- AMICO ROMANZO La difficile intercapedine tra la “guerra” e la “pace” nel buon esordio di Erica Cassano.
di Gabriella NOTO - SIPARI APERTI Gran teatro Viviani. Attualità e memoria a 75 anni dalla morte di Mirella SAULINI
- COME SUGHERI SULL’ACQUA La gentilezza potrebbe salvare il mondo di Ariele D’AMBROSIO
AMICO ROMANZO
La difficile intercapedine tra la “guerra” e la “pace” nel buon esordio di Erica Cassano
di Gabriella NOTO

La grande sete, Milano, Garzanti, 2025
Siamo tristemente assuefatti all’idea che la Storia passi per le storie dei corpi. Che la guerra si faccia anche (o forse soprattutto), imponendo agli inermi la sete, la fame, la sporcizia, le malattie. Questo accadde a Napoli, in Italia e altrove durante e dopo la seconda guerra mondiale; e sta accadendo ancora, con rinnovata ferocia, in Palestina ed in altri luoghi del mondo.
In questo scempio quotidiano della vita, la guerra diventa davvero lo squallido cavaliere apocalittico, un nemico immenso che costringe a una resistenza minuscola e infame, millimetro a millimetro, secondo dopo secondo. L’ultima goccia d’acqua, il più squallido dei ripari, un morso di pane. Miserie raggranellate con fatica, che diventano una dopo l’altra possibilità di sopravvivere.
Teatro di un “dopoguerra infinito” (1) Napoli ha avvinto a sé documentaristi, drammaturghi, registi e molti eccellenti nomi della nostra letteratura. Anna Maria Ortese, Ermanno Rea, Giuseppe Marotta, Curzio Malaparte hanno raccontato, con toni molto diversi, cosa abbia significato per la città di Napoli e per i suoi abitanti la “fine” della guerra ed il precipizio in quel periodo di violenza, miseria e confusione che i libri di storia etichettano, appunto, con il termine pietoso di “dopoguerra”, non essendo possibile, per minima decenza, riferirsi ad esso con la parola “pace”.
In una sua significativa riflessione Giuseppe Marotta, nei primi mesi del 1944, così scriveva alla moglie, Pia Montecucco, sfollata in Piemonte: “L’umanità sembra impazzita, non si sente parlare che di odio, da nessuna parte si vede una mano tesa, da nessuna parte ci si rende conto che siamo tutti innocenti e tutti colpevoli, che la ragione e il torto non vanno mai separati e che forse tutto quello che succede non dipende neppure dagli uomini” (2).
Ed è in questa atmosfera irrespirabile che si ambienta la storia narrata da Erica Cassano, ricostruita da memorie di famiglia della stessa autrice. “La grande sete” racconta cosa abbia significato essere un corpo -e un corpo di donna- in quel tempo difficile.
Dopo le tremende Quattro giornate ed il tumultuoso arrivo degli alleati, l’autrice descrive una fase diversa, in cui all’ansia del sopravvivere ed ai mille pericoli di una città sfasciata e assetata di tutto, si sovrappone, dopo anni di pericolo quotidiano ed imminente, la possibilità di aprire spazi di riflessione sul tempo trascorso.
Per la protagonista, Anna, il cessare dei bombardamenti coincide così con la ripresa di un filo sottile di ragione e con una nuova ricerca di senso. All’ingiustizia della guerra subita, dell’ottusa malignità del fascismo, si unisce lo stupore crudele di trovarsi dalla parte dei “vinti” dopo le gloriose “Quattro giornate”. Fatto storico epocale, eroico sacrificio collettivo, ridotto a grimaldello per i nuovi “alleati”, che si piazzano sazi e inconsapevoli, come osservatori e giudici tra le rovine di un popolo stremato.
