GUIDA GALATTICA PER I LETTORI | SETTEMBRE 2025

AMICO ROMANZO

Un romanzo per emozionarci

di Mario DI GIOVANNI

Marosella Di Francia, Daniela Mastrocinque, Cuore di corallo, Milano, Giunti, 2025

Un libro da mettere in evidenza per poi dare ad esso meritata priorità di lettura e arricchirci così di emozioni di cui abbiamo sempre bisogno? 

Suggerisco il romanzo fresco di stampa delle due affiatate e vincenti scrittrici napoletane Marosella DI FRANCIA e Daniela MASTROCINQUE, destinato a un altro sicuro successo: Cuore di corallo, che ho letto con molto coinvolgimento, dopo aver goduto in precedenza per altre due opere scritte sempre in tandem.

Mi riferisco a La donna che visse nelle città di mare che ha scalato la hit parade delle vendite e Amiche di penna, il romanzo epistolare di Anna Karénina ed Emma Bovary davvero geniale.

Veniamo allora a noi. In premessa ricordo che dal 900 il romanzo deve fare i conti, e non tutti li sanno fare, con almeno due dati che hanno modificato la narrazione e in modo non secondario. 

Innanzitutto cambia la nozione di tempo, si recupera infatti quello della vita contrapposto a quello della scienza di positivistica memoria; e poi c’è la scoperta della microstoria, quella dei ‘marginali’ da incastonare nella macrostoria dei grandi eventi, dei protagonisti illustri.

Faccio solo due esempi. 

Alla ricerca del tempo perduto di Proust, scritto tra il 1913 e il 1927, valorizza il tempo della vita che gli studi coevi di Bergson avevano portato alla ribalta, con amori, passioni, pranzi, desideri colti dalla memoria nelle trasformazioni, nei cambiamenti di prospettiva della propria vita e di quella di chi amiamo.

E quasi negli stessi anni Brecht inoltre con il suo teatro e con la famosissima poesia Domande di un lettore operaio, indica mirabilmente il cambio di prospettiva: dalla macrostoria alla microstoria appunto.

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?

Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.

Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?

[…] Roma la grande

è piena di archi di trionfo. Chi li costruì?  

[…] Cesare sconfisse i Galli.

Non aveva con sé nemmeno un cuoco? […]

È una vera e propria rivoluzione culturale, copernicana direi, che alimenta di conseguenza la psicologia collettiva, la sensibilità e la mentalità religiosa, la conoscenza di uomini comuni e della loro vita quotidiana: affiorano così i ‘marginali’ che in passato non erano stati considerati degni di attenzione, cioè le donne, i contadini, i lavoratori, i poveri e il loro affaccendarsi per sopravvivere, e ne viene dunque il passaggio dalla macrostoria alla microstoria. 

La storia siamo noi, insomma: la celebre canzone di Francesco De Gregori, composta dal cantautore romano nel 1985, fa comprendere che la Storia è fatta dalle persone semplici, sconosciute, uomini e donne che lottano e si impegnano per ottenere un futuro migliore

Ed è proprio questo il primo grande merito di Cuore di corallo: il romanzo riesce con una scrittura chiara e appassionante a coniugare la ‘grande storia’, la storia dei grandi eventi, con la microstoria di persone, donne in particolare di tre generazioni, senza le quali, come ormai sappiamo o dovremmo sapere tutti, la macrostoria è priva di senso vitale, è pagina morta.

È ciò che accade proprio in questa nuova e coinvolgente saga familiare nata dal talento delle brave autrici, che si apre a Napoli nel 1943, quando molti napoletani insorsero contro i nazisti invasori: sono le famose Quattro giornate di lotta, quattro giornate per vincere.
Fu un’insurrezione popolare con la quale, tra il 27 e il 30 settembre di quell’anno, durante la seconda guerra mondiale, la popolazione civile con la forza della disperazione riuscì a liberare la città dall’occupazione delle forze della Wehrmacht.
Il moto valse a Napoli il conferimento della medaglia d’oro al valor militare e consentì alle forze Alleate, al loro ingresso a Napoli il 1º ottobre, di trovare la città già liberata dai tedeschi, grazie al coraggio e all’eroismo dei suoi abitanti ormai esasperati e ridotti allo stremo per i lunghi anni di guerra. Napoli fu così la prima tra le grandi città europee a insorgere con successo contro l’occupazione tedesca.
In un contesto storico tanto drammatico, tra i bombardamenti sulla città e la feroce occupazione nazista, e mentre la città sotto il Vesuvio stava insorgendo, la moglie di Alfredo Manfredi, Elena, madre di due gemelle nate da poco, Maria Sole e Annaluna, viene caricata dai tedeschi su una camionetta e sparisce. Nonna Angela porta con sé le gemelline a Torre del Greco per prendersene cura, continuando a mandare avanti con dedizione e impegno la sua impresa di lavorazione del corallo.

E proprio in questo macro contesto si fanno largo pagine toccanti come quelle che narrano la vita quotidiana delle corallare di Torre, città che per parecchio tempo ha ruotato intorno alla lavorazione del corallo, un bene davvero prezioso.

Ti pare di vedere (ah la forza della scrittura!) in dettaglio il trattamento del corallo e insieme l’incredibile solidarietà tra quelle donne, di cui è intessuta la vita sociale ricamata intorno all’economia di questo incantevole organismo, duro ma poroso tanto “che possa entrarvi amore, se amore c’è”.

Forse il paziente lettore sta andando con la mente e con il cuore a quel suo oggetto impreziosito dal corallo in bella mostra nella vetrina di casa, come in tante abitazioni campane; ricordo anche nella mia un oggetto d’oro decorato col corallo realizzato proprio a Torre e di cui nulla più ho saputo (“E’ stato rubato”, mi fu detto un giorno senza commenti, ignaro lui delle mie lacrime nascoste in fretta). 

