roberto Crea
costumiEnzo Pirozzi
disegno luci Roberto Crea e Giuseppe Di Lorenzo
musiche e progetto sonoroAntonio Della Ragione
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo