- AMICO ROMANZO La notte brava di Kant e Casanova di Annalisa ARUTA STAMPACCHIA
- SIPARI APERTI “Totologi di tutto il mondo unitevi!”: un libro per riguardare Totò di Annamaria FERRENTINO
- COME SUGHERI SULL’ACQUA Quando il POP tenta la Poesia stampata in un libro di Ariele D’AMBROSIO
AMICO ROMANZO
La notte brava di Kant e Casanova
di Annalisa ARUTA STAMPACCHIA

La notte brava di Kant e Casanova,
Vicenza, Neri Pozza editori, 2024
Daniele Archibugi, economista particolarmente interessato alle politiche dell’innovazione e della teoria politica delle relazioni internazionali ha insegnato oltre che negli Stati Uniti, in Inghilterra e in altre università europee, all’Università La Sapienza di Roma ed è Dirigente presso il Consiglio nazionale delle Ricerche. In ambito narrativo ha pubblicato sulla scomparsa del suo maestro Federico Caffè, Maestro delle mie brame. Alla ricerca di Federico Caffé e nel 2024, per i tipi di Neri Pozza, il romanzo La notte brava di Kant e Casanova
L’accostamento singolare e inaspettato che Daniele Archibugi propone nel suo romanzo La notte brava di Kant e Casanova può senz’altro meravigliare e incuriosire il lettore, sorpreso nel trovare abbinati due personaggi diversissimi come Kant e Casanova. L’indicazione ‘romanzo’ fa pensare ad una pura creazione di fantasia, visto che l’autore, come rivela il titolo, farà vivere ai protagonisti addirittura una «notte brava». Ciascuno a suo modo indiscussi interpreti dello spirito del Settecento, appaiono lontanissimi ai nostri occhi per le loro opere e le testimonianze di vita.
Kant (1724-1804), non si è mai mosso da Königsberg, sua città natale dove si è dedicato allo studio dell’etica e alla razionalità senza mai indulgere, per quanto ne sappiamo, a episodi di natura sentimentale, non aveva costruito una famiglia perché si riteneva inadatto alla vita familiare ed era soprannominato il Magister; incline alla malinconia, amava passeggiare a lungo da solo seguendo le sue fantasticherie.
Casanova (1725-1798), viaggiatore errabondo nelle corti d’Europa dove vive la sua vita come una ‘storytelling’continua in cui dimostrare sempre di essere capace «di correggere la fortuna»: ora con la sua spettacolare fuga dalla prigionia veneziana dei Piombi, ora vincendo con perizia e, talvolta anche barando, ai tavoli da gioco, «tombeur de femme» riconosciuto e seduttore instancabile ma anche laureato in «utroque iure» all’Università di Padova, esperto conoscitore dei calcoli matematici e della cabala oltre che organizzatore di lotterie.
La storia si svolge a Königsberg, cittadina affacciata sul Mar Baltico, dove il governatore Hans von Lehwaldt, abituato a raccoglier voci sul passaggio in città dei nuovi arrivati, sa da un amico scozzese, fratello muratore cioè massone, che sarebbe arrivato per qualche giorno un fratello veneziano, Giacomo Casanova, chevalier de Seingalt, conosciuto come gran conversatore, amante dei piaceri della tavola e della vita, ma anche persona interessante per le sue conoscenze scientifiche.
Il governatore decide di invitarlo a pranzo da lui e, tra i convitati, sceglie Immanuel Kant. In effetti, se sappiamo di sicuro che Casanova aveva soggiornato due volte a Königsberg nel 1764 e nel 1765, non abbiamo alcun riscontro che abbia potuto conoscere il filosofo tedesco.
