NAPOLI RACCONTATA DALLO SCRITTORE E COMMEDIOGRAFO MANLIO SANTANELLI
Mi sono deciso, alla fine mi sono deciso. Da un po’ di tempo l’idea mi tentava, mi aggrediva a tradimento, vale a dire quando mi sapeva più sguarnito, più indifeso. Ma sempre la scacciavo, ogni volta riuscivo a liberarmene con una scusa qualsiasi. Finché mi sono detto: “tentare non nuoce”, e ho comprato un batiscafo.
Un batiscafo, proprio così. Vi si accede attraverso una regolare porta di ingresso ed è composto da un paio di locali, più servizi, da abitare durante le immersioni. Dispone perfino di un giardinetto, pensate!
Ma forse è venuto il momento di rivelare che per batiscafo intendo una casa, la mia casetta nel centro storico di Napoli. Che, a sua volta, è un abisso insondabile, quanto se non più della famigerata “Fossa delle Marianne”, ma non ugualmente ovattato e soporifero. Al contrario, più si procede nella discesa, maggiore è lo strepito che ti aggredisce con effetto stereofonico.
Lo strepito!… Il chiasso più incomposto e indisciplinato, la voluttà di saturare con il proprio clamore lo spazio circostante, quasi un arcaico bisogno di definire il territorio attraverso lo strumento diretto della vocalità, o quello indiretto dei motori che la tecnologia mette oggi a disposizione di tutti… Ecco, se dovessi scegliere un elemento cui affidare l’onerosa funzione di raccontare questa zona della città, non esiterei un istante: lo strepito!. Lo strepito!… Questo sfregio continuamente inferto ad uno dei sensi più delicati, l’udito, questa perenne sfida lanciata a colpi di decibel alla tranquillità collettiva. Questo cavaliere dell’Apocalisse che aleggia sulla quotidiana epopea dei napoletani del Centro, questo tiranno che non ammette censure alle sue efferatezze…
Oscar Wilde, campione del paradosso alle olimpiadi della provocazione, sbeffeggiava il discreto brusio dei salotti vittoriani dicendo: “Non capisco perché la gente si ostina a parlare sottovoce, quando ci s’intende benissimo urlando”. E neppure sospettava l’esistenza di un universo compiuto, il centro storico di Napoli per l’appunto, nel quale la sua iperbolica massima trova un’anonima quanto autorevole conferma.
La mattina, allorché le prime voci cominciano a sondare l’aria dei vicoli ancora intorpiditi dal sonno della notte, hai la sensazione di imbatterti nelle isolate avanguardie di un esercito che, altrove, si stia puntigliosamente attivando per uno scontro campale. Ma forse si può tentare un’immagine più omogenea al tema della divagazione. Forse è più giusto dire che quelle prime voci rimandano a un palcoscenico, sul quale stia per cominciare un particolarissimo concerto sinfonico. Esse voci rappresentano i vari orchestrali che, uno per uno, alla spicciolata per intendersi, entrano in scena e cominciano a verificare, ciascuno per suo conto, l’intonazione dei rispettivi strumenti. C’è anche l’oboe, chiaramente. Ma il suo “la” vaga come uno smemorato per quella inestricabile selva di quarti di tono, in attesa dell’entrata del maestro che li armonizzi. Vana attesa: anche per quest’oggi, purtroppo, il maestro non si presenterà.
Stupisce, e non poco, che una città nota nel mondo intero per la sua musicalità, una comunità pervenuta alle vette del luogo comune con la commenda di “patria dell’estro canoro”, nelle sue attuali manifestazioni di vita – ma sarebbe più giusto dire ”di sopravvivenza” – si comporti poi all’insegna della dissonanza più esasperata, della cacofonia elevata a sistema di comunicazione. Viene naturale chiedersi: “C’è mai stata un’epoca in cui Napoli abbia vissuto nel rispetto dell’armonia, di una generale consonanza che, senza sopprimere l’elemento dionisiaco, primo responsabile di ogni intemperanza comportamentale, si rifiutasse allo stesso tempo di condannare a morte Apollo con tutte le sue muse?”
Per sciogliere questo nodo faremo ricorso al suddetto batiscafo. Che è un mezzo di trasporto per immergersi nello spazio equoreo, ma può anche effettuare immersioni nel tempo. Lasciamoci allora scivolare a ritroso per tutto l’Ottocento, secolo che ai nostri fini non offre particolare interesse, e andiamoci a posare sui fondali del Settecento, che al suo scadere diede luogo alla Repubblica Partenopea, barriera corallina del più vistoso fallimento dell’idea di democrazia. E’ lì che avviene l’insanabile frattura fra le varie componenti della vita politica e civile di Napoli. E forse proprio quell’evento, che sul versante pubblico fu la causa prima di tanti scompensi a venire, potrebbe essere additato come il maggior colpevole di un’armonia perduta anche sotto il profilo strettamente acustico. Noi sappiamo che la classe dominante di quel tempo stipulò un patto infame con la plebaglia perché l’aiutasse a sbarazzarsi di una borghesia illuminata e bene educata soprattutto. Non conosciamo, è vero, i termini esatti di quell’accordo, ma abbiamo più di un motivo per ritenere che suonasse pressappoco così: “Se voi lazzaroni ci date una mano a riprendere il governo della città, noi emaneremo una legge che vi riconoscerà piena libertà di urlare a qualunque ora del giorno e della notte”.