Gli anni passano. La Storia passa ancora per Napoli. Sono le 16:39 del 2 luglio 1963. L’elicottero di John Fitzgerald Kennedy, 35° Presidente degli Stati Uniti, atterra nella base NATO di Bagnoli. Ad accoglierlo Antonio Segni, Presidente della Repubblica Italiana, e Giovanni Leone, Presidente del Consiglio. A bordo di una Lincoln scoperta, Kennedy col suo largo sorriso attraversa la città di Napoli circondato da una folla festosa e gioiosa che lo segue fino all’aeroporto di Capodichino. Lì il Presidente USA nel congedarsi dice: “L’accoglienza affettuosa di Napoli rende più triste la partenza, ma più felice il pensiero del ritorno”. 

Un ritorno che, sappiamo bene, non si realizzerà mai: il 22 novembre di quell’anno infatti sarà ucciso a Dallas e intorno a quella disgrazia restano tante ombre pur essendo trascorsi più di sessant’anni.
Durante questo avvenimento epocale Maria Sole e Annaluna scoprono quasi per caso che la storia della loro madre è molto diversa da come l’avevano sempre sentita raccontare: e si aprono nuovi orizzonti di tempo e di spazio.

È giusto inoltre sottolineare che di tutti questi grandi eventi la ricostruzione è molto accurata, tutto è fondato con cura sulle fonti studiate con attenzione e precisione per contestualizzare al meglio il quadro narrativo, arricchito per di più da ‘documenti’ familiari molto preziosi.

Queste solide performances delle Autrici rendono molto efficace anche il racconto della vita quotidiana oggi a Monaco come a Parigi, segnata quest’ultima ancora dai souvenir esistenzialisti della rive gauche,

Cos’altro aggiungere sulla trama del romanzo? Nulla, basta così, perché voglio lasciare al lettore la gioia di gustare ogni pagina anche quelle dove la vena thriller delle due Autrici ti tiene col fiato sospeso: la storia di Elena tra Torre, Napoli e la Baviera in realtà è andata davvero diversamente dalle apparenze di quel 28 settembre 1943, apparenze ben coltivate per anni nei racconti consolatori, dei sopravvissuti.  

Emozioni allora a valanga, che poi è quello che chiediamo sempre a un libro, emozionarci, specialmente se brilla e stilla amore come questo.


SIPARI APERTI

Le scritture del Grande Infante. Sull’opera-vita di Enzo Moscato

di Emanuela FERRAUTO

Le scritture del Grande Infante.Sull’opera-vita di Enzo Moscato
Guccini, Latella, Lezza, Moscato, Palumbo, Zanardi
 a cura di Claudio Affinito, Antonia Lezza, Matteo Palumbo, Maurizio Zanardi
Napoli, Cronopio Editore, 2025

Il volume pubblicato da Cronopio Editore a giugno 2025, grazie all’ infaticabile lavoro del direttore, docente e studioso Maurizio Zanardi, sembra rientrare all’interno di una serie di pubblicazioni che nel corso del 2025 e del 2026 ricorderanno Enzo Moscato e la sua scrittura. In realtà, come sottolinea lo stesso Zanardi all’interno della Premessa, il volume nasce da una volontà collettiva e da un confronto con Enzo Moscato, il quale era ancora in vita all’inizio dei lavori; questa pubblicazione diventa improvvisamente “postuma” a causa della morte del drammaturgo, ma anche dello studioso Bruno Moroncini, che avrebbe contribuito al progetto. Il rapporto con la presenza di Moscato persiste ed emergono inevitabilmente i momenti di confronto e di riflessione con il drammaturgo, che permettono al lettore di percepirne la costante presenza, dimenticando, quindi, che il volume inevitabilmente oggi è da considerarsi postumo. Solo il contributo conclusivo di Antonio Latella, su cui ci soffermeremo più avanti, si veste di una natura memoriale post mortem, assente invece all’interno degli altri contributi.  La natura di questo studio si definisce infatti, attraverso le parole di Zanardi, come un ringraziamento rivolto a Moscato ancora in vita. All’interno della Premessa, Zanardi sottolinea non solo il lavoro collettivo, ma cita il volume Archeologia del sangue, racconto in prosa firmato da Moscato, pubblicato anch’esso da Cronopio nel 2020, all’interno di un progetto che è rimasto incompiuto, in quanto il primo volume attraversa l’arco di tempo 1948-1961, in attesa di un secondo volume mai scritto. Archeologia narra parte della vita del drammaturgo, il quale ha attraversato un racconto che oscilla tra realtà, magia, finzione e tradizione. Zanardi afferma che questo racconto recupera le ferite nascoste, scava e ritrova in Moscato quelle “lacerazioni” da cui sgorga continuamente il sangue della scoperta e dell’invenzione.

Il volume Le scritture del Grande Infante, non a caso, parla di drammaturgia e di scrittura al plurale, analizzando, attraverso vari punti di vista, le metodologie, le sfaccettature, le origini e i modelli, le tradinvenzioni, della scrittura drammaturgica e narrativa di Enzo Moscato. All’interno di un volume di 195 pagine, leggero, quasi tascabile, ma che richiede una lettura attenta e ponderata, ritroviamo i contenuti di studiosi-amici che hanno seguito la produzione moscatiana sin dalle origini: Matteo Palumbo, Antonia Lezza, Maurizio Zanardi, Gerardo Guccini, Antonio Latella. Il ringraziamento costante va a Claudio Affinito, amico, guida e consulente di Moscato, che oggi possiede il grande archivio, edito ed inedito, appartenuto al drammaturgo. La curatela del volume è affidata non solo ad Affinito, ma anche a Lezza, Palumbo e a Zanardi. Oltre ai contributi degli studiosi citati, la preziosità di questo volume è caratterizzata dall’ultima sezione, destinata alle Scritture inedite di Enzo Moscato: Autodafè Primo (ovvero ‘Beckettiana’); Intorno a ciò che si dice Impossibile; Ricerche. Bibliografia minima e note. Anche all’interno di questa sezione parliamo di “Scritture” poiché si alternano momenti di drammaturgia, di riflessione filosofica, di appunti e di sviluppi teorici, firmati dallo stesso Moscato.

