a cura di Gabriella NOTO
“Penso ancora che la vera rivoluzione sia rendere il mondo un posto sicuro per la poesia, la fantasia, tutto quello che è raro e vulnerabile, fragile e oscuro, poco pratico, piccolo e circoscritto” (Rebecca Solnit)
Mentre mi accingo a comporre queste righe, circola su un quotidiano locale la seguente notizia: “Si apre voragine in una famosa via dello shopping”. Trattasi di un pertugio di ben tre metri di diametro, nel quale è sprofondato per una buona metà un camion della nettezza urbana. Interrotta la fornitura idrica su una vasta porzione del quartiere, la buca è stata fatta poi oggetto di visite e osservazioni da parte di sfaccendati, curiosi a passeggio e scolaretti.
La coincidenza mi fa sorridere, perché il lavoro che desidero commentare, andato in scena al Teatro Serra di Napoli dal 21 al 23 marzo, prende spunto dal fiorire dei dissesti nel suolo di Napoli: crepe, buchetti e voragini che si aprono con allarmante (ma evidentemente non troppo) frequenza in ogni parte della città.
Così, in corso San Giovanni a Teduccio, mentre corre alla lezione della scuola serale (è in ritardo!) Alice, evidentemente l’ennesima vittima delle incurie alla manutenzione delle fognature e delle strade di Napoli, inciampa in una buca che addirittura la inghiotte.
Alice è una giovane donna di un quartiere popolare, che ha conseguito la terza media, e la vita le ha concesso di affacciarsi sempre e solo sulla stessa grande piazza grigia e desolata. Affronta l’esistenza facendo spallucce e osserva il mondo: ci sarà un po’ di spazio per i suoi sogni? Come potrà lei, vulnerabile e oscura, raccontare la propria storia?
Dalla nera onda della fogna, Alice alza finalmente la sua voce e inventa il suo cunto post-atomico.
Il suo sottomondo è poco poetico: una gigantesca chiavica. Dopo un primo orrido momento di spaesamento, anche lei, come la sua “predecessora” di vittoriana memoria, viene soccorsa dagli abitanti del sottosuolo, invitata a mangiare e bere cibo e bevande del mondo sottosopra. Chiamata con nomi che non le appartengono. Rivestita di panni non suoi.
Il gioco del reverendo Charles Lutwige Dogson, quello di ribaltare parole, comportamenti, idee, cose materiali e presenti nella vita reale, conserva intatto tutto il suo fascino nel testo vivo di Angela Dionisia Severino ed è anzi potenziato dall’uso della lingua napoletana, matrice infinita di ogni senso ambiguo e multiforme.
Nel suo Il mondo di Alice, commentando le tre opere del capovolgimento di Dogson –Alice nel paese delle meraviglie, il suo antecedente immediato Alice nel sottosuolo ed il loro seguito Attraverso lo specchio-, Masolino D’Amico dirà: «Il trionfo del non-senso per non dire del malizioso sabotaggio di entità fondamentali per la stabilità del sistema, come il linguaggio, come le scienze esatte. Lì regnano il disordine, la violenza, il capriccio»(1). E ancora, soffermandosi proprio sul primo volume in cui compare Alice: «Un libro di travolgente anarchia, dove l’autorità è mostrata come capricciosa, dispotica e intollerante, dove le istituzioni sono incomprensibili e ingiuste, dove la divinità non è nominata neppure, in cui gli insegnamenti che vengono tradizionalmente impartiti ai fanciulli sono costantemente messi in ridicolo mediante una brillante tecnica di parodia»(2).
Facendo tesoro di questi caratteri centrali, l’avventura/sogno di questa nuova Alice, nell’impatto con il sottosuolo di Napoli, con una protagonista popolana e un po’ scalognata, viene tramutato brillantemente in un cunto riuscitissimo. Il linguaggio favolistico sopravvive all’ambientazione cyber punk, allo sporco e al terrore del pozzo maleodorante in cui Alice precipita, e assume il ruolo di strumento con il quale denudare una società che pretende di prosperare ghettizzando i diversi, prevaricando i deboli, a qualsiasi specie appartengano, mercificando corpi e spazi. E se la realtà del mondo di “lassù” inesorabilmente reprime e strizza sogni e speranze, questi, lungi dal morire, marciscono in un immenso inconscio/fognatura che infine esplode e collassa su sé stesso in immense voragini. Alice cade, corre, scappa, viene incoronata regina e portata in processione come una novella Vergine. Chiama la mamma senza aver mai risposta, vorrebbe forse un’umana presenza a dimostrarle che ciò che vive è reale, è sola ma non è mai abbandonata, soccorsa piuttosto, curata, condotta in modo bislacco e favolistico a toccare la verità, da un popolo di reietti che non ha dimenticato però né le leggi della compassione, né la speranza di una vita diversa, di una vita “lassù”.