Nella storia di Anna, che inventa quotidianamente modi per sopravvivere e nel contempo mantenere uno straccio di un’unità nella sua fragilissima famiglia, la fascinazione per gli americani vincitori, abitanti di una mitica terra di pace, abbondanza e domestiche comodità e l’amore per Napoli, odiosa e insieme eroica, rimandano alla dicotomia irriducibile tra vinti e vincitori.
La protagonista resta sospesa in questa incertezza, e sembra a momenti far suo lo sguardo degli “alleati”, sempre più simili ad arroganti colonizzatori. Risuona tremendo il monito “Vae victis!”: anche i napoletani, come gli sconfitti di tutte le guerre, non solo sono costretti a sopportare privazioni e violenze, ma appaiono come esseri umani difettati, come se la fame, la sete, il tifo petecchiale fossero stati causati dalla loro stessa inferiorità e non dalla tragedia immensa che, incolpevoli, li ha travolti.
Erica Cassano rende la complessità di questo “dopoguerra infinito”, descrivendo la guerra come una sostanza capace di intossicare molecolarmente l’esistenza umana. La concordia, la possibilità di una comunione civile tra esseri umani, appaiono una dimensione impossibile persino da sognare.
L’avversario è ovunque: l’ostilità infetta non solo gli eserciti contrapposti, i fascisti violenti, gli ex dissidenti politici e gli “alleati”, ma divide madri e figlie, amiche di infanzia, famiglie che vivono nello stesso palazzo.
E così, mentre la giovane protagonista si fa forza per affrontare il mondo spezzato e ignoto che è venuto fuori dal disastro, la lotta più cruda la attende tra le mura di casa, con una madre ed una sorella che fanno fatica a sostenerla e comprenderla. Davvero estranee, davvero nemiche.
Nel contempo, nell’animo di ognuno dei “vinti” imperversa la più straziante e segreta battaglia: tra il ricordo amaro di luoghi e tempi passati, il terrore e il desiderio del futuro, l’angoscia pressante di sopravvivere al momento presente.
Ed in questo scenario in cui la guerra mostra il proprio aspetto orrorifico di morbo strisciante in ogni cellula umana, ognuno sarà chiamato a trovare un modo proprio per restare fedele a sé.
Un buon esordio per Erica Cassano, che ha il grande pregio di tessere insieme, con uguale cura, gli accadimenti storici e le vicende umane in una storia bella che convince per la sua densità e la sua delicatezza. La narrazione della giovane autrice, che certamente saprà trovare una sua voce narrativa più audace e personale, restituisce una prosa fresca e appassionata, colma di rispetto per la storia narrata e di dolente affetto per i vinti di quella Napoli malconcia e complicata.
- L’espressione è tratta da Pesce G., Il dopoguerra infinito di Napoli, in, Atti del XXII convegno dell’ADI, Associazione degli Italianisti (Bologna,13-15 settembre 2020), a cura di Campana A., Giunta F., Roma, 2020
- Maffei S., Sogni, delusioni e sconfitte nelle lettere inedite di Giuseppe Marotta, Emeroteca-Biblioteca Tucci, Napoli 2004, pp. 84 e ss.
SIPARI APERTI
Gran teatro Viviani. Attualità e memoria a 75 anni dalla morte
di Mirella SAULINI

Chi di noi non ha in casa una bibliotechina dei libri usciti nel corso degli anni quale supplemento al quotidiano La Repubblica? Nel 2025 lo scaffale dedicato al teatro si è arricchito di questo Gran teatro Viviani. Attualità e memoria a 75 anni dalla morte, volume miscellaneo che, dopo i saluti di rito, saluti dovuti data la ricorrenza, accoglie in primis due atti unici di Raffaele Viviani, vale a dire ’O vico del 1917 e Tuledo ’e notte del 1919 (pp. 43-122). Questi testi sono seguiti da una scelta di poesie (pp. 123-144) indi da scritti nei quali Viviani parla di sé. Lo fa implicitamente, è ovvio, quando rivela impressioni e sentimenti in due articoli usciti sul quotidiano “l’Unità”. Nel primo, Ricordo di Petrolini del 6 maggio 1950, scrive riferendosi appunto al grande attore da poco scomparso: «Una fiamma la sua Arte, che servì a bruciare tutte le ipocrisie, tutte le convenzioni, tutte le impalcature fradicie del vecchio teatro» (p. 34). Nell’altro, La mia Piedigrotta, del 30 aprile 1950, scrive di essere tornato quell’anno a Piedigrotta e ricordando la gioia con la quale, bambino di cinque anni aveva avvertito la gioia della gente che «sentiva la sua festa», conclude amaro: «le facce […] erano ferme […] come se lo spettacolo non fosse tripudio. Tra la gente e la festa, era passata la guerra» (p. 37).