Il corpus principale del volume è caratterizzato dalle riflessioni puntuali degli studiosi citati ed è evidente che la linea di ricerca persegue un’analisi puntuale della scrittura e delle scritture moscatiane, cercando di sviscerare aspetti poco noti o approfondendo quanto già scritto all’interno degli studi più recenti. Ciò che lega tutti i contributi è il rapporto imprescindibile tra la scrittura moscatiana e le fonti, i modelli, gli autori del passato, i Maestri, attraverso un gioco di “vedo e non vedo” in cui il drammaturgo e narratore cita e nasconde, spingendo lettori e spettatori colti e attenti a ritrovare le fonti. Questo volume, dunque, emerge come guida che aiuta e aiuterà, in futuro, a decodificare con più attenzione la scrittura moscatiana; bisogna considerare, dunque, una scrittura artistica originale, ma con “archeologie” profonde che non possono essere trascurate affinché si comprenda il messaggio. 

Il contributo di Matteo Palumbo, dal titolo Conservare, ritornare, riscrivere, ricordare, apre il volume e presenta attraverso il titolo le tappe che affronta Moscato nella sua scrittura e gli obiettivi. Anche lo studioso parte dal volume Archeologia del sangue, affermando che «La vita passata è dissepolta come accade in archeologia e l’autobiografia che ne risulta è il referto di un viaggio nel tempo e nel sangue che della vita è simbolo» (p.11). Il racconto e le parole hanno una funzione taumaturgica e salvifica, perché raccontando salviamo i ricordi e diamo nuova vita ad avvenimenti ormai sbiaditi. Ecco perché Moscato non rivela confessioni, all’interno dell’autobiografia citata, ma, quasi cinematograficamente, ci guida a ritroso e ci trascina nei ricordi della sua mente, stimolando fortemente l’immaginazione del lettore che sembra ritrovarsi all’interno di quelle scene e di quei contesti. Palumbo sottolinea, infatti, che il viaggio verso il passato, in Moscato, non è fisso e rallentato, ma è in continua evoluzione, rispettando la mobilità della vita. Lo studioso affronta l’analisi dell’Archeologia del sangue, non solo da un punto di vista contenutistico – cita infatti il rapporto con Napoli, con il tempo, con la tradizione, con la figura della madre – ma soprattutto da un punto di vista linguistico, che appare una costante in tutti i contributi inseriti in questo volume. Una lunga sezione dello studio di Palumbo è dedicata al rapporto tra bambini, morte, sofferenza ed epidemia, elementi che ritroviamo costantemente anche all’interno dei testi drammaturgici moscatiani. Il riferimento evidente ad Artaud sembra costante ed emerge in tutti i saggi contenuti in questa pubblicazione. Lo studioso dedica il quarto paragrafo del suo contributo al recupero del saggio di Jacques Derrida, contenuto nel prologo de Il teatro e il suo doppio di Artaud e ne elenca schematicamente cinque punti fondamentali, allontanandosi apparentemente dal discorso su Moscato e guidando il lettore verso una riflessione sul testo e sul valore del testo nel mondo decadente. Al quinto paragrafo riprende il discorso su Moscato, soffermandosi in particolare sul testo Scannasurice, attraverso cui non solo riemerge l’analisi su tematiche come il male, la peste, la distruzione del mondo, ma ritorna anche sulla figura del topo, citata più volte all’interno di questo studio. Palumbo recupera i modelli apparentemente sepolti ed evidenzia un parallelismo tra il personaggio di Rosina, citata all’interno dei microracconti riportati dal travestito Scannasurice e il testo di Kafka, Giuseppina la cantante ossia il popolo dei topi. Si aggancia, così, anche al tema del canto che lo studioso ritrova ovviamente in Partitura, in Embargos, affermando che «Moscato, a sua volta, identifica la qualità peculiare del canto, e la sua genesi, in una condizione di pena, in uno stato di reclusione in cui chi canta si trova», ritrovando anche le riflessioni di Giacomo Leopardi nello Zibaldone.

Il secondo capitolo è firmato da Antonia Lezza, studiosa e profonda conoscitrice di Enzo Moscato, a lui legata da lunghissima amicizia. All’interno del titolo di questo contributo emerge la parola chiave degli studi condotti negli ultimi anni: Neapolis: lingua, carne, suono. Appunti sulla tradinvenzione. La tradinvenzione, neologismo coniato dallo stesso Moscato dal 2000, contiene in sé alcuni degli elementi fondanti delle sue scritture. Afferma Lezza: «Tradinvenzione è parola composta da tradurre/tradire e inventare/creare. È propria della sua maniera di scrivere il teatro: da un testo iniziale riscriverne un altro che possa riprendere alcuni elementi precedenti tramandandoli, reinventandoli secondo il suo stile e la sua specialissima scrittura, recuperando alcuni lacerti precedenti» (pp.39-40).

 L’argomento è stato affrontato dagli anni 2000 in poi ed è sempre stato uno dei temi fondamentali, trattati all’interno dei Seminari che Enzo Moscato ha tenuto presso il Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo dal 2012 al 2023. In questo contributo la studiosa inserisce ben otto analisi di testi teatrali moscatiani, costruendo un vero e proprio vademecum, un modello di riferimento per lo studio della scrittura di Moscato, utile anche ai giovani studiosi che si avvicinano all’analisi di questa drammaturgia. Il percorso proposto da Lezza si sviluppa attraverso due canali paralleli che uniscono storia del teatro e letteratura teatrale, inserendo riferimenti letterari e poetici. La studiosa sottolinea le precise differenze tra le traduzioni vere e proprie e le tradinvenzioni; i testi analizzati rappresentano tradinvenzioni da saggi, da un testo teatrale già esistente, da romanzi, dall’Opera. Il lavoro riportato dalla studiosa permette non solo di risalire al recupero del testo o dei testi fonte, ma mette in atto la collazione tra varianti di manoscritti e dattiloscritti, conservati presso l’Archivio di Persona in possesso di Claudio Affinito, o di alcune copie in possesso della studiosa. Moscato dunque opera per sottrazione, soprattutto sul palcoscenico: Lezza utilizza il termine “essiccatoio” per il testo destinato alla messinscena. Naturalmente non è possibile recuperare tutti gli elementi tratti dalla fonte, ma bisogna necessariamente “tradinventare” secondo il gusto e le volontà che mette in atto il drammaturgo. 

