di Massimo COLELLA
Esponente ‘involontario’ della cosiddetta “nuova drammaturgia napoletana”, Tonino Taiuti ha condiviso con Antonio Neiwiller, Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Silvio Orlando e altri artisti un periodo di grande fermento culturale della città. Attore, performer, studioso, musicista e sperimentatore a trecentosessanta gradi, ancora oggi vive a Napoli, lavorando raramente nel circuito ufficiale e molto più spesso negli spazi off. Ha mosso i suoi primi passi da “pulcinella” e con il teatro di Viviani, ma ha in seguito ricercato nuovi linguaggi. Ha cominciato a fare teatro in un periodo in cui lo si faceva – come rivela lui stesso – esclusivamente per passione, senza alcun tipo di programmazione e ambizione di successo.
Nato a Napoli nel 1950, a ventisei anni Taiuti inizia un percorso artistico straordinariamente dinamico che lo porta dal “Teatro dei Mutamenti” fondato da Renato Carpentieri e Antonio Neiwiller alla pratica del jazz, del teatro e del cinema.
Come attore si cimenta tanto in performance comiche (in coppia con Silvio Orlando) quanto in prove di forte intensità drammatica lavorando con registi quali Enzo Moscato, Mario Martone, Gabriele Salvatores, Toni Servillo e Giorgio Barberio Corsetti e su testi di Viviani, Scarpetta e Shakespeare.
Al cinema lo si ricorda in Morte di un matematico napoletano, Sud, Polvere di Napoli e I vesuviani.
Come musicista, oltre alle collaborazione con Marco Zurzolo, ha al suo attivo una doppia partecipazione, nel 2003 e nel 2004, con Antonio Fresa, al Pomigliano Jazz Festival, mentre il suo esordio nelle arti figurative ha luogo nel 2002 con una personale dedicata al violoncellista Tom Cora.
A proposito dei suoi esordi, Taiuti afferma così: «Io venivo dalla strada. Erano gli anni delle piazze, dei capelli lunghi, ero un figlio dei fiori… C’era Antonio Neiwiller che doveva fare uno spettacolo e gli servivano degli attori. In precedenza avevamo fatto, due o tre di noi, uno spettacolo di teatro e lui ci vide e mi scelse per uno spettacolo che doveva fare con gli Osanna, un gruppo progressive rock di quegli anni: fecero un’opera rock che si chiamava Palepoli dove io dovevo fare Pulcinella. Era uno spettacolo di mimo-danza, non proprio di teatro, loro suonavano e noi facevamo le coreografie. La regia era di Neiwiller. Diciamo che cominciai da lì; iniziai ad affezionarmi a questa maschera di Pulcinella e mi ci buttai dentro, istintivamente. Da lì nacque, sempre con Neiwiller, la messa in scena di Don Fausto di Petito [1975] e si sviluppò in me una grande passione. Però, stranamente, non per il teatro di tradizione, perché la tendenza dell’epoca era più per il teatro d’avanguardia – stiamo parlando degli anni Settanta e Ottanta – quindi, anche quando si affrontava la tradizione era sempre con un approccio contemporaneo, di sperimentazione. Mi trovai catapultato, senza saperne niente, nel teatro dadaista, nel teatro futurista, nelle avanguardie storiche. Allo stesso tempo, avevamo questo patrimonio del teatro napoletano, c’era questa tradizione che incombeva su di noi. Senza che noi volessimo, ogni tanto usciva fuori qualcosa che ci portava dentro la tradizione. Dopo il Don Fausto di Petito, lavorai con Renato Carpentieri, poi con Silvio Orlando. Io e lui lavoravamo con Neiwiller, ma avevamo anche questa passione per la comicità, che allora era vista come una cosa un po’ troppo leggera. Con Silvio ci mettemmo insieme e formammo una coppia comica, scrivemmo e montammo diversi spettacoli» (dall’intervista di Tonino Taiuti, a cura di Francesca Saturnino, Napoli Monitor, 1 maggio 2015).