Traspaiono da queste parole sia l’idea di un teatro che guarda avanti e vuole rinnovarsi, anche sperimentando, anche rischiando, sia il sentimento con il quale Viviani guarda al popolo di Piedigrotta, che chiama «il mio popolo» (p. 37). È un sentimento che potremmo definire di vicinanza solidale, una vicinanza che gli farà portare sul palcoscenico proprio quel popolo, sia come autore, facendolo agire e parlare, sia come attore dando vita a tanti indimenticabili personaggi.
Nella seconda parte del volume la parola passa agli altri, a coloro che parlano di Raffaele Viviani. C’è chi lo ha incontrato e conosciuto personalmente, e dunque dà una testimonianza diretta, dal vivo, c’è chi lo ha conosciuto assistendo alla rappresentazione dei suoi testi o/e leggendo le sue poesie.
Tra chi lo ha conosciuto attraverso il suo teatro, mi permetto d’inserire, pur non avendo scritto su di lui, anche me stessa. Vidi per la prima volta un’opera di Raffaele Viviani al Teatro Valle di Roma nell’ormai lontanissimo venerdì 9 dicembre 1994. Si trattava di Zingari, per la regia di Toni Servillo, interpretato dallo stesso Toni Servillo e da Iaia Forte.
Devo confessare che allora rimasi perplessa, che non lo capii; non sono la sola. I saggi raccolti in questo Gran teatro Viviani, sono come attraversati da due linee parallele: mentre parlano del Viviani che è stato, coloro che scrivono fanno riferimento al Viviani che avrebbe potuto e dovuto essere. Nei vari saggi si fa infatti notare, in modi diversi e a seconda dello specifico di ciascuno di essi, che l’arte di Raffaele Viviani è stata sottovalutata con la conseguenza che non gli è stato assegnato il posto che meriterebbe nella storia del teatro.
Certamente i suoi personaggi, uomini e donne del popolo incontrati tante volte lungo strade e vicoli, personaggi veri, istintivi e a volte calcolatori, come il giornalaio-ragionatore de ’O vico le cui «speranze stanno basate sopra ’e guaie d’ ’a gente» (p. 66), dal momento che sono notizie sensazionali e catastrofi a far vendere le copie, si esprimono in dialetto. Non il dialetto della borghesia, ma quello stretto del parlare quotidiano degli umili e degli emarginati alle prese con la difficile concretezza dell’esistenza. L’uso del dialetto non ha agevolato la comprensione e la diffusione del teatro di Viviani, specialmente durante il periodo fascista; ancora meno ha aiutato il suo mostrare la miseria vera, la scelta di un realismo assoluto che rende il suo teatro tutt’altro che consolatorio.
A questi ostacoli si aggiungono un cammino editoriale a dir poco accidentato, tanto dell’opera teatrale che di quella poetica, nonché il fatto di essere mancato prima dell’avvento della televisione e il non essere stato guardato con simpatia dal cinema. Fortunatamente la digitalizzazione della sua opera, partita da un’idea di Antonia Lezza, lo risarcirà, almeno in parte della trascuratezza degli altri mezzi.