Il primo testo proposto è Signurì, signurì… , liberamente tratto da La pelle di Curzio Malaparte, romanzo caro a Moscato, di cui però stravolge la struttura e recupera elementi o ne ribalta la natura. Nel 1993 Moscato scrive La psychose paranoiaque parmi les artistes, tradinvenzione dal saggio di Lacan. Nel 2000, invece, scrive Arena Olimpia, pubblicato nel 2001, testo che raccoglie l’atto unico di Raffaele Viviani ’A musica d’ ’e cecate del 1928 e l’inedito Mirabilia Circus dello stesso Enzo Moscato. Fonde dunque un testo esistente e ne aggiunge uno inedito, da lui creato, sebbene la studiosa affermi che Mirabilia Circus sia nato dall’influsso con Circo Equestre Sgueglia dello stesso Viviani. Pertanto, in questa operazione Moscato lavora su due piani: da un lato riporta il testo originale, dall’altro mette in atto una tradinvenzione. 

Il quarto testo analizzato è Chantecler, datato 2001. Moscato definisce questo lavoro una traduzione e un riadattamento da Rostand, mentre nel testo a stampa, a cura del Teatro Stabile di Catania e del Teatro di Messina, viene definito una traduzione, riduzione, elaborazione e riadattamento di Enzo Moscato, regia di Armando Pugliese. 

Nel 2005 compare Disturbing ’a tragedy. (Schizo/Baccanti. Ovvero: Piscopatologia degli spettri euripidei, in margine al vivere odierno). Il lungo titolo, che si avvicina più ad un saggio rispetto ad uno spettacolo, nasce da un testo dattiloscritto di 46 pagine, con doppia numerazione, in alcuni casi. 

Il sesto testo analizzato è Le doglianze degli attori a maschera, del 2007, tradinvenzione dal Molière di Carlo Goldoni, lavoro che Moscato definisce libero adattamento scenico. Il lavoro scenico produrrà un prodotto ibrido, fortemente voluto da Moscato, che rielabora una struttura drammaturgica in assenza di didascalie originali

Il settimo testo è datato 2017, il famoso Raccogliere & Bruciare (Ingresso a Spentaluce). Le informazioni riportate all’interno del sottotitolo sono molto importanti: Traduzione e assemblamento per un’eventuale messinscena di passaggi poetici scelti dall’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters

L’ottavo ed ultimo testo riportato è il più recente Lacarmèn, che si collega alla novella di Mérimée e all’opera di Bizet. Il sottotitolo non cita la tradinvenzione, sebbene Moscato inserisca questo lavoro in questa categoria, ma cita Una metastoria napoletana. In questo caso il lavoro di regia è stato affrontato da Mario Martone, attraverso una collaborazione che ha sancito il successo di questo spettacolo. Questa veloce descrizione dei testi che Antonia Lezza ha esaminato puntualmente all’interno del suo contributo, forniscono la cifra di uno studio complesso e ricchissimo che viene rivelato solo attraverso la lettura attenta dell’intero capitolo che svela particolari inediti.

 Due dei contributi più estesi sono quelli firmati dallo stesso Maurizio Zanardi e da Gerardo Guccini. Il contributo di Zanardi, dal titolo Testi di godimento, citando Roland Barthes, affronta un’originale analisi della scrittura moscatiana attraverso una riflessione fortemente filosofica, che si collega alla formazione e professione del prof. Zanardi, ma anche alla formazione e alla prima professione di Moscato. Lo studioso si sofferma sugli aspetti innovativi delle scritture moscatiane, sul rapporto con la tradizione e sulla visione rivoluzionaria e meno conservatrice che richiede un grande sforzo al teatro e agli artisti. Questo saggio si sviluppa attraverso un discorso elegante che produce riflessioni meno artistiche, ma più vicine alla semiotica e alla filosofia. Zanardi si sofferma su quella natura rivoluzionaria del teatro di Enzo Moscato, attraverso cui il drammaturgo sfugge all’omologazione, alla specifica caratterizzazione e alle comuni catalogazioni. L’autore specifica alcuni aspetti ineludibili della scrittura di Moscato: il suo allontanamento dalle famiglie teatrali e dalla tradizione eduardiana, sebbene il drammaturgo abbia sempre affermato di non disprezzare Eduardo, sottolineando la sua diversa natura artistica e la sua differenza rispetto a quel repertorio. Zanardi aggiunge altri due elementi caratterizzanti, ossia lo studio della filosofia e l’amore per il pensiero di Lacan. Il concetto di orfananza è una delle chiavi interpretative del pensiero di Moscato e Zanardi ribadisce che il drammaturgo si inserisce, infatti, in quel filone di chi volontariamente si dichiara artisticamente orfano rispetto alla tradizione. Lo studioso sviluppa lungamente il concetto di rapporto con la tradizione, distinguendo tra tradizione tradizionale e interruzione della tradizione, riportando la riflessione sull’avvenire, cara a Moscato. Il teatro è qualcosa in divenire ed è qualcosa che tiene conto dell’avvenire, un moto di sorpresa e di rigenerazione che coinvolte anche i Padri. A tal proposito questo contributo approda al concetto di esplosione, che Zanardi confronta con gli esiti della trasgressione, evidenziando la potenza dell’esplosione nei testi di Moscato, rispetto alla banale e comune caratteristica trasgressiva attraverso cui vengono definiti i suoi personaggi e i suoi scritti: «diversamente dalla trasgressione che si mantiene intrinseca a ciò che trasgredisce, il teatro di Moscato fa esplodere gli stereotipi, la teatralità, rivela l’inconsistenza delle loro forme e strutture […]» (pag. 95). Di esplosione parliamo anche nel linguaggio moscatiano: il drammaturgo rifiuta, secondo Zanardi, la dittatura del significato, ma non raggiunge il non-sense o l’assurdo. Lo studioso parla di ab-senso, una mancanza che provoca l’accadimento, l’esplosione e, dunque, la rinascita. Forse è questo il senso delle riscritture e delle tradinvenzioni messe in atto e a lungo da Moscato. Perché dunque, Zanardi cita Barthes e definisce le scritture moscatiane come “testi di godimento”? Attraverso lunghe pagine, con una scrittura però sintetica e diretta, l’autore spiega che il godimento artistico che assaporiamo osservando gli spettacoli o leggendo i testi di Enzo Moscato, deriva da flussi narrativi interrotti da “isole”: frane o fratture che in verità destabilizzano lo spettatore. Fratture nella narrazione, sfiguramenti della lingua materna, isolamento e ripetitività ossessiva di alcune parole o concetti, mescolanza eterogenea di linguaggio e di lingue. Importante la descrizione proposta da Zanardi: «affermazione di una dissociazione, un “taglio”, una “perdita incondizionata”, una scossa, un riso non sadico, non fallico. Si tratta di incidenti-incisioni-intermittenze pulsionali, squilibri, ferite, vortici, eventi di scrittura che eccedono in modo incommensurabile il principio di piacere e lacerano la significatività del linguaggio, la “significazione”». (p.110).  Il saggio si conclude con un estratto, in cui Moscato commenta la sua esperienza e partecipazione ad un convegno critico – teatrale, tenutosi a Napoli, durante il quale Antonio Neiwiller definì pubblicamente Enzo Moscato «dimesso e feroce», descrizione che il drammaturgo assunse e amò, perché finalmente qualcuno lo aveva capito.