Taiuti si è formato da autodidatta: «non esistevano le scuole, la nostra scuola era andare a teatro, guardarlo in televisione, magari quando Eduardo faceva le sue commedie. Io non ho deciso di fare l’attore, è il teatro che mi è venuto incontro. Poi non era l’epoca in cui si facevano progetti, come oggi. Facevamo teatro perché volevamo fare teatro, non per il successo, né per fare carriera. La cosa principale era la passione che ci univa, anche perché facevamo un teatro talmente fuori dai canoni e fuori dai circuiti ufficiali, che non era pensabile di poter realizzarsi facendo quello, anche se noi lo facevamo fino in fondo, non c’era un minuto della giornata che non si vivesse per quella cosa lì, per quella passione lì. Era molto diverso. Oggi mi sento quasi… non so come spiegarmi, […] quando uno è di un’altra epoca: un superstite». (Ivi)
L’attore ha appreso da Neiwiller uno sguardo ancipite, volto tanto alla tradizione quanto alla contemporaneità: «Antonio [Neiwiller] era un grande appassionato, un curioso, un amante del teatro di tradizione. Lui amava Viviani, Eduardo, tra di noi era quello che lo aveva visto a teatro. Aveva in sé entrambi gli aspetti: è stato un grande maestro, non volendo; da lui ho appreso la lezione della tradizione. Era una cosa che mi apparteneva, che già avevo dentro, però lui mi ha dato l’input per conservare tutti e due gli aspetti: essere un uomo moderno, della contemporaneità e avere dentro un mondo antico. Anche Antonio era cosi, però aveva una grande difficoltà sul parlato. Gli rompevano le scatole, dicendo che non era un attore di parola, mentre per me aveva un grande – non voglio chiamarlo stile, perché non mi piace la parola –, aveva una grande personalità che nessuno, o pochi, capivano. Questo era uno dei suoi aspetti interessanti: man mano ha abbandonato la parola, entrando nell’essenza del teatro. È stato molto coraggioso. Si veniva dagli anni della post-avanguardia, da tutta quella corrente del teatro senza parola. Lui portò quell’aspetto postmoderno in un’altra dimensione, estremamente teatrale, più vicina a Kantor, a questo teatro d’immagine, quasi un teatro cinematografico». (Ivi)
Gradualmente, Taiuti è diventato un grande studioso della tradizione: «Sì, e studiandola ti accorgi che dentro c’è tutto. È un mondo pieno, come si fa a descriverlo… è come se tu volessi spiegare l’artigianalità che c’è in un ebanista: lo si deve fare per capirlo. Molto spesso penso questo, rispetto al teatro da cui sono attratto. C’è un modo di vedere le cose, oggi, che a me non piace. Non m’importa di andare a teatro e vedere la storia, a volte vado a teatro e quando esco sento parlare solo della storia, della trama, di cui magari non ho capito niente. A me interessa la forma… ma, in fondo, neanche quella. M’interessa l’umore, le sensazioni: questo come fai a spiegarlo? Per questo Neiwiller aveva capito molte cose, perché stava in quest’altra dimensione. Era un curioso, come lo sono io, come lo era Renato Carpentieri, aveva delle istintività forti».(Ivi)
Taiuti ha sempre agito all’esterno degli spazi ufficiali: «Noi negli spazi ufficiali non ci siamo mai entrati. Un San Ferdinando, un Bellini, un Mercadante te li sognavi. Erano spazi per compagnie che già avevano il loro mercato… non è cambiato niente, il pubblico non si è proprio educato. A Napoli, e in generale in Italia, il pubblico quando va a teatro è come se si mettesse su un piedistallo e dicesse: vabbè, fammi vedere che sai fare. Altrove è diverso, per esempio in Francia. Qua veramente non capiscono niente. Il pubblico forse istintivamente capisce, ma gli addetti ai lavori, i giornalisti… non sanno niente. Soprattutto, oggi vedo un’enorme quantità di critici con cui non mi trovo quasi mai d’accordo – poi, può essere che il problema sono io. Il problema, in tutte le forme d’arte, è che non c’è più una critica storica».(Ivi)
In realtà Taiuti esibisce una doppia indole: da un lato, per esempio, fa parte di Circo Equestre Sgueglia, una produzione dello Stabile Mercadante che ha riscosso successo anche in Francia; dall’altra le attività che avverte come più sue le svolge in spazi piccoli, lontani dai riflettori (si pensi a Nu Petito dint’a Scarpetta o ancora di più a Play Duett,un particolarissimo lavoro in coppia con Lino Musella con testi di Petito, Shakespeare, Eliot, Viviani): «È un destino, una natura; non mi accontento, sono un bicchiere che strabocca, ho sempre curiosità diverse, anche con l’arte, la pittura, la scrittura. Stare sempre con le mazzate sulla schiena pesa, ogni tanto una rinfrescata ci vuole, fa bene alla salute, soprattutto se è Viviani… Ci sono due aspetti che ritornano sempre, in me: uno è la maschera di Pulcinella, l’altro è Viviani, è come se fossero la mia persecuzione. A volte sono saturo di queste due componenti e vorrei passare ad altro. Però non c’è niente da fare, fa parte del mio destino, ogni tanto mi capita che Viviani mi riacchiappi per le orecchie e così la maschera di Pulcinella. E poi, alla fine, ne sono contento: io adoro Viviani. Penso che sia uno dei più grandi poeti del Novecento, oltre a essere il più grande drammaturgo napoletano. Nella sua scrittura, c’è una vita, una profondità, non soltanto dietro le parole, ma nei suoni delle parole. Quelle cose lì o ce le hai dentro, o le hai vissute, o le acchiappi perché hai un istinto, altrimenti ne rimane solo la forma. Quando recito Viviani sai che faccio? Mi metto dietro le quinte e ascolto gli altri; a volte, quando lo leggo sulla pagina, non mi accorgo di certe cose, però quando lo sento recitare ecco che qualcosa mi colpisce. Quelle stesse parole le ho lette centomila volte sulla pagina ma non mi sono entrate così feroci, così belle come mi entrano quando invece le sento recitare. Non quando le recito, quando le sento recitare e sto dentro lo spettacolo. Se vado a vedere uno spettacolo di