Il romanzo sottolinea anche il fatto che i due protagonisti, quasi coetanei essendo nati solo a un anno di distanza, fisicamente sono all’opposto: Kant è piccolo di statura, con una figura insignificante dove spiccano solo gli occhi di un bell’azzurro, mentre Casanova raggiunge circa due metri e brilla per la cura dell’abbigliamento raffinato. A pranzo dal governatore è presente anche una giovane donna, Charlotte von Knobloch per cui Kant nutre molta simpatia considerandola il «vanto del suo sesso» perché sempre sorridente, colta, di buon carattere, parecchio più giovane di lui e più o meno della sua stessa statura non lo intimidiva, anche se non si era mai azzardato a farle veramente la corte. È felice di trovarla tra gli invitati e, vedendolo, Charlotte subito gli rivolge la parola chiedendogli il parere sulle teorie dello svedese Swedenborg che affermava di parlare con i defunti. Mentre i commensali discutevano sull’argomento e Kant diceva la sua, sopraggiunge il governatore con il nuovo ospite, il Cavaliere di Seingalt che, appena entrato in scena, non manca di attirare l’attenzione sulla sua imponente figura e farsi ammirare per l’abbigliamento, elegantemente ricercato come sempre. Giacomo Casanova saluta gli ospiti e piegandosi con galanteria, dall’alto della sua statura, a baciare le mani delle signore suscita subito l’ammirazione, ma anche l’invidia di Kant che non era solito a queste raffinatezze. Sollecitato a dire la sua su Swedenborg, Casanova che poco sapeva su di lui e vagamente immaginando che fosse un imbroglione, sposta il discorso sull’abilità degli impostori che però trovano terreno fertile nei creduloni che quasi hanno bisogno di essere imbrogliati. A quel punto Kant gli chiede a bruciapelo a quale delle due categorie preferisse appartenere e Casanova dichiara che senz’altro preferisce essere nel numero dei creduloni e rammenta la sua conversazione con Voltaire che affermava di voler con le sue teorie liberare gli uomini dalle superstizioni. Il filosofo di Ferney alla sua domanda se pensasse che gli uomini sarebbero stati così più felici, non aveva trovato la replica. Il governatore e gli altri ospiti stupiti di sentir nominare colui che era anche grande amico e corrispondente privilegiato di Federico II di Prussia, ammutoliscono e il padrone di casa che non aveva molto da dire su Voltaire, con un vero «coup de théâtre », riconduce la conversazione su un terreno a lui conosciuto e pensa di tendere un trabocchetto al così disinvolto Cavaliere, riportandolo a un argomento scientifico legato alla città.
Von Lehwaldt chiede a Casanova se abbia avuto modo di fare già un giro in città e accorgersi che il fiume Pregel, su cui sorge Königsberg, ha una piccola isola che è connessa al centro della città da sette ponti che bisogna attraversare per connettere i quattro territori separati su cui essa si sviluppa. Casanova accetta la proposta di fare questa perlustrazione e, chiedendo chi voglia accompagnarlo, trova Kant pronto ad accettare il suo invito, ma ecco che arriva la trappola che lì al tavolo tutti già immaginano. Sarà Casanova, conosciuto anche per i suoi «talenti scientifici», capace di attraversare i sette ponti percorrendoli una volta sola? Molti, spiega il governatore si sono appassionati all’enigma senza riuscire a risolverlo, nemmeno il famoso matematico svizzero Eulero che ne aveva fatto un problema matematico dimostrando che era irrisolvibile. La moglie del governatore, dopo che la proposta del marito era stata accettata, chiede a Casanova di raccontare la sua fuga dai Piombi, la cui fama era arrivata fino a Königsberg. Naturalmente, dopo essersi fatto un po’ pregare per aumentare la ‘suspence’ del racconto e della sua messa in scena, egli accetta e recita ancora una volta quello che rimane il ‘pezzo forte’ della sua vita avventurosa, lasciando tutti ammirati, stupiti, ma soddisfatti di avere assistito a un vero spettacolo dove la conclusione è il verso dantesco«e quindi uscimmo a rivedere le stelle».
Casanova aveva nella città baltica un problema da risolvere, quello dei sette ponti della città e una passeggiata insieme a Kant per percorrerli insieme. Il pensiero, però che più gli passava per la mente come una preoccupazione, era un altro: come trovare i soldi per il viaggio fino a Riga e poi a San Pietroburgo, visto che aveva sperato di vincere una partita a Faraone in cui era maestro, ma il tempo del pranzo era passato troppo velocemente nel racconto della sua performance avventurosa. Pensa allora che quell’ometto piccolo, ma simpatico, dai penetranti occhi azzurri possa servirgli alla scopo. Il Magister lo segue nella passeggiata di perlustrazione dei ponti, un po’arrancando a causa della notevole differenza di statura e soprattutto per la falcata del suo passo molto più breve di quello del veneziano; questi dopo avere percorso più volte i ponti, purtroppo, si rende conto che deve sempre riattraversare di nuovo almeno un ponte. Ritornato alla locanda convoca il suo servitore Lambert che sapeva essere bravo nei calcoli matematici più che nelle faccende domestiche e gli chiede aiuto. Su di una mappa di Königsberg prestata dal locandiere passano insieme, Casanova e Lambert, tutta la notte assorbiti instancabilmente dalla ricerca della soluzione del problema dei sette ponti, già affrontato da Eulero senza soluzione ( ma che originerà «la teoria dei grafi» a fondamento, molto più tardi, anche nello sviluppo delle reti informatiche). Alla fine Casanova si rende conto che il problema è sì irrisolvibile, ma può anche dimostrare perché, prendendo la sua rivincita anche su Eulero.