Il penultimo contributo di questo volume è forse quello più esteso: firmato da Gerardo Guccini, il saggio si intitola Moscato/Artaud: indagini su un dittico nascosto. Il lungo contributo di circa 40 pagine conduce il lettore e lo studioso lungo un’accuratissima indagine che dimostra come e quanto Moscato abbia assunto da Artaud. Anche Guccini recupera una serie di testi e di raccolte ed esplora ogni singolo riferimento artaudiano all’interno di questi scritti, ricostruendo un percorso di studio affrontato da Moscato nel corso di tutta la sua vita artistica. Guccini risale alla creazione della Quadrilogia di Santarcangelo e alla richiesta del direttore, Leo de Berardinis, di alcuni lavori. La Quadrilogia, dunque, non nacque come progetto d’insieme, ma come unione di alcuni lavori: nacque prima Mal-d’-Hamlé, con riferimento all’Amleto. Poi la richiesta si orientò verso Rimbaud e nacque Aquarium Ardent, poi Moscato stesso propose il riferimento ad Artaud con Lingua, carne, soffio e il suo amato Copi, dando vita a Recidiva. All’interno dei primi paragrafi di questo studio, Guccini analizza attentamente i quattro testi citati ed estrapola numerosi riferimenti ad Artaud, ricostruendo il lavoro creato da Moscato, approdando poi al paragrafo che caratterizza fortemente l’intero contributo presentato dallo studioso: l’intuizione nasce da uno scritto del critico teatrale Enrico Fiore che riconosce  all’interno di Lingua, carne, soffio alcuni importanti stralci del discorso che Artaud tenne al Vieux Colombier di Parigi il 13 gennaio 1947. Da questo suggerimento, Guccini inizia la ricostruzione a ritroso, affermando che Artaud, in quella occasione non lesse gli scritti preparatori, facendo cadere i fogli, in un moto di ribellione e di imbarazzo. Attraverso il saggio pubblicato da Enrico Fiore, in riferimento alla Quadrilogia di Santarcangelo, il critico parla dello spettacolo di Enzo Moscato, dal titolo Vita vissuta di Artaud l’Imbecille, drammaturgia per attore solista ispirata, appunto, alla Conferenza del Vieux Colombier. Il sottotitolo dello spettacolo moscatiano riporta «brani selezionati, tradotti, riassemblati e adattati». Il testo è datato 1996 e probabilmente Fiore ha visto questo spettacolo. La parte più importante del lungo contributo di Guccini conferma che lo studioso riuscì ad ottenere il testo inedito da Moscato, lo pubblicò sulla rivista accademica «Prove di Drammaturgie» dell’Università di Bologna. Dall’altra parte, i testi preparatori alla conferenza sono editi, pertanto lo studioso intraprende una lunga comparazione, fondamentale per comprendere il lavoro di rielaborazione e di rapporto tra Artaud e Moscato. Inoltre, Guccini mette a confronto il testo moscatiano con l’ulteriore testo Lingua, carne, soffio. Si sviluppano, quindi, una serie di relazioni e di frammentazioni che fanno capo ad Artaud, utilizzando testi non drammaturgici, per arrivare ad una complessa rielaborazione da parte dello stesso Moscato. Lo studioso approfondisce ancora e in un altro paragrafo analizza un frammento che Moscato individua nei testi preparatori alla conferenza e che Artaud non utilizzerò nel suo discorso pubblico; il drammaturgo napoletano, dunque, inserisce, utilizza questo frammento per dare inizio al suo testo, chiarendo che la conferenza parigina è solo un pretesto storico per dare luce al pensiero artaudiano. Secondo Guccini, dunque, Moscato recupera numerose tematiche trattate all’interno di questi testi preparatori e lo studioso riporta, con meticolosa attenzione, i frammenti a cui si è ispirato Moscato e da cui si traggono informazioni sulla vita e sul pensiero di Artaud. Guccini confronta dunque, all’interno di paragrafi ricchissimi, non solo i frammenti che Moscato ha inserito e rimaneggiato, ma anche quelli che ha tralasciato, risalendo addirittura ad un ulteriore riferimento che è il testo Un’atletica affettiva, da cui pare che Moscato abbia tratto ispirazione anche per Lingua, carne soffio. Numerose le tematiche, gli argomenti e le procedure di recupero delle fonti, che fanno di questo studio un esempio importante di analisi effettiva delle complesse scritture di Moscato.

