PRIMAVERA DEI TEATRI: 25 ANNI DI TEATRO ITALIANO AL SUD
LA VERMA: la Sicilia ancestrale, la drammaturgia meridionale contemporanea e il modello teatrale europeo
a cura di Emanuela FERRAUTO
Il confronto con l’autore e con il drammaturgo, dopo la prima di uno spettacolo, mentre si presenta il volume in cui è contenuto il testo della messa in scena, è un momento fondamentale all’interno di un percorso di studio e di analisi di un prodotto scenico e testuale. Il connubio perfetto si è creato il 30 e il 31 maggio, durante gli eventi del festival Primavera dei Teatri. Rino Marino ha presentato il secondo volume della sua Tetralogia del dissenno, edito da Editoria & Spettacolo nel 2024, a cura di Vincenza Di Vita e con la prefazione di Filippa Ilardo, quest’ultima presente a Castrovillari. Il testo La Verma è l’unico, all’interno del secondo volume, riportato in lingua siciliana e il relativo spettacolo è stato presentato durante questo festival il 30 maggio, in prima nazionale, presso il Teatro Sybaris, situato all’interno del suggestivo Protoconvento. L’allestimento scenico è “presepiale”: i colori, i chiaroscuri e una forte sfumatura seppia, sembrano collocare i personaggi all’interno di un mondo di sughero, di legno, di polvere. Poi, queste statuine di uno pseudo presepe si animano: sulla scena la madre, il figlio, l’altro figlio, quest’ultimo chiuso in una cassa di legno, oscurato all’interno di una cassapanca-bara, in fin di vita, dolorante e morente, presente in scena solo per i suoi lamenti che scandiscono il ritmo di tutta la recitazione. Il testo in scena diventa partitura, costruito su un ritmo cadenzato di antica memoria attraverso un movimento in cui battute sintetiche si alternano in un botta e risposta tra i personaggi, per poi rallentare, aprendosi a nenie, canti, preghiere antiche e orazioni. In particolare, emerge una vera e propria “orazione per i vermi”, che si ripete incessante, a più riprese, in diversi momenti dello spettacolo e che apre il testo e l’intera messinscena, invocando Santa Rosalia, la Madonna e Gesù, affinché possano togliere i vermi ai bambini. Orazione e preghiera antica, simbolo di povertà e di semplicità, all’interno di quella tradizione letteraria verista e meridionale, ricordando anche il riferimento al Teatro dell’Assurdo, a Beckett, ad Artaud, ad autori europei di altra formazione. In realtà in questo spettacolo, e nella drammaturgia di Rino Marino, confluisce un inconsapevole bagaglio culturale che l’autore, come ha ribadito durante l’incontro svoltosi a Castrovillari, rifiuta, o meglio, non identifica in categorie o in forme specifiche di derivazione. I due personaggi, la madre che rappresenta la Verma, e il figlio, definito Duedicoppe, secondo un’accezione denigratoria della cultura siciliana, in realtà riportano questi soprannomi solo nella scrittura, poiché mai vengono citati durante la messinscena e, certamente, riconducono a quella identificazione comunitaria di cui parlava Verga, i cui personaggi, dalla Lupa a Rosso Malpelo, e tanti altri, assumevano il nome imposto dagli altri per caratteristiche specifiche, cioè un soprannome o cosiddetta “ingiuria”. E in effetti appaiono come “vinti” e tali rimangono, questi personaggi creati da Rino Marino, sotterrati rispetto alla società e al mondo in superficie: sono collocati, infatti, in una sorta di stamberga, di cantina, di ipogeo – e da qui il ricordo ci conduce ai mondi sotterranei di Enzo Moscato – in cui convivono con la polvere, con la povertà, con l’oscurità, con i pidocchi e con i vermi. Il testo, fortemente poetico in verità, si presenta come un’ossessiva ripetizione di azioni che forse, in scena, richiederebbe una maggiore sintesi in alcuni momenti, per rendere più fruibile l’intreccio. La poesia emerge attraverso una patina grottesca e amara che colloca questi personaggi in un mondo atavico, senza tempo, ancestrale, ingrottato nell’oscurità