Esce dalla locanda portando con sé lo schizzo della dimostrazione e soprattutto pensando come trasformare la sua opera in moneta sonante, il suo problema del momento. A poca distanza dalla locanda si accorge che c’è un teatro dove va subito a curiosare per scoprire quale sia lo spettacolo che va in scena. Certo si tratta di un edificio modesto che non regge il paragone con i meravigliosi teatri veneziani dove è cresciuto, ma, comunque interessato, entra e si informa sul prossimo spettacolo, scoprendo che si tratta di una pantomima ispirata al mito di Pigmalione su musiche di Rameau. Dopo aver completato il giro del teatro decide di tornare per lo spettacolo, sicuro di incontrare il governatore e i suoi ospiti a cui avrebbe potuto illustrare il lavoro notturno sui ponti di Königsberg fatto con Lambert che naturalmente ignorerà nella sua discettazione; così come di lì a poco avviene. Casanova che stringeva in mano lo schizzo con il percorso dei ponti e le sue conclusioni, avvicinato dal gruppo, con il suo ineguagliabile charme sempre usando le arti di abile conversatore, poté spiegare il perché dei risultati raggiunti, ricevendo da tutti molti complimenti per il breve tempo impiegato a individuarli. Dopo avere assistito allo spettacolo piacevole, ma nulla di più, Casanova si aspettava un invito per continuare la serata, magari a cena, ma i vari gruppetti di spettatori si erano già dispersi e si trovò nella piazza deserta solo, o quasi, perché l’unico che scorse accanto fu il Magister. Lo tormentava il pensiero di trovare denaro per poter continuare il suo viaggio e, a portata di mano, scorge la soluzione: avrebbe chiesto a lui un prestito. Fa cenno a Kant di attenderlo e intanto architetta un piano ben congegnato per arrivare all’intento. Dopo poco ricompare, comincia a interrogarlo sui suoi interessi di studio e di vita, risponde a sua volta alle domande del filosofo a proposito della libertà, conquistata con la fuga dalla prigione veneziana e su quelle che Casanova non esita a definire «le sue passioni», definendosi «amante di tutte le muse» e, citando ancora Dante, afferma di voler «divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valor». Il Magister, dal suo canto, interrogato su quale sia la stella che lo guida, ritenendo i segni zodiacali solo una superstizione, asserisce che si sente nato sotto il segno dei lumi e indica come suo epitaffio: «la morale nel cuore, le stelle nel cielo». È la famosa formula grazie alla quale Kant attraversando i secoli seguenti fino al nostro, ha trasmesso e condensato il pensiero illuministico per esprimere, in modo pregnante e sintetico, i valori più profondi dell’animo umano: la legge morale dentro di noi, il cielo stellato sopra di noi. Casanova non si lascia irretire dalla seriosità delle riflessioni luterane del filosofo, ma invece allargando le braccia dove Kant si rifugia in un abbraccio, lo invita a tornare in città dove la loro nottata deve ancora cominciare.
E qui, pian piano, prende forma, sotto la penna esperta e accattivante di Daniele Archibugi, «la notte brava di Kant e Casanova» di cui sveleremo solo l’essenziale per non far perdere al lettore il piacere di scoprire quanto l’autore, ispirato dall’astuzia di Casanova, ha inventato perché questo romanzo, un po’ racconto d’ispirazione storica, pur scritto da chi di filosofia se ne intende, è innanzi tutto opera dell’immaginazione.
Casanova coinvolgerà, con la sua intraprendenza e sicurezza, in una scorribanda inusuale quello che possiamo chiamare il suo nuovo amico, il Magister austero e riservato, proprio nella sua città che, a parte l’enigma dei sette ponti, offre inaspettati aspetti e insospettabili delizie. Infatti per la prima volta, grazie al Cavaliere veneziano, Kant potrà scoprire e abbandonarsi per la prima volta alla gioia dei sensi non senza che prima Casanova, durante il tragitto, lo metta a parte del suo bisogno di denaro per proseguire il viaggio chiedendogli un prestito.
Il testo di Daniele Archibugi ci pone all’inizio di fronte alla impossibilità di conciliare due visioni del mondo, frutto di modi di vivere diversissimi per scelte, percorsi, caratteri, opere e risvolti delle opere stesse nella loro varietà di ricadute nelle epoche successive fino ad arrivare alla nostra: Kant e Casanova, protagonisti-antagonisti, sembrano non potersi mai incontrare come rette parallele all’infinito.