In conclusione, prima dei testi inediti firmati dal drammaturgo, il volume riporta le parole di Antonio Latella. Il drammaturgo e regista descrive la conversazione con Maurizio Zanardi, rivelando i suoi dubbi sull’accettare la proposta di contributo a questo volume. In realtà il timore di fallire o di deludere Moscato, ai tempi in vita, blocca Latella dall’accettare immediatamente la collaborazione a questo volume. Attraverso quattro lettere immaginarie, vere e proprie pagine di un diario, Antonio Latella parla con Enzo Moscato defunto, durante l’estate 2024. L’artista svela che l’iniziale ritrosia nel partecipare a questo lavoro viene sciolta poi da Zanardi che comunica la volontà dello stesso Moscato nel collaborare con Antonio Latella a questa pubblicazione. Le lettere diventano un contenitore che racconta il rapporto con le scritture moscatiane attraverso uno sguardo da palcoscenico, o meglio, un approccio regalato da un addetto ai lavori: dalla semplicità dell’abbigliamento e del trucco in scena, al riferimento a Copi con l’allestimento del Frigo. Latella racconta la sua esperienza da spettatore, da giovane artista che assorbe la magia del teatro moscatiano, la potenza di un semplice frigo che si apre ed appare un essere bianco ed angelico, che lui definisce “Autore-Mondo”. I più fragili e i più sensibili, una compagnia elfica, così la definisce Latella, descrivendo i compagni di viaggio di Moscato in scena, quasi intoccabili e irreali. Uno dei momenti più toccanti è sicuramente la descrizione della visione dello spettacolo Rasoi, che Latella si ritrova per caso a vedere a soli vent’anni e che gli rivela un mondo artistico profondissimo. Proprio lui scrive, nell’ultima immaginaria lettera rivolta ad Enzo: «Fu per me un vero shock emotivo, e nello scriverti lo rivivo nonostante gli anni passati. Ora però lo comprendo pienamente, ora posso tradurlo. Ciò che mi sconvolse di più fu la potenza della tua lingua, quella lingua che è diventata per Te la vera ricerca del tuo essere artista prestato al teatro, il vero gesto creativo» (p. 166). Latella, come tanti altri, si sentono e si dichiarano debitori a Moscato per aver creato una nuova lingua teatrale.


COME SUGHERI SULL’ACQUA

La parola nata dal silenzio ha grandi margini bianchi

di Ariele D’AMBROSIO

Ingeborg Bachmann
Invocazione all’Orsa Maggiore
Milano, SE, 2002
Pagine 240
Euro 24,00

Info:
https://it.wikipedia.org/wiki/Ingeborg_Bachmann

La parola nata dal silenzio ha grandi margini bianchi

per Invocazione all’Orsa Maggiore

L’edizione è “SE” con la ‘E’ senza accento: “e SE?” Oppure: “SE fosse stato!” Ancora: “ormai sono tutti SE!” E restano dubbi anche irrisolti e irrisolvibili. Ma il merito del dubbio è quello di far riflettere. Il dubbio come antenna vigile in un tempo di propagande e di slogan come gergo usato per mascherare sé stessi e la realtà, e che – notava Giuseppe Pontiggia – «non consente al linguaggio di esplorare, di verificare e collaudare esperienze nuove e diverse», così come bene ci ha riferito Daniela Marcheschi. E il dubbio è un dato caratteristico anche della poesia, soprattutto della poesia.

“SE” è edizione sempre elegante, carta matta, corposa al tatto tra le dita, piacevole, da annusare più volte, calda, accogliente e con in copertina, Leggero, il titolo di un magnifico particolare di un quadro di Kandinskij, piccolo padre dell’astrattismo tra colori e geometrie. Leggero, come non è questo libro per la sua invidiabile complessità. Complessità; evviva dico, stanchi di leggerezze abusate per mascherare possibili, inutili e vacue vendibilità. Mercato impaurito e complessato dalla complessità invendibile e per questo ancorati, aggrappati a Calvino, svuotato di senso e di cultura, e alle sue “Lezioni americane”. E cosa dire oggi dell’America? Già Pasolini aveva capito molto, e tanto tempo fa! Complessità che fa del mio fare un percorso che tenta non solo di diffondere, ma di far entrare il lettore nel vivo della poesia contemporanea, in quella che è stata e in quella che, per nostra fortuna, ancora è, oscillando tra autori meno noti e più noti – purtroppo mai popolari, nel senso virtuoso di questa parola, e non come oggi la si piò intendere – tra italiani e stranieri tradotti.

Ma prima di entrare nel merito del nostro importante e affascinante poeta, Ingeborg Bachmann – ho preferito che la poesia resti al femminile ed il poeta al maschile in modo che restino insieme, evitando la querelle della poeta o della poetessa – mi si perdoni se prendo spazio sulla riflessione di cosa è una traduzione: altra importante complessità. Nelle precedenti recensioni ho sempre bocciato l’idea della traduzione come tradimento – abuso di questa parola non vera da attribuirle – ma piuttosto traduzione come Trascrizione (musica), Traslazione (Alberto Manguel), Dislocamento, Trapianto, Movimento, Emigrazione, Tradinvenzione (Enzo Moscato). Ed ora anche traduzione come sconcerto quantistico della sovrapposizione di due strati. C’è un brevissimo istante in cui qualsiasi traduzione sfiora la vertigine; l’inquietante incontro-scontro con un doppio delle stesse parole; … Una persona il cui libro è e non è ciò che lui sta traducendo in quel momento. E quindi dice a sé stesso che è possibile stare da soli e, al contempo, non esserlo. Così come ci scrive Irene Valljo parlando di Paul Auster e del suo libro “L’invenzione della solitudine”. E senza dimenticare che la traduzione è anche metafora. Metafora in greco e traduzione in latino sono la stessa parola (Alberto Manguel).

Perché dare tanta importanza a questo vocabolo? Perché il curatore di questo libro, il traduttore delle poesie di Ingeborg Bachmann è Luigi Reitani, che alla fine del libro ci regala, più che una postfazione, un ottimo ed esaustivo saggio intitolato Il canto sulla polvere, anche questo di ampia complessità, ma assai utile per chi volesse approfondire non solo questo grande ed illustre poeta, ma penetrare più a fondo nel fare, nella costruzione della poesia stessa.

