Ah, i bei tempi del Teatro all’Antica Italiana, quando le compagnie annoveravano oltre al primo attore e la prima donna, l’antagonista e un numero imprecisato di tipi, di caratteri come l’amoroso, la servetta, il padre nobile, uno o più generici a seconda delle facoltà economiche dell’amministratore. Era l’epoca in cui le compagnie si formavano in luoghi ben precisi, come a Napoli la Galleria Vittorio Emanuele. Ed era anche il lento e progressivo tramonto di tante convenzioni teatrali, che vigevano ancora a ridosso dell’ultimo dopoguerra, come ad esempio il dovere dell’amministratore di pagare gli attori ad ogni recita, e questo rigorosamente nell’intervallo dello spettacolo, convenzione dovuta a dolorose esperienze, rimaste nella memoria, come la non infrequente fuga dell’amministratore con gli incassi della serata prima della chiusura definitiva del sipario.
In compenso, lo spettatore dotato di una buona educazione teatrale aveva davanti a sé un ampio ventaglio di scelte che andavano dal vaudeville come puro intrattenimento alla commedia che proponeva profonde riflessioni, fino alla grande tragedia che, senza la mediazione di registi invasivi – ah, la perversa inclinazione a spostare “Edipo” dal suo fondale mitico ai pannelli neri coperti di svastiche! – si reggeva gloriosa sul grande istrionismo del Primo Attore. Costui, dopo essersi concesso senza risparmio di energie all’adorazione del suo pubblico, a fine spettacolo, dopo la grandinata di applausi e di fiori, trovava ancora la generosa disponibilità per congedarsi con qualche lirica da fine dicitore, come “Assolto” di Palazzeschi, “A Silvia” di Leopardi, “L’onda” di D’Annunzio.
Anche se di primo pelo, anche io ho fatto a tempo ad assistere ad alcuni di questi spettacoli. Porto bene impresso nella memoria il ricordo del grande Ruggero Ricci, che ottantenne, nel finale de “L’artiglio”, saltava come un giovanotto in piedi su un tavolo per pronunziare la battuta sulla quale calava il sipario. Né è da meno il ricordo di Emma Gramatica, che sotto la novantina ancora si cimentava con “La nemica” di Dario Nicodemi, riuscendo del tutto convincente a dispetto della sua anagrafe, in ossequio alla quale avrebbe dovuto essere più credibile come nonna o bisnonna anziché come madre; ma il miracolo del grande teatro era tutto lì, nella sua capacità di togliersi trent’anni di dosso sotto le luci di scena. Ma la maestria di quella razza di attori, mattatori quanto volete ma immensi attori, consisteva anche in una capacità del tutto innata, ossia quella di fronteggiare possibili buchi di memoria senza che il pubblico se ne accorgesse. Come i grandi virtuosi della musica, essi sapevano come sopperire a incidenti di percorso di questo tipo, a volte inventando ma sempre all’interno dell’argomento in questione, a volte chiamando in causa il suggeritore senza darlo a intendere agli spettatori.
Di uno di questi incidenti, risolto in maniera assolutamente geniale, intendo lasciare una memoria scritta. Era in scena Memo Benassi, impegnato in una commedia di cui non ricordo il titolo, ma mi pare che appartenesse a quel repertorio ungherese tanto in voga nei massimi teatri fino a pochi anni dopo la guerra. La commedia era di quelle dalla trama abbastanza ingenua, ma tale da fornire al protagonista tutte le occasioni per dimostrare il suo talento attoriale. Il finale, tutto nella sua bocca, chiudeva degnamente una recita ad altissimo livello con la seguente battuta: «E ricordate che chi da gatta nasce topi piglia. È un antico proverbio italiano!». A questo punto, usando un’espressione di rito, possiamo tranquillamente dire che se ne cadeva il teatro. Ma una sera – e il caso volle che nel pubblico ci fossi anch’io -, chissà per quale misteriosa alchimia della mente, il Benassi, che pure aveva adoperato tutta il suo magistero nel porgere ogni battuta come meglio non si poteva, sul finale incorse in una scivolata della lingua, vulgo papera, totalmente insolita per un attore del suo calibro, con la conseguenza che la battuta finale suonò deformata come segue: «E ricordate che chi da natta gasce poti tiglia». L’attore si rese conto che avrebbe dovuto dire: «È un antico proverbio italiano», ma ormai non aveva più senso. Allora, dopo un attimo di perplesso indugio, in un battibaleno chiuse da quel grande che era: «È un antico proverbio romeno!».
Propongo, a questo punto, di inserire tra gli antichi proverbi ancora in uso nella lingua italiana anche la versione romena a firma di Memo Benassi.