Infatti ci aspetteremmo una schermaglia ideologico-filosofica dove i contendenti procedano invocando l’uno Kant, una rigida legge morale, vissuta nella consapevolezza di un cielo pieno di stelle che esiste e sovrasta nella sua pura bellezza e l’altro Casanova, esaltando l’immenso piacere di affermare la sua libertà, il godimento dei sensi, l’audacia di giocare sempre e con qualsiasi mezzo ed astuzia la partita della vita fino a ritrovare, vecchio, solo e malato, attraverso la scrittura de l’Histoire de ma vie, la gioia di riviverne i piaceri come se stesse provandoli ancora e ancora.
La raffinata architettura del piano narrativo dell’autore procede invece grazie all’invenzione e all’ originalità nell’accomunare queste figure emergenti ed emblematiche dell’epoca dei lumi nella, apparentemente impossibile, notte brava che vivranno insieme. Per la prima volta nella sua vita il Magister conosce ed assapora l’esaltazione dei sensi, ma non solo perché anche un sentimento d’amore improvvisamente comincia ad avvolgerlo e invece di abbandonarsi a fumose fantasticherie ha da pensare, da ricordare cose reali che gli hanno dato felicità, una sensazione mai provata prima dove, però, si mescolava il puritano timore che, tornando a casa, qualcuno possa averlo visto, compromettendo così la sua reputazione. Era tutto ciò di cui si sarebbe preoccupato prima … ma non allora. In questa mutazione di prospettiva è il maggior interesse del libro che umanizza il rigoroso e severo filosofo, sostenitore della razionalità e dell’etica, in cui quella vena malinconica che lo accompagnava prima durante le sue passeggiate, si è trasformata in euforia per cui sente di non dover più temere il peccato.
Dopo la notte brava trascorsa insieme, Casanova passa da Kant per riscuotere il prestito richiesto e, insieme alla disponibilità del Magister, si scontra (trova davanti) con la grande fragilità di un uomo solo di fronte alla rivelazione della complessa verità della vita reale, allo sconcerto di chi ha conosciuto soprattutto come «ponte di comando della sua esistenza, la scrivania» (p.100). E in fondo, sottolinea Archibugi, il veneziano che vive invece in stato di accelerazione la sua vita trascorrendo senza sosta il tempo che velocemente lo avviluppa senza accorgersene, avverte la stessa percezione di solitudine, anche lui è solo. Qui i due personaggi non più antagonisti raggiungono in un mutuo abbraccio quella «coincidentia oppositorum» che solo la letteratura può operare. Nel loro incontro grazie al racconto, narrato con fluida originalità in stile sobriamente elegante, da Daniele Archibugi esso diventa possibile. Kant e Casanova, due cittadini del mondo, paradigmatici esponenti delle due anime del ‘700, uno con la lucida razionalità temperata dalla natura, dal mistero del cielo stellato e l’altro con la ricerca anche «selvaggia» della libertà che ha amato più di tutto anche della donne, l’abilità nella conversazione, nell’apparire per appagare le proprie passioni sulla scena permanente della sua vita, entrambi in queste pagine diventano paladini per noi lettori di un messaggio di cosmopolitismo realizzabile, come è negli auspici dell’autore di questo libro, lezione preziosa per una speranza che, nonostante le esplosioni di odio e le bufere di guerre, il nostro mondo, oggi, è necessario debba conservare e proteggere.
SIPARI APERTI
“Totologi di tutto il mondo unitevi!”: un libro per riguardare Totò
di Annamaria FERRENTINO

“Totologi di tutto il mondo unitevi!”: un libro per riguardare Totò
Avvertenza per i lettori: se intendete iniziare la lettura del volume di Maurizio Rossi dedicato a Totò, oggetto di questa recensione, contemplate l’insorgenza possibile di una forte necessità di riguardare una buona parte della filmografia dell’attore. Nel mio caso, la visione di Totò a colori (1952) ha messo in attesa la lettura per circa 90 minuti, ripresa in seguito con corroborata curiosità. A dire il vero, la stessa scrittura di questa mia recensione è stata intervallata dal bisogno di ammirare ancora alcune scene dell’arte comica salvifica di Totò. È un invito che ricorre nelle pagine di Rossi in incipit o come chiosa delle riflessioni sull’artista: “è da vedere, non si può descrivere” (p. 44) o ancora, “bisogna vederlo, mi pare ovvio” (p. 75). Le sue dichiarazioni sui limiti dell’uso esclusivo dello strumento critico (“Senza un’attenta visione dei suoi film, da un libro non si può capire nulla della sua arte comica”, ibid.) si inseriscono in un discorso che si rivela, al contrario, particolarmente efficace per la sua acutezza e alla cui base c’è un’appassionata e attenta visione della filmografia di Totò.