Entro subito nel merito. Da Il gioco è finito, la prima poesia del libro, la quarta strofa che trascrivo sia in tedesco che in italiano: «… Wach im Zigeunerlager und wach im Wüstenzelt, / es rinnt uns der Sand aus den Haaren, / dein und mein Alter und das Alter der Welt / miβt man nicht mit den Jahren. …» diventa, per quanto già detto «… Desti nel campo di zingari e desti in tenda nel deserto, / scorre sabbia dai nostri capelli, / la tua, la mia età e l’età della terra / non si misura con gli anni. …», e già dai grafemi della lingua tedesca che non conosco, per questo grafemi, elt e ren, è possibile cogliere questa forma chiusa fatta di strofe di quartine in rima alternata – non so calcolare se gli endecasillabi sono precisi – ABAB. E questo, come già detto, per sottolineare quanto la traduzione sia altro manufatto, pur cercando di restare in quell’emozione e quell’immagine.

Il libro è così diviso: I II III IV per 31 poesie, note alle poesie, abbreviazioni, Il canto sulla polvere di Luigi Reitani, bibliografia, un’ottima cronologia, appendice iconografica con fotografie suggestive e affascinanti, ringraziamenti

La sezione note alle poesie è assolutamente necessaria per entrare in modo più specifico all’interno di questi componimenti, e ne farò subito un esempio, ma per un lettore a cui può non interessare lo specialismo legato a quest’arte, consiglio di lasciarsi attraversare dalle emozioni che una sonorità, un significato, un’immagine, anche di un solo verso può legarsi alla propria riflessione e al proprio vissuto. Dalla stessa poesia l’esempio: il ventinovesimo verso dell’ottava penultima strofa: «… Es ist eine schöne Zeit, wenn der Dattelkern keimt! …», «… È una bella stagione, quando il dattero è in fiore! …». E subito la nota: v. 29 Letteralmente: «quando il nocciolo del dattero germoglia», con riferimento alla palma, simbolo di pace (FEHL). Nella traduzione si è voluto rendere con una assonanza la rima interna, significativa perché rende riconoscibile il verso come un ritornello infantile. Quanta complessità! Ma quanta bellezza! E mi resta anche scorre sabbia dai nostri capelli per dire della clessidra del tempo che non si vorrebbe, incomprensibile col suo mistero, e È una bella stagione, quando il dattero è in fiore! Con quella musica di ritornello che riporta anche me all’infanzia, a mia madre, alla sua voce. Vorrei ascoltare questi testi in tedesco; mi capita di cogliere i suoni, i ritmi, le melodie in modo più emotivo, quando non comprendo i significati delle parole. Lo chiamano “significante”; tra Ferdinand de Saussure e Jacques Lacan. Perché non è l’immagine a sciogliersi nella “musica” della strofe, ma la musica del significante strofico a strutturare l’immagine.

Un poeta ed una poesia importante, presente, significativa, perché entra ed esce dalla seconda guerra mondiale, per questo particolarmente vicino al nostro tempo di conflitti anche violenti e devastanti. Una poetica, che pur attingendo alla tradizione – la forma metrica del Lied ottocentesco anche – è dentro la sperimentazione ritmica e fonetica, immaginando musicalmente un evento simbolico, e modulando una struttura metrica ereditata dalla tradizione, e senza tuttavia rinunciare a una prospettiva di impegno civile, a un ethos che richiamava il poeta alla sua responsabilità storica. Una poesia che recupera anche la favola popolare – e mi riporta a Garcia Lorca –, le metafore con la natura, e che così facendo innova il linguaggio, il concetto della poesia stessa, ricostituendola nella sua contemporaneità. Non a caso, già assai giovane, a ventisei anni, è accolta con molto rispetto nel Gruppo ’47, che tanti altri ha preceduto in Europa, e che per questo, sottolineandone la poetica, Luigi Reitani mette a confronto con maestri che l’hanno preceduta: Rainer Maria Rilke, Gottfried Benn, Günter Eich, evidenziando la sua amicizia con Paul Celan ed Elias Canetti, sottolineando l’appassionato confronto con l’opera di Simone Weil, con la teoria critica di Ernst Bloch, col pensiero di Martin Heidegger – un castello di proporzioni logicamente errate –, e soprattutto con la filosofia di Ludwig Wittgenstein. Ingeborg Bachmann fa un passo in più rispetto alla stessa radicalità dell’impressionismo rilkiano, liberando le sue immagini da ogni pretesa di raffigurare la realtà. «L’immaginazione non ha istinto imitativo» aveva scritto Eluard. Il linguaggio della poesia non è al servizio della realtà.

«… Da quando i nomi ci cullan nelle cose, / facciamo un segno e ci risponde un segno, / la neve non è solo un bianco carico, / è neve anche la quiete che ci assale. …», da Di una terra, un fiume e dei laghi fatta di dieci sezioni ognuna formata da sette quartine di endecasillabi, con cadenza giambica e rima alternata. E non mi soffermerò più sulla forma che non si ripete sempre uguale lungo il percorso di lettura. Poesia questa che recupera luoghi dell’infanzia, una fiaba dei fratelli Grimm, un cavallo magico di una fiaba popolare, un castello nei pressi di Hermagor, la chiusura del confine tra la Carinzia e la Slovenia Jugoslava, dopo la seconda guerra mondiale, e che si mischiano alla crudezza della guerra:  il sangue di un soldato semplice col sangue del ciclo mestruale: «… Evita dunque ardenti labbra di cani / e il perfido, che nel crudo sangue / s’abbevera, finché ombre il sangue menano / in un bene di pozze nere abbandonato. // Sbocca altro sangue: chiazze sulle guance – / la prima vergogna, per dolore e colpa / e gli intestini di bestie sventrate / trapassano qual segni del futuro; …». Quanta forza, e quanta storia si frulla nella testa di un poeta, testimone della sua e dell’altra, che comunque le appartiene e ne è testimone: «… Da quando i nomi ci cullan nelle cose, / facciamo un segno e ci risponde un segno, / la neve non è solo un bianco carico, / è neve anche la quiete che ci assale. …», la quiete che ci assale: un ossimoro che ci spiazza e ci stupisce col suo colore di neve bianco carico