Ci assale, però, il sospetto che anche queste considerazioni non siano sufficienti a chiarire l’origine della chiassosità dei vicoli, di questo molto poco cartesiano “strepito ergo sum“, a cui ogni popolano verace inconsapevolmente affida la centralità del proprio “io partenopeo”. Per saperne di più non abbiamo che da proseguire nella nostra immersione temporale.
La decisione viene immediatamente remunerata da una gradita sorpresa: tutti i viaggiatori europei che, in omaggio alla moda del Gran Tour, si siano spinti fino a Napoli, da Goethe a Montaigne (la successione va intesa ovviamente secondo il senso della nostra marcia, vale a dire andando indietro nel tempo), pur nell’estrema varietà dei loro personali punti di vista, si trovano pressoché d’accordo nel descrivere la città come una Torre di Babele dei più disparati frammenti sonori. Napoli si rivelava ai loro orecchi come una fascinosa e terribile sirena, a cui poter resistere soltanto grazie all’uso di provvidenziali tappi di cera.
E se fosse tutta colpa del Seicento? Secolo monumentale, che ha lasciato profondissime tracce nella vita culturale di questa città, con la sua estetica dell’eccesso, della sproporzione, della dismisura, il Seicento potrebbe non essere estraneo alla formazione di una tendenza come quella in esame, basata sul principio che “di più è sempre meglio che di meno”, e che se vuoi essere ascoltato devi mandare la tua voce sopra le righe, tanto ci pensa l’orecchio dell’altro a ricondurla tra le righe, quando non te la sbatte addirittura sotto.
Il Seicento, inoltre, si porta indietro un’altra idea fissa, l’angoscia della morte e, con essa, di un mondo in cui tenebre e silenzio abbiano il sopravvento sulla vita intesa come luce e suono. Forse questa pratica scatenata della vocalità, e del sonoro in generale, può essere ricondotta a quell’ossessione di base, e configurarsi di conseguenza come una sorta di esasperata esorcizzazione della “fatal quiete”, una variante fonica dell’”horror vacui”: il silenzio mi fa paura perché è il sinonimo di morte, perché è il luttuoso paravento del nulla?: e allora io strillo!
E Pulcinella ne sa qualcosa! Maschera che, evolvendosi attorno a un ben più remoto nocciolo, si è codificata appunto nel Seicento all’interno di quel meraviglioso rigoglio teatrale unificato nel termine di Commedia dell’Arte, Pulcinella rappresenta il prototipo del popolano “strillazziere”, che tace soltanto il tempo necessario per riprendere fiato e riesplodere nei suoi gutturali acuti di gallinaccio (Pulcinella = pulcino). Contro chi sguinzaglia, Pulcinella, il suo eversivo rancore di servo che non si rassegna al servaggio? Un po’ contro tutti, per la verità. La piramide sociale che lo sovrasta, se potesse prestarsi a misurazioni fisico-spaziali risulterebbe alquanto più mastodontica di quella di Cheope. Ma uno dei suoi più frequenti antagonisti è certamente la morte, il padrone per eccellenza. Contro la Morte, raffigurata attraverso la sua consueta iconografia, vale a dire la tradizionale “capa di morto”, la maschera plebea fa ricorso alla sua più indomabile rumorosità. Nel corso di questa nostra discesa ai liquidi inferni napoletani, la incontriamo per i sentieri del Seicento, accanto e in alternativa alla cultura solenne, grottesco Orfeo che non ci sta a perdere la sua Euridice – Colombina soltanto per aver ceduto alla curiosità di voltarsi indietro. A questo punto potremmo pacificamente concludere che tutto è cominciato nel Seicento. Ma allora come la mettiamo con Svetonio, Tacito, Seneca? Che c’entrano Seneca, Svetonio, Tacito, si dirà. C’entrano purtroppo. In più occasioni, questi tre numi delle antiche lettere, parlando di Napoli, non omettono di far riferimento alla sua “pittoresca vitalità”. Che dava alla testa più di un Falerno di annata. Se poi, come si crede, è Napoli la “greca urbs” nominata nel Satyricon di Petronio Arbitro, città magnetica in cui il visitatore incauto smarrisce ogni possibile orientamento, si dovrà convenire che è ben più stagionata la fama di cui può menar vanto questo universo di suoni incrociati.
Inverosimile per verosimile, ci piace a questo punto immaginare un’età mitica, in cui le lande, dove più tardi si sarebbe insidiata Partenope, fossero soggette a due divinità in perenne conflitto: il dio del Frastuono e il dio del Silenzio. Accadde una volta (sempre nella nostra immaginazione) che i due s’incontrassero lungo la riva del mare. Entrambi reputando disdicevole bagnarsi i piedi nell’acqua, come pure scottarsi nella sabbia rovente, presto l’incontro degenerò in una risibile questione di precedenze. “Cedetemi il passo!” urlò il dio del Frastuono. “Siete voi che dovete cederlo a me!” precisò a gesti il dio del Silenzio (N.B. l’uso del “voi” era già una prerogativa di quelle latitudini). La disputa andò avanti su questo tono ancora un po’! Con l’uno che strepitava e l’altro che si contorceva nell’esposizione del suo campionario mimico. Infine, al Dio del Frastuono saltarono i nervi, la qualcosa non gli accadeva raramente, visto che usava portarli a fior di pelle. Afferrato un bastone, quell’energumeno vociante si scagliò contro il suo muto rivale, che, fuggendo a gambe levate, ruppe in urla e strepiti, abdicando una volta per sempre al suo proverbiale mutismo.
Il resto, diversamente da quanto accade nell’Amleto, purtroppo non è silenzio.
Articolo scritto per la rivista: “DO MAGGIORE” settembre 1991 pag.64