Maurizio Rossi nutre un’ammirazione profonda nei confronti dell’attore e una fede nel potere aggregante della sua arte, capace di creare legami in nome dell’adesione ad un “culto” (p. 15). Tale elemento traspare dalla struttura del volume: la centralità affidata alle citazioni è volta a creare complicità con il lettore e ad instaurare un’atmosfera di gioco che non vuole dimenticare il gusto della risata, riflettendo sui modi per “patire il piacere di Totò” (p.16). Il titolo del testo, infatti, è lessico dell’attore, Fa d’uopo, così come molti dei sottocapitoli che lo compongono, tra cui Modestamente io la circolazione ce l’ho nel sangue, Ai postumi l’ardua sentenza, o ancora, Siamo d’accordo. Come le citazioni, anche i contributi riuniti nel capitolo sette sono una testimonianza della filmografia di Totò come collante sociale: attori, docenti e artisti, come Franco Buffariello, Claudio Spadaro e Francesco Cento, amici dell’autore in nome di una fede condivisa.
Nel libro, edito da Dante&Descartes, Rossi propone una lettura del genio comico di Totò in una ricostruzione della sua poetica. Forte della sua formazione filosofica e dell’attività di docente, l’autore delinea un vero e proprio sistema di pensiero. Totò nel testo è prima di tutto un pensatore, di qui l’attenzione che viene riservata alle sue dichiarazioni: appunti, racconti autobiografici o articoli (Due mamme e un comico, Siamo uomini o caporali. Diario semiserio di Antonio De Curtis). Ancora una volta, Rossi ci invita a ritornare ad una fruizione non mediata dell’attore napoletano. La peculiarità della comicità di Totò risiederebbe, per l’autore, nella confutazione delle individualità, nella dissacrante messa in rilievo del ridicolo dell’umanità articolata in ruoli fissi e nutrita di certezze e vanità. La maschera di Totò “irrompe nella scena quasi con ebbrezza dionisiaca e sconquassa la logica su cui si regge la commedia della vita quotidiana” (p.60). In tal senso, la principale declinazione della poetica risiede nell’aspetto linguistico. Viene ripresa due volte nel libro una citazione di Montesano (Lettori Selvaggi, Giunti, 2016), nel capitolo quattro e nell’introduzione a cura di Raimondo Di Maio, in cui si legge: “Totò non ha una lingua personale, ma una lingua parassitaria che si installa nei luoghi comuni della lingua altrui e li devasta […] (p. 6; 109)”. Lingua e corpo sono il fulcro del capitolo sei: Quisquiglie e pinzillacchere, che coglie lo stile dell’attore, descrivendone (anche se “descrivere è difficile”, p. 118) i gesti, la grammatica e le peculiarità delle sue capacità espressive. Qui, la gran parte della filmografia viene passata in rassegna, raggruppata per tematiche, per espedienti comici o gestualità affini.
Parallelamente all’indagine sulla poetica e sull’arte interpretativa di Totò, una sagace pars destruens si sviluppa lungo tutto il testo. La bibliografia critica sull’attore napoletano negli anni è diventata sempre più fitta e si è arricchita di testi cruciali per la sua rivalutazione, tra cui Totò: l’uomo e la maschera (Feltrinelli, 1977) di Goffredo Fofi e Franca Faldini oppure il celeberrimo Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano (Bulzoni, 1987) di Meldolesi. Tuttavia, Rossi non manca di individuare le falle, i fraintendimenti in cui la storiografia sarebbe caduta. Smonta e subito dopo propone. Fuorviante sarebbe per lui, ad esempio, l’accostamento dell’attore con le avanguardie artistiche, ancor meno con la marionetta teorizzata da Craig, la cui disumanità sarebbe totalmente estranea. In particolare, Rossi si riferisce alla teoria, avanzata da Scuriatti, di Totò come “maschera inconsapevole delle avanguardie” (M. Scuriatti, E io lo nacqui. Totò, o l’arte della commedia bassa, Milano, Bietti, 2015). Ancora, l’autore è in disaccordo con la fortunata parentela proposta da Fofi tra la maschera di Totò e quella di Pulcinella. Lo esprime senza timori o attenuazioni. Sintomaticamente, la questione viene affrontata in un paragrafo dal titolo Ma mi faccia il piacere!, che esordisce in questo modo: “A mio parere, paragonare Totò a Pulcinella e parlare di lui come di una marionetta, sono quasi due offese nei confronti delle quali viene spontanea la sua battuta di cui sopra” (p.89).