Ricordiamo gli studi di filosofia, di psicologia e di germanistica di Ingeborg Bachmann con: Victor Kraft con cui si laurea con una dissertazione su, La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger, Victor Kraft continuatore della scuola del positivismo logico, Victor Emil Frankl fondatore dell’analisi esistenziale e della logoterapia. Ricordo necessario per capire quanto una vasta cultura, oltre la ovvia sensibilità umana prima ancora che artistica, sia necessaria per scrivere poesie. Rovesciando una massima della poetica ottocentesca, Ingeborg Bachmann affermerà anzi nelle sue “Lezioni francofortesi” che «è la storia, oggi, a essere nell’Io»; ed è, in quest’arte, l’abituale contrappunto tra riflessione razionale e sentire emotivo che fa dello scavo esistenziale, della speculazione storica, della necessità del canto, una comunicazione assai più complessa del semplice dire o raccontare. Se solo ci fermiamo sull’enjambement – l’accapo che spezza una frase e la fa verso –, a volte imposta dalla forma, a volte no, ma sempre accolto come una virtù, scopriamo nel verso successivo che quella parola è nata dal silenzio, e che con i suoi grandi margini bianchi di spazio e di pausa, ha il tempo necessario per penetrare nella profondità emotiva di chi legge.

«Si sfaldano le doghe delle nuvole, / la pioggia passa al setaccio d’ogni pozzo, / la pioggia salta da scale d’emergenza / sonora strimpellando sulla casa. // La città nera ruota i suoi occhi bianchi / e fugge ad ogni angolo dal mondo. / Nei ritmi della pioggia s’infiltra il silenzio. / Il blues della pioggia viene spento.». Questa poesia è per intero, e non è facile estrapolare da questi testi versi ad esempio, perché la scrittura composita di ogni percorso singolo rende assai difficile la scelta. La metafora è assoluta: la pioggia che cade su Harlem non è “come” una musica, ma “è” musica. Compito del linguaggio metaforico della poesia è dunque quello di «mischiare il mondo alla parola». La parola tedesca Regen (pioggia) fornisce una risposta criptografica. Letta da destra a sinistra, come in uno specchio, essa diventa “Neger”: «nero».

Dai versi in forma chiusa tra strofe e rime, spesso risolti nella traduzione con endecasillabi, a volte anche non canonici e settenari, ad esempio per la forma lied popolare, ai versi anche “liberi”, in cui le metafore, il senso dell’”anti-idillio” entrando e uscendo dalle fiabe e dai luoghi dell’infanzia, da quelli metropolitani in cui il poeta ha vissuto, esprimono la sperimentata realtà della solitudine dell’Io lirico, che non è riuscito a trovare la strada per il Tu e per la parola (Mechthild Oberle). 

«… Negli sprazzi dell’uva, all’ombra della vite / l’ebbrezza t’imprime il suo marchio – / La notte deve voltar pagina!», e non mi voglio attardare come in nota, sul rimando biblico, sull’ambiguità del lessico: Blat (pagina) che vuol dire anche foglia, sulle anafore, sulle rime e sulle simmetrie metriche, ma è che ogni verso, ogni passaggio di verso, mi arriva mirabile per lo stupore emotivo che mi penetra.

Entrare ed uscire da una guerra, la seconda mondiale, e da austriaca tedesca; che dire oggi che ci sentiamo circondati da catastrofi che non ci sembrano così lontane tra immagini, suoni, parole? Ed allora come La notte deve voltar pagina? Così ci scrive Reitani: Nell’era della tecnica e dei linguaggi specialistici, del mondo ridotto ai «dati di fatto» delle scienze naturali, nell’epoca che ha visto trionfare la barbarie della guerra e che corre senza indugi verso il riarmo, il consumismo e la mercificazione, il compito del poeta diviene un compito filosofico, che sostituisce e soppianta quello più antico del filosofo metafisico. La celebre proposizione di Wittgenstein che i «limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio» si capovolge così nella Bachmann nella asserzione che «Non vi è un mondo nuovo senza un nuovo linguaggio». Sarà anche questo il compito della Poesia? 

«… Innocente e prigioniera / nella sottomessa Napoli, / dove l’inverno / pone sul cielo Vomero e Posillipo, / dove i suoi bianchi lampi fanno strage / dei canti, / e l’inverno i suoi rauchi tuoni / pone nel giusto. …».

La speranza? La speranza resta e si collega a un utopismo messianico a cui ancorare la fede-scommessa nel valore della parola poetica e il compito della poesia sarà quello di esprimere quel «non-ancora» dell’utopia. Si àncora ad una spiritualità mistica che diventa “Anrufung”: preghiera, invocazione e chiamata in giudizio al tempo stesso. E in una forma anche salmodiale, per una assenza di Dio nel mondo anche se cercato, per far cantare spiritualmente i suoi versi.

«… Sciogli il granello di ghiaccio dall’occhio, / spezza il ghiaccio con gli sguardi, / cerca il fondo azzurro, / nuota, guarda e tuffati: // non sono io. / Sono io. …».

Una vita trascorsa tra studi, poesie, letture, saggi, lezioni, interviste radiofoniche, radiodrammi (premio dei ciechi di guerra per il radiodramma Die Zikaden – Le Cicale con musiche di Henze). Ed è anche un po’ nostra, questo meraviglioso poeta. Ad Ischia, dove si concentravano scrittori come Truman Capote, poeti come Wystan Hugh Auden, compositori come William Walton, a Napoli dove strettamente collaborò col musicista Hans Werner Henze, ed infine a Roma con il suo ambiente creativo e stimolante.

È morta bruciandosi. Forse sedativi per l’ansia di vivere, dicono assunti per il troppo lavoro, forse per la melanconia del vivere, per la consapevolezza che il dolore della vita porta sempre con sé, per il dissidio insanabile tra arte e vita, sedativi ed una sigaretta accesa, caduta sopra il letto tra un respiro, forse un sospiro ed una nebbia. Un falò; e …«quando la lava discese / e il suo alito ci colse / al piede del monte, / quando infine il cratere sfinito / più non trattenne la chiave / per questi corpi serrati – // Entrammo in spazi incantati / e illuminammo il buio / con la punta delle dita. …».

Napoli agosto 2025

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