Per concludere su quello che Raffaele Viviani ha rappresentato nella storia del teatro italiano del Novecento, il passaggio dai cosiddetti ‘numeri a solo’ nei quali egli interpretava tutte la parti all’atto unico fu, per sua stessa ammissione, «un esperimento artistico di grande rilievo» (p. 25).
Infatti, come scrive Antonia Lezza, «Viviani rompe con la tradizione precedente, quella verista e si avvale dell’esperienza originale, travolgente e moderna del Varietà che gli appartiene sin dalle sue prime prove d’autore» (p. 165). Egli, sottolinea sullo stesso tono Valentina Venturini, passò dal Varietà alla «commedia in versi, prosa e musica (elemento essenziale quest’ultima, da non dimenticare) […] tradusse nell’ambito del teatro napoletano molte delle novità del teatro europeo del primo Novecento […], ma nessuno sembrò accorgersene» (pp. 159-161).
COME SUGHERI SULL’ACQUA
La gentilezza potrebbe salvare il mondo
di Ariele D’AMBROSIO

Teatro naturale
Milano, Edizioni Ares, 2024
Pagine 168
Euro 14,00
Info:
https://it.wikipedia.org/wiki/Giampiero_Neri
La gentilezza potrebbe salvare il mondo
per Teatro naturale
Libro elegante, si tiene nel palmo di una mano, si sfoglia bene, si legge comodamente. Il nome dell’autore, Giampiero Neri, è in un dorato antico che prevale in grandezza su tutta la copertina, ma non stona, il titolo Teatro Naturale è in verde come si addice alla natura, la fotografia del teatro Licinium di Erba di Davide Coltro è in bianco e nero.
Saranno poesie del ricordo in bianco e nero? Anche, ma è molto di più, un di più molto più complesso e lo vedremo.
Intanto Giampiero Neri è un nome che nasconde; Giampiero, il nome, è rimasto, mentre Neri era Pontiggia. Giuseppe Pontiggia il fratello, narratore troppo noto per assumersi un cognome di seconda? Narcisismo? Frustrazione per l’altro già notissimo? O per la poesia che non ha il mercato della narrativa, o meglio, che non ha mercato? Non lo penso di un poeta vero che ha lavorato in banca fino alla pensione. Lo penso invece come uomo elegante, discreto, studioso, gentile, che abbia preferito il non farsi trainare dal fratello, da quel cognome già famoso. Ma YouTube (Poeta Giampiero Neri Piero da Saronno: Saronno una volta 14 feb. 2025) mi viene in soccorso, e lo citerò ogni volta quando ci sarà l’occasione. Neri, perché il padre era nero (camicia nera) che vuol dire fascista, poi fucilato dai partigiani. E al di là dei fascisti più o meno buoni o più o meno cattivi come tutti gli esseri umani, in questo nuovo cognome c’è il ricordo tragico ma anche tenero, melanconico e amorevole di un figlio verso il proprio padre ucciso durante una “guerra civile”, come egli stesso la definisce (YouTube), da accogliere con tenerezza ed affetto. D’altronde subito la contraddizione ideale fa capolino con il suo Maestro e mentore il Professore Fumagalli che faceva parte del CLN. In quanto detto si nasconde e si esplicita il “mimetismo”, il non dir niente al filisteo (YouTube), che resta una delle caratteristiche della sua poetica, assai atipica e sorprendente, originale e innovativa, contestualizzandola nel tempo della sua produzione.
Comincio a leggere e mi è assai ostico, ma, man mano che procedo, mi spiazzo, mi sento spaesato, mi sorprendo. Non trovo accenti, rime, sillabiche scansioni, ma righi come versi e come strofe che si alternano a spazi, e dicono, raccontano, ricordano. E non m’importa più di definire, né fare analisi del testo. Poesia prosastica? Nemmeno. Poesia che suona o che non suona? Poesia che canta? Qui mi arresto, in bolle trasparenti in cui m’immergo trasportato dall’aria. Ed entro nella vita di chi ha vissuto storie, altre vite, ricordi. Perché anche i ricordi fanno parte della vita che si vive, a volte trasformate in sogni, a volte in quelli dei dormiveglia, mutati, persino deformati.