Leggendo Fa d’uopo si ha l’impressione di sedersi accanto ad un Totologo, un fine conoscitore dell’attore, capace di confrontarsi col già detto e di consultare la sua filmografia per continuare a cercare risposte, pur consapevole dell’impossibilità di giungere ad una conclusione pienamente esaustiva. Rossi, parlando del proprio libro, scrive: “La mia intenzione non è quella di spiegare Totò agli altri in base a ciò che ritengo più adeguato. Il presente lavoro non vuole dare un’impostazione o una pretesa “storico-scientifica”; piuttosto ho cercato di spiegarlo a me stesso […]” (p. 16).
Adesso, se permettete, devo andare. Ho voglia di rivedere un film di Totò.
COME SUGHERI SULL’ACQUA
Quando il POP tenta la Poesia stampata in un libro
di Ariele D’AMBROSIO

Levante
Opera Quotidiana
Rizzoli, Milano, 2024,
Pagine 204
Euro 20,00
Info:
https://it.wikipedia.org/wiki/Levante_(cantante)



Quando il POP tenta la Poesia stampata in un libro
per Opera Quotidiana
Quando il POP tenta la Poesia stampata in un libro. Così comincio, e con la speranza di non essere POPpizzato, POPpante, POPpato e pappato da ciò che non è popolare, ma che il mercato editoriale spinge come possibilità collaterale alla canzone. Perché Claudia Lagona in arte Levante è una cantante di quel mondo, anche scrittrice si è detto – vedi nota a fine libro –, e così leggo di Alessia Tripodi sul Sole 24 Ore cultura libri: “dopo 5 album e 3 romanzi, la cantautrice torna con un progetto in bilico tra arti visive e scrittura. Un diario quotidiano dove le notizie ritagliate per due anni da 4.180 giornali diventano versi poetici ai quali si affiancano dipinti, collage, pensieri.”.
Mercato editoriale, dicevo, sottolineato dal fatto che a pagina 199 di questo libro vengono elencati i giornali cartacei e prestigiosi dove l’autrice è stata già recensita.
Levante è una persona molto intelligente, e con canzoni anche attente alle storie che si vivono e alla Storia che ci circonda. Ma in questo libro “d’insieme” come si è subito detto e scritto, i testi che si sviluppano, tra descrizioni e introspezioni, troppo spesso oscillano tra la banalità della forma e la speranza della grafica.
Intanto è un libro che mi ha molto incuriosito per la mia passione che si è sempre divisa tra poesia e canzone, tra testi di poesia e testi di canzone, dove il “poetico”, come aggettivazione di poesia, è altra cosa dalla poesia stessa che ha la sua τέχνη specifica anche se assai diversificata e fluida, pronta a cambiare e ricercare tra tradizione e innovazione, mentre è possibile attribuirlo al testo di canzone che per esserlo si deve sempre “piegare” agli accenti e alla sillabazione di una melodia musicale.
D’altronde la diatriba è antica e come scrive di chi scrive, Vittorio Coletti ci fa sapere che Se i poeti volgari erano riconosciuti come tali solo con riluttanza (il titolo si riteneva spettasse solo ai poeti in latino), sarà forse perché, come Mico, all’inizio avevano un po’ la funzione di servizio che oggi chiameremmo del paroliere? Lo pensa Luca Zuliani che scrive: è spesso «apparso come l’attività di rimatore del Medioevo si ritrovi vicina, a volte coincida, con l’attività di chi oggi, con le dovute differenze, chiamiamo paroliere: colui che scrive testi in funzione di una melodia». Mentre Giulio Rapetti in arte Mogol – per evitare la frustrazione di sentirsi paroliere ed avvicinarsi alla vanità di sentirsi poeta –, ha trovato l’escamotage di farsi dire autore, lasciando sul mio orbicolare delle labbra un sorriso tenero e accomodante.
Per non dire poi anche della deriva della poesia stessa, di quando già nell’81 Franco Fortini parlava di «legioni poetiche», e che io stesso ho definito, nel mio tempo, facitori di righi in successione, i cui “versi” «cessano di essere segno e diventano sintomi».