di un sotterraneo. Il figlio, ormai uomo, non sembra cresciuto, ma presenta atteggiamenti bambineschi che lo rendono simpatico al pubblico, provoca la risata, suscita commiserazione e commozione, gira intorno a dei concetti banali, come il contare i pidocchi che la mamma gli ha tolto o cercare nella bocca i denti che non trova più e che continua a perdere, presagio di morte, secondo la cultura meridionale e soprattutto siciliana. Mentre madre e figlio litigano, il fratello nella cassa bussa e si lamenta, ma non appare. Il suo mostrarsi al pubblico sarà lentissimo, una vera e propria epifania, e la cassa verrò scoperchiata da lì emergerà un uomo anziano, interpretato da Liborio Maggio, emaciato, coperto solo da un panno bianco, affannato nel respiro, immagine della vita che combatte con la morte. Un Marat morente, una deposizione cristiana, un’immagine da Sacra Sindone: il fratello maggiore sembra un padre e questo confonde il pubblico, così come la morte sembra già avvenuta, ma il personaggio emerge ancora vivo da quella cassa. Questa casa sembra una catacomba dei miseri e ci si rende conto che la madre, il fratello maggiore, il padre, quest’ultimo assente come in tutte le famiglie della drammaturgia siciliana e meridionale, forse sono già morti. C’è anche un bambino, un passeggino vuoto con un’anima di stracci che la madre, ormai anziana, culla e “annaca”, ossia muove con movimenti lenti e cadenzati. Duedicoppe vuole uscire, vuole vivere e sulla scena sono presenti una scala in legno e una botola che si stagliano sul fondo nero. La scala assume il ruolo di fondamentale oggetto-personaggio e rimane lì, fissa, incombente sul palcoscenico, mentre la botola socchiusa ci osserva, entrambe bellissimi oggetti di scena. La processione del Venerdì Santo passa sulla strada, in superficie, e il figlio vuole vederla, vuole partecipare, vuole respirare l’aria, vuole fuggire. Ci prova, sale, raggiunge metà della scala, ritorna giù, la madre lo insulta, lo denigra, lo spinge a staccarsi da lei, a vivere, ma è la Verma, colei che ti mangia l’anima, la speranza, ti divora. Molteplici le immagini pittoriche, come la lunghissima scena in cui la madre toglie i pidocchi al figlio, riunendosi a lui in un intreccio di corpi che ricorda la struttura della Pietà di Michelangelo, mentre scorrono le musiche dei Fratelli Mancuso. Importanti i riferimenti alla tradizione delle banniate, dei canti e delle preghiere popolari, oltre alla veloce citazione di un personaggio specifico del presepe siciliano, “’U scantatu da stidda”, il pastore sorpreso o spaventato, colui che per primo avvistò la stella cometa e rimase sorpreso. Il figlio mai cresciuto e con evidenti problemi cognitivi è “scantatu” dalla vita, ma è anche sempre sorpreso, stordito, tanto da rimanere a bocca aperta, non comprende. La drammaturgia di Rino Marino è complessa, attinge da fonti disparate e presenta una certa poetica personale che la rende fortemente caratterizzata, è una scrittura riflessiva e immaginifica, avanza lentamente, per questo necessita di varianti diverse, una letteraria e una scenica. Gli attori straordinari sono Fabio Lo Meo, che interpreta il figlio Duedicoppe, artista che ha lavorato a lungo con Franco Scaldati, e Miriam Palma, la madre, la Verma, magnetica, inquietante, arcigna, che ha sostituito, con lavoro intenso e velocissimo, la compianta Serena Barone, riportando in scena la sua importante formazione vocale, musicale e attoriale.
foto @maggioangelo | @teatrogram.it
PRIMAVERA DEI TEATRI
CASTROVILLARI (CS)
30 maggio 2025
Teatro Sybaris
LA VERMA
Drammaturgia e regia di: Rino Marino
Drammaturgia musicale dei: Fratelli Mancuso
Con: Miriam Palma, Fabio Lo Meo, Liborio Maggio
Scene e costumi: Rino Marino
Disegno luci: Michele Forni
Musiche originali composte ed eseguite dai Fratelli Mancuso
Assistente alla regia: Sonia Giambalvo
Produzione: Sukakaifa – Compagnia dell’arpa