Gogol’ e Belli. Vite parallele

di Caterina DE CAPRIO

G. Agamben, Gogol’ e Belli vite parallele, Libreria Dante & Descartes, Napoli, 2024

E’ noto che alla fortuna di Giuseppe Gioacchino Belli all’estero molto abbia contribuito  Gogol  ricordando i suoi incontri con il poeta romano fino ad allora sconosciuto. Ne parlava dapprima, in una lettera, alla amica russa Marija Petrovna Balàbina  (1838) poi al  critico francese Sainte-Beuve (1839) che ne recensirà le Nouvelles russes (1845) e che, in quell’occasione, rammenterà l’entusiastica ammirazione per i sonetti romaneschi, uditi da Gogol, dalla viva voce del loro autore. Questa reciproca conoscenza, avvenuta sotto i fulgidi cieli di Roma sembra agli occhi di Agamben  più che un evento occasionale una necessità del destino. Le consonanze caratteriali dei due artisti, in sintonia perché psicologicamente instabili tra malinconia e gioioso vitalismo; le analogie delle scelte, oscillanti tra norma e trasgressione, inducono a pensare a “vite parallele” sì da ipotizzare che fatalmente essi “dovessero” incontrarsi. Non a caso Agamben ricorda ancora come entrambi, in circostanze diverse, convinti della inadeguatezza dei risultati artistici raggiunti, avessero pensato che i propri scritti meritassero di essere bruciati… 