Scrivo tutto questo che pare fuori tema, perché questo mi è successo leggendo Teatro naturale, titolo anche legato agli studi, non portati a termine, di Giampiero Neri, quelli alla Facoltà di Scienze Naturali.
Il “mimetismo”, dicevo, e gli animali immersi dentro la natura; da Altri viaggi > Variazione: «si nasconde il gufo sul ramo / durante il giorno, / si adatta a una diversa parte / nel suo breve travestimento. / Ma col variare della luce / abbandona la sua muta inoffensiva, / nella sua forma e figura / si presenta al rituale appuntamento.», aggiungo, di predatore notturno.
D’altronde lui stesso ci spiega in una intervista: È come nell’iceberg, quello che emerge è la punta. Ma i quattro quinti non si vedono. Le faccio un esempio: Lucio Fontana ci mostra la sconfitta della pittura, dell’arte. Ma lo fa creando una nuova opera d’arte. Sembra una contraddizione ma non lo è. Le parole sono il nostro mimetismo, quindi bisogna rispettarle, perché dicono molto di più di quello che dicono. Uno scrittore fa una scelta di parola, non dice una parola… Cerca quella adatta1.
E recepisco non la metafora, ma in modo diretto l’indicazione del bene e del male unificati in uno stesso essere vivente, così com’è nella vita per tutti noi e per gli altri: mimetizzato il gufo di giorno per quello che sarà di notte, un predatore impietoso. Otto versi scritti senza alcuno scarto sintattico o lessicale ma soltanto con una simmetria formale ineccepibile. Ancora Modello: «Si era pensato di ammansire la tigre con dei sorrisi.». Un verso una poesia, ma c’è chi è stato prima di lui: M’illumino / d’immenso, quando a trenta anni lo credeva un unico verso e non lo pensava poesia e il fratello gli disse che erano due i versi; per lui la prima importante lezione sulla poesia (YouTube). Mentre la tigre, pur bella e affascinante, è un nemico che ti sbrana, e il suo Maestro e mentore, Professore Fumagalli gli diceva: “ci sono momenti della storia in cui bisogna scegliere se stare da una parte o dall’altra” (YouTube). Capire da che parte stare per riconoscere il nemico, la tigre, pur affascinante e bella, e aggiungo incolpevole nella sua animalità.
Libro antologico questo, diviso in quattro sezioni: L’aspetto occidentale del vestito, Liceo, Dallo stesso luogo, Altri viaggi, per quaranta poesie. Libro antologico per un poeta sostenuto da altri importanti poeti studiosi come Giancarlo Majorino, Giovanni Giudici, Maurizio Cucchi con la sua breve ma esaustiva introduzione. Ed è quest’ultimo che bene mette in evidenza un aspetto importante e fondamentale di questa poetica: … in Neri ha sempre agito l’esigenza morale di tenersi estraneo a ogni forma di ricerca artificiosa, mosso dalla forte convinzione che la semplicità non fosse un punto di partenza ma un punto di arrivo. … quella che dovremmo chiamare una semplicità profonda … . Sembra un’ovvietà questa di Cucchi, ma bene ha fatto a sottolinearla; qualcuno, un lettore di narrativa ad esempio – la prosa è più duttile della poesia che si costringe in regole anche autonome più stringenti per costruire una propria forma –, potrebbe fraintendere questo libro e chiamare righi, ricordi e pensieri i versi. E invece, si guardi bene, qui la semplicità è, come si diceva, il traguardo di un percorso, e mai facilità o accessibilità o agevolezza o comprensibilità. Non la si deve mai intendere come semplicità arida, puerile, priva d’immaginazione, ma piuttosto una semplicità che scaturisce dall’essenzialità. Ed aggiungo, che approda alla più alta complessità, come a dire “inesauribilità del testo” (Italo Calvino): più lo rileggi, anche nel tempo, e più scopri nuove cose, o cose che potresti comprendere ad una nuova e più distante rilettura.