Ecco, Levante ha già innescato dentro di me tutto questo, mentre penso a Carmen Consoli, Fabrizio De André, Ivano Fossati, Paolo Conte, Samuele Bersani, Francesco De Gregori, Roberto Kunstler, Lucio Dalla e Paola Pallottino, Fabi Fibra, il caro Francesco Guccini che con grande sincerità e autenticità smitizza polemicamente le pretese “poetiche” (e pragmatiche) della canzone. Oggi che si è dato il premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan come fosse un trobadore occitano, e senza che ci sia, per la dinamite fatta buona, un premio alla canzone, e perché no, questo sì necessario ma non ancora inteso e codificato.
Tutto ciò pur sapendo che i confini tra poesia e canzone si possono autenticamente incrociare, a volte, ma solo a volte, persino fondersi, oggi che i testi si scrivono sulle melodie e non viceversa, tanto per ricordare con Salvatore Di Giacomo molti altri poeti illustri di quel tempo. Anche se qualche “aggiustamento” delle note sulle parole può sempre avvenire o capitare, così come nel cantautorato una certa contemporaneità tra parole e musica.
Ma subito degli esempi che trascriverò dai vari capitoli. Il primo: «ECCO IL NOSTRO NOIR ESISTENZIALISTA / SUPERSTITI / LIBERI DAL FASCINO DELL’ABBANDONO / OGGI NON CI PARLIAMO PIÙ / DICE / «TROPPI OSTACOLI DA SUPERARE» / MA TRA NOI CI FU – UN INCANTESIMO / E – I – RICORDI / NON HANNO SMESSO DI URLARE / MEGLIO CONTROLLARE – IL TELESCOPIO SPAZIALE / PER – SAPERE / SU – CHE – PIANETA – SIAMO – FERITI / RINUNCIO A TUTTO / MA – NON – ALLE PAROLE PER DIRLO // ADDIO ALBA». Ho usato il maiuscolo per trascrivere queste stringhe ritagliate dai giornali ed incollate, e i trattini per parole e lettere separate nella stessa riga, non potendo copiarne tipi e corpo.
Il libro è composto da sei capitoli introdotti da collage-copertine: Alba, Mattina, Meriggio, Tramonto, Crepuscolo, Notte. Ogni capitolo contiene “poesie-stringhe”, dipinti che – come in copertina – a mio avviso esprimono una staticità cristallizzata, con colori postmoderni, che li fanno tra pubblicità e fumetto, anticipando, quando appaiono, lo “scritto” della pagina che segue. Quando invece sono assenti, sulla pagina pari di sinistra compaiono sempre dei righi in successione, una sorta d’introduzioni minime in stampatello scritto a mano con cerchietti e sottolineature di colore rosso, come a presentare ciò che viene dopo sulla pagina dispari di destra. Li trascriverò tra virgolette alte e in bold: “Su che pianeta siamo finiti (cancellato con due righi rossi) feriti? (cerchiato in rosso) / Sei stato tu a dire della distanza / eppure ti ho sempre visto a / un millimetro da me.”. Tutto questo per 202 pagine.
Chi ascolta canzoni e ne impara i testi a memoria per vociarli in massa ai concertoni di piazza, gridando e piangendo, farà altrettanto con le “poesie” di Levante? Certo le melodie, la voce, l’arrangiamento musicale, supportano le frasi in qualche modo. La poesia che cerca la propria cifra escludendo questo supporto, si fa autorevole ed anche aristocratica – l’aristocrazia del sapere per dare e non altro –, ma non è questo il caso.
Ancora: “Cosa c’entra / l’esigenza creativa / con il mercato? / Nulla, non centra nulla (con il secondo nulla cerchiato in rosso)” per «IL DESIDERIO DI ESSERE / DIVI / IN UN OLIMPO / CHE – NON – LASCERÀ IL SEGNO / I MISTERIOSI TALENTI / SENZA – VALORE / L’ARTE – IN GARA / PROFONDA – COME – UNA – FOGNA / ESISTE? / ESSERE CIÒ CHE SI È, DIRE SOLO CIÒ CHE SI SA: / LA MIA CREATIVITÀ – OPERAIA / E – IL PRIVILEGIO / DI ESSERE SNOB». Pur condividendone il concetto ho l’impressione che si nasconda l’ossimoro: scrivere ciò che non si fa, dire ciò che non è.
Ma è bene che si dia una scorsa veloce alle poetiche di riferimento, per capire il tempo di retroguardia che questo libro esprime: il tempo dell’ora che già è stato. Dalle avanguardie storiche col Futurismo e il suo splendido Francesco Gangiullo, e già in Francia con Stéphane Mallarmé e il suo “Un coup de dés jamais n’abolira le hasard”, Guilaume Apollinaire con i suoi “Calligrammes”, Tristan Tzara, Hugo Ball e il movimento Dadaista, alle neoavanguardie col Gruppo ’63 che già praticava il montaggio delle stringhe testuali e il collage, e ricordando nomi come Nanni Balestrini, Adriano Spatola con la sua “poesia totale”, Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani, e per il Gruppo 70 Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, e senza dimenticare poi i nostri Stelio Maria Martini e Luciano Caruso per la poesia visiva, verbo visuale, concreta e sonora. Così come non posso non ricordare anche Wiława Szymborska, già premio Nobel per la letteratura nel 1996, con i suoi “ritaglini” come lei li ha chiamati, che sono anche biglietti di auguri per amici e conoscenti cari e che lei ha introdotto come collage nei sui scritti di poesia in una dimensione metasemantica che sottolinea e dà forza maggiore alle parole.
In questa sintesi estrema non vado oltre nei confini ristretti d’una recensione. Ed è per questo retroterra illustre ed ampiamente storicizzato, che all’interno dell’essere epigoni, anche di buon livello, è necessario intravedere almeno un’autenticità riconoscibile espressa nei dettagli formali al di là dei contenuti emotivi. Per questo, quando accade, non è possibile non sottolineare l’epigonia, non quella che non trova riferimenti sostitutivi di caposcuola, ma piuttosto quella di un coma artistico che si silenzia nel decesso e nella sparizione.
Se solo andiamo a vedere sul web, quanti “autori” – e non dico poeti – si sono cimentati nella poesia verbovisuale con i ritagli di giornali, si rischia di affogare sulle isole di plastica inquinanti nelle profondità degli oceani.
Quindi c’è un’antica tradizione che sperimenta forme che in un certo modo si possono definire di transizione tra le arti, di commistione, di multimedialità e che si spera l’autrice ne sia stata consapevole per cercare, all’interno di queste, la sua cifra, la sua caratteristica, il suo stile, e non solo la visibilità che il mondo pop, in accordo con le politiche editoriali, le dedica e le costruisce.
Questa di Levante è una voce troppo flebile, trita e ritrita che si rifà oltretutto a delle poetiche che hanno dato molto e che per questo restano già di per sé agrumi spremuti dove trovare con molta difficoltà le ultime gocce che possano dissetarci in queste estati torride.
Non a caso prende sempre più piede, e già da tempo, la video-art, aggiungo “retroilluminata”, dove poter cercare ponti con la ricerca in poesia, sebbene si possa parlare non di letteratura ma d’”informaticura” – cura dell’informe? – per una τέχνη informatica e non letteraria.
Ma torno da Levante cercando disperatamente qualcosa che può dirmi e darmi: “I pronostici sulle vite. / Gli esseri umani sanno essere / molto stupidi.” per «LUGLIO TORRIDO / ARRIVA UN VENTO / IN PUNTA DI PIEDI / SOTTO L’ACQUA / LA NOSTRA DANZA / È SPARITA NEL NULLA, / CI DAVANO PER MORTI / MA A ME VENIVA DA RIDERE / HO FATTO ANCHE / UNA SCOPERTA // LA SCOPERTA DELLA FRAGILITÀ»; ed ancora correndo nella Notte: “Devo andare.” per «NELLA – CITTÀ DEL FARE / PER LE STRADE DI NOTTE / DAI CONTORNI SFUMATI / I MIGLIORI / UN INCONTRO DAVVERO STELLARE / MI CONQUISTÒ CON LE PAROLE / IL VINO, I LIBRI E L’ARTE / NOI, – DUE DISASTRI PER NIENTE NATURALI / RINNEGATI, PROIBITI, PERDUTI / POTREI INNAMORARMI – E POI? / TORNO CON I PIEDI PER TERRA / SENTO IL PESO – DELLE – ALI / SPIEGARE ANCHE L’INSPIEGABILE / NON ÈSTATO IL BUIO, MA LA LUCE». Sarà qui la sintesi degli antichi telegrammi dalle striscette gialle? O il pudore o l’invettiva di uno scritto anonimo?
Solo in un momento mi sono intenerito tornando nel Mattino: «… LA SOLITUDINE / L’ANELLO DI CONGIUNZIONE / DEL BENE SI SIGILLA …». Ma Levante avrà letto di quell’anello che si fa centro e così dice? «… talora ci aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da sbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità. / Lo sguardo fruga d’intorno, …».
Napoli giugno 2025