L’uno effettivamente destinerà alle fiamme alcuni manoscritti della seconda parte delle Anime morte, l’altro, poco prima di morire lascerà ad altri lo stesso compito che non verrà eseguito. Sappiamo però che i sensi di colpa per aver ritratto la plebe trasteverina “non casta, non pia, sebbene devota e superstiziosa” con “sconcia favella” lo avevano tormentato per tutta una vita, mal conciliandosi la Musa romanesca con il suo ruolo di poeta in lingua, inattaccabile dalla censura dello Stato Pontificio. Del resto sarà proprio la sua fisionomia di homo duplex a render agevole l’accostamento allo scrittore straniero, persuaso di trovare a Roma un lembo felice di Sud. L’ucraino vi giunge nel 1837 e vi rimane fino al 1841, tornandovi poi varie volte. Influenzato dalla bellezza della città e dalla spontaneità della sua gente, qui sembra recidere i fili che lo legano alla patria e al tempo stesso sperimentare un nuovo modo di vedere e raccontare, da lontano, il suo paese.  La vitalità e l’allegria della plebe romana sono per lui il segno di un popolo non spento dall’organizzazione sociale del rigido sistema zarista, tanto più che lui stesso, a Roma, non si sente più “un funzionario di ottava classe”, frustrato dalla propria insignificanza sociale, ma uno spirito libero pronto a irridere le gerarchie burocratiche che, in Russia, consentono comunque intrallazzi e manipolazioni. Da questa ritrovata felicità, proprio a Roma, scrive la prima parte delle Anime morte, dedicate alle vicende di Cicikov, un farabutto pronto a utilizzare a suo vantaggio l’ambiguità delle norme che regolano la proprietà terriera. Ne racconta infatti i progetti di arricchimento e lo rappresenta in continui spostamenti pur di comprare dai legittimi proprietari quante più possibili anime morte, per poter richiedere, sulla base del numero di servi della gleba, figuranti vivi solo sulla carta, una cospicua assegnazione di terre. Le astuzie dello squallido personaggio, in azione per campagne desolate, consentono di focalizzare un mondo infimo e gretto ove le pulsioni individuali prendono il sopravvento  e  lasciano emergere il lato oscuro degli individui messi in scena: servi e padroni… La trasfigurazione ironica caratterizza  il tono della scrittura e ne crea la modernità, ed  in questa capacità di mettere in luce trame e appetiti nascosti dalla comune ipocrisia, la maniera di Gogol non è distante da quella del romanesco Belli. Non a caso Agamben trova opportune le osservazioni di un suo importante studioso (Giorgio Vigolo) che metteva in relazione l’ossimoro adottato come titolo per le “avventure di Cicikov” con un sonetto belliano del 1834 Er Battesimo der fijo maschio. Qui una nobildonna romana, per salvare la personale rispettabilità, faceva figurare morto il figlio illegittimo motivando gli irritati versi finali:  “ il llibbro de bbattesimi in sto stato/Se poteria chiamà llibro de morti”…  Non è che un esempio dei paradossali ribaltamenti morte/vita consentiti alle strategie del comico perseguite dall’uno e dall’altro scrittore nel denunciare le diaboliche astuzie di cui la natura umana è capace, indipendentemente da nazionalità o cultura. Per misurarne la capacità di coinvolgimento emotivo, il discorso critico di Agamben finirà per analizzare il linguaggio scelto per rappresentare un mondo sdoppiato tra bene e male nei cui confronti non sembra possibile né a Gogol, né a Belli alcuna conciliazione. Rapidi sono gli accenni di Agamben alla lingua di Gogol la cui complessità continua a stupire per la frequenza dei passaggi dal tono serio al faceto, per i calembours, ispirati spesso dai cognomi dei personaggi, per le descrizioni dettagliate e le digressioni che dal comico passano al grottesco e in alcuni casi preludono all’immissione del fantastico. Ma se Ejchenbaum (1918) riconosceva all’autore del Cappotto di saper ricorrere a tutti i mezzi per dar libero corso al “ giuoco della realtà”, Agamben insiste su quel suo “falso realismo”, simile ad un “raggiro” in cui individua la cifra trasgressiva di una prosa che stravolge le convenzioni della lingua e dello stile e sa farsi straniera a se stessa, per diventare misura della verità. Ancora una volta sembrano annullarsi le distanze tra la discesa agli inferi dell’ucraino e quella dell’autore d’irriverenti sonetti. Con la corrotta parlata “romanesca” egli ha escluso ogni voce colta o letteraria e può trovare in una lingua diversa dal dialetto (e inaccettabile per la sua natura di “storpiatura”) la maniera più diretta per penetrare nel mondo popolare, condizionato da ingiustizie o soprusi di cui è da sempre testimone. Affidandosi a una “non lingua”, destinata alla clandestinità, Belli profittava della sua duttilità e del suo magmatico dinamismo per calarsi nell’inferno plebeo e registrare le frasi del popolano così come gli escono dalla bocca, componendo  infine i suoi versi grazie all’“accozzamento in apparenza casuale di libere frasi e parole non corrette”. Eppure, nonostante la consapevolezza dell’originalità e del realismo raggiunti, egli doveva spesso sentirsi in colpevole sintonia con certi atteggiamenti dei suoi trasteverini. Un’utile spia di tali ambigui sentimenti può essere per noi un sonetto del 1834 Un ber gusto romano nel quale descrive il vandalismo dei ragazzi di strada che, con graffiti, amano sporcare muri e monumenti (“Llà nnummeri e ggiucate d’astrazzione,/O pparolacce, o ffiche uperte e ccazzi”). E’ il loro un gratuito divertimento criticato dall’autore che però, nel finale, confesserà: “Quelle so bbell’età, pper dio de leggno!/ Sibbè cc’adesso puro me la godo/ E ssi cc’è mmuro bbianco io je lo sfreggno”. Esplicitamente ci fornisce una chiave per intendere non solo il gusto della trasgressione a livello popolare, ma anche a livello personale. Infatti nella allusione allo “sfreggno” vediamo una sorta di straniata ammissione riguardante  il suo lavoro d’inchiostro sulla pagina bianca. Ci pare una confessione autobiografica interessante, perché, nell’ammettere che il suo scrivere coincide con una violazione, con uno strappo alle regole riconosce di abbandonarsi al piacere di compierlo. Di fatto la scelta del “romanesco” lo colloca e fuori dalla pretenziosità accademica e fuori dalla maniera dialettale. Sarà proprio grazie a questa “lingua franca” che i sonetti vinceranno la sfida del tempo, assicurando al Belli l’autorevolezza della sua testimonianza. E così anche per lui, come per Gogol, dovremo constatare che, al di là dei rischi,  è ben   riuscito  il  suo “raggiro” al vuoto  e al conformismo  della letteratura.

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