Da L’aspetto occidentale del vestito > L’albergo degli angeli V: «Sta di fatto che nemmeno un bambino stava giocando sulla spiaggia quando il fronte del temporale si staccò dalla linea più lontana e cominciò a venire avanti rapidamente. / Prima correndo sul filo dell’acqua solleva due pesanti ali e si nasconde in silenzio dietro banchi di nuvole, e gettata all’improvviso una luce, come di stella cometa, ci viene incontro. / Allora è tardi per rimandare le spiegazioni a un’altra volta. / Guardo una mistica frana di castelli in aria.».
Intanto le chiuse, i finali di queste poesie spesso ci sospendono in una dimensione metafisica, in questo caso persino spirituale, ed è proprio la contrazione del dire, la sottrazione di qualsiasi orpello lessicale, l’uso sapiente di un linguaggio scabro e denotativo che non permette mai alla metafora e al simbolo di prevaricare. Il reale è sempre diretto e la fa da padrone, a volte col ricordo di minimi dettagli, a volte con una descrizione documentaristica secca e scarna che si fa cifra e virtù.
E gli accenti, le rime, le sillabiche scansioni? Torno a dirmi e a provocarmi. E faccio rispondere direttamente Giampiero Neri anche per chiosare un po’ con lui. È un portato del Novecento, che è stato un periodo di disastri e che, proprio per questo, ci ha dato la libertà di pensare che certe regole non davano la misura di quello che volevamo. La poesia non può più stare nella struttura formale. È qualche cosa di misterioso, perché se sapessimo in anticipo che cos’è arte, tutti potrebbero scrivere poesia. Ma così non è. È un mistero. Non è la rima che fa la poesia, non è la quantità di sillabe che fa la poesia. Se no sarebbe stata arte anche quella del “Gazzettino Padano”: «Anche per oggi abbiamo finito prego la rima buon appetito»1. Ma per chiosare bisogna sempre contestualizzare ed è giusto nel suo tempo dichiarare quanto ha detto. E intanto ogni poeta che si rispetti fabbrica la sua forma personale così come anche il nostro poeta ha fatto e ben definendola anche sul piano teorico. Ma poi, parlando ovviamente d’altri, il mare magnum della semplicità posticcia, quella arida per l’appunto, puerile, priva d’immaginazione, per non parlare del “prosasticismo” becero che ha mascherato tanta poetese e poetichese, da cercare, meglio ricercare, anche nell’oggi un rinnovamento metrico che possa essere nuova forma e nuovo canto. D’altronde l’antico non scompare mai se ci si abbevera in modo consapevole, approfondito e rinnovato. Così come il nuovo non può e non deve, come purtroppo spesso è accaduto, erigere il proprio monumento sulle ceneri di chi lo precedeva, pur reiterato ed abusato e distinguendo anche i buoni epigoni dagli esiziali epigonici.
L’aspetto occidentale del vestito > per I, II, III, IV, V, ma solo i versi in chiusura di poesia, e solo una volta anche a chiusura di strofa: «… due diverse cause, / governo e opposizione / che si rincorrono continuamente.»; «… muove insieme chi cerca / e chi ha interesse a non farsi riconoscere, / una corrispondenza alla fine.»; «… In questa casa – leggevo – / Barnaba Oriani astronomo / abitò e morì il 12.11.1822 // … Di fronte sorgeva la casa / dove morì il 26 dicembre 1780 / il conte istoriografo di Milano. / Nacque il 16 luglio 1714. / Nel luogo dove si ricordano i nomi / principium cum fine tibi denotat α ω»; «… – disse il consigliere guardando dalla finestra – / gli umori sono meno atrabiliari, / una bava di vento increspa le vele.»; «… Le metterai vive – mi disse – / in un infuso di latte e segale / e quando son ben nutrite, cuocile.», parlando di un cuoco e del suo piccolo allevamento di lumache. E questo per dire quanto il meccanismo reale-surreale, così estrapolato, possa diventare in una qualche misura anche comico, e semplicemente perché è, perché s’interrompe come qualcuno che inciampa e cade, ed anche perché la descrizione degli exitus sono scarni e senza pianti posticci, non hanno mai buonismi estetizzanti, e per questo forse, sono preghiere più intime, più vere, una compassione silenziosa che si fa mistero e poesia o se si vuole poesia del mistero.