Infine, la protagonista abita la voragine, la attraversa, la scuote con una presenza tellurica e vibrante, tanto da farla saltare e torna infine a rivedere il cielo stellato, o forse solo l’asfalto corrotto del corso San Giovanni.
Lauraluna Fanina – che è anche splendida tagliente voce narrante – tesse per il cunto di Alice una regia che rende il monologo performance fisica e attoriale e insieme racconto collettivo, popolato di comprimari immaginari e di oggetti vivi e un po’ buffi, accompagnato da una suggestiva drammaturgia sonora, costruita con cura attorno ad ogni movimento, spontanea, brutale ed insieme preziosamente malinconica.
Sulla scena Alice, impersonata dalla stessa autrice, Angela Dionisia Severino, si impossessa dello spazio con un corpo fremente di vivacità nervosa, in un movimento scenico che rende il senso del vorticoso proseguire degli eventi in un continuo cadere, tramutarsi, sollevarsi, sognare. È il corpo di Alice il sisma che fa cedere la volta, che provoca altissime onde di acqua nere, che però invece di insozzare, lavano via le ipocrisie, i torpori della mente, espongono ogni tabù.
Eppure questa visitatrice delle fogne, figlia delle periferie di cui conosce il grigiore e l’esclusione, sa anche che il cambiamento non è riservato a lei. Abituata alla vita complicata che le è toccata, non crede neanche per un istante di essere davvero una regina o l’apparizione di una profetica vergine, nonostante gli onori, le processioni e le incoronazioni che le tributa il festante e scalcinato popolo delle fogne
Un po’ bambina, un po’ vagabonda alla Mad Max, conserva una sua dignità indistruttibile, una forza lucida e giocosa che le permette di affrontare con spirito e ironia la curiosa avventura che le capita. Questa forza le consente di dare finalmente voce alla SUA VOLTA, trasporta gli spettatori in un incantamento di rovesciamento continuo, dove l’alto e il basso, lo sporco e il pulito, i giusti ed i reietti, vengono rimescolati continuamente insieme. Da questa confusione, dalla luce che inquadra finalmente il rimosso, dalla voce che urla e canta di tutti i proibiti mai nominati, la realtà sembra acquisire un senso nuovo e più vero.
Il salto di Alice, ed il suo sogno, sono il sogno di tutti gli esclusi, di tutti i mancanti, di tutti i reietti. Lo spettatore resta conquistato dal prodigio di questa narrazione, seducente per ritmo ed umorismo ed insieme potentemente malinconica.
Non si può non pensare che Alice rappresenti anche i lavoratori dell’arte e dello spettacolo, costretti a provare, a studiare, a fare ricerca in ogni piccolo spazio disponibile, a vivere di spallucce e di ironia, nel sacrificio e nell’entusiasmo delle autoproduzioni, in attesa che la volta della fogna crolli, mandata in frantumi dal talento e dai desideri, e che si possa infine respirare sotto le stelle.
“Alice nelle fogne delle Meraviglie – Una fiaba intersezionale”
Teatro Serra- Napoli 21-23 marzo 2025
di e con Angela Dionisia Severino.
Regia, Lauraluna Fanina.
Assistente alla regia: Simona Batticore.
Drammaturgia musicale: Teresa Di Monaco.
Costumi: Dario Biancullo.
Disegno luci: Sebastiano Cautiero.
Voci registrate: Lauraluna Fanina.
Distribuzione: Chiara Cucca.
Organizzazione: Valentina Castronuovo.
Foto e video: G. Di Blasio, M. di Tota, L. Pirani.
Grafica: Martina di Gennaro.
Una produzione Telluriche in collaborazione con L’Asilo di Napoli.
- 1) Carroll, Lewis. Il mondo di Alice, Traduzione di Tommaso Giglio e Masolino D’Amico, a cura di Masolino D’amico, Rizzoli, 2006, p. XII.
- 2)Ibidem.