I titoli poi, sono sintesi concettuali delle composizioni che contengono, così come il rigo-verso-poesia: da Liceo > Sovrapposizioni V: «Si era posato sul maestoso ramo di un platano.», non può prescindere dalla pagina che lo precede IV: «Della bibliografia. // Owls, di Sparks e Soper e una vecchia edizione di David Copperfield con una dedica del novembre 1944.». E quel posato e quel platano diventano la metafisica del ricordo, ed i libri si saranno mutati in uccello ancestrale con le sue ali di pagine ed una dedica misteriosa che rimanda a un’altra vita.
Storia naturale: «e dalla rossa inferriata in lontananza / riposare il vento guardavamo tremando / la casa pallidamente illuminata e lei / come aspettando. E chiaro il cerchio / né ci stancammo di guardare quanto / durò il silenzio timido della farfalla.». E mi abbandono a questa immagine, quadro di un fotogramma, e contemplo il vissuto del tempo che faccio mio tra la geometria del cerchio e del suo sperato ritorno ed il silenzio della farfalla che mi sospende nel vento di un attimo. Ecco perché torno a dire di un concreto terreno che diventa astrazione di scrittura, spirituale e metafisica. Ed ancora da Dallo stesso luogo > Dallo stesso luogo “alla memoria di Edoardo Persico (Napoli 1900-Milano 1936)”: «Come l’acqua del fiume si muove / contro corrente vicino alla riva / si disperde dentro fili d’erba / lontana dal suo centro / la memoria fa un cammino a ritroso / dove una materia incerta / torna con molti frammenti.». Il frammento, altra parola precisa e scelta che connota questa poetica, ed è come mettere un tempo di vita sotto la lente d’ingrandimento per farla diventare emozione e intima tenerezza.
Sai qual è la differenza tra me e te? Tu ti entusiasmi per quello che non capisci (YouTube). Così il fratello (narratore) a lui (poeta), e Giampiero Neri lo conferma nel suo discorso, sorridendo gentilmente, anche commuovendosi. Perché anche in questo “non capire” c’è un aspetto importantissimo, misterioso per l’appunto e fondante della poesia in generale: il mistero, il buio che può anche dirsi incomprensibilità. Ma è la poesia, non la filosofia che può comunicare l’abissalità del dire ed è soltanto la poesia che la può trasmettere in modo chiaro perché emotivo (Massimo Cacciari). Sembrerebbe un ossimoro e non lo è. Quante volte ci capita di dire “non capisco ma mi piace”, “non so perché mi sono innamorato”. La vita e la parola col suo mimetismo lo conferma incessantemente.
Concludo questo mio contributo dicendo che queste poesie mi toccano anche sul piano della delicatezza. Delicatezza che è sinonimo di gentilezza, e per questo lascio dire a Giampiero Neri: L’arte della gentilezza. Di amore si parla sempre, ma di gentilezza no. Invece sarebbe una cosa da riscoprire, come una nuova categoria di rapporto. Forse la gentilezza potrebbe salvare il mondo. Perché è propedeutica a tutto il resto, a un altro modo di essere e di vedere1.
Napoli ottobre 2025
1 all’indirizzo:
https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/2023-02-15-giampiero-neri-la-poesia-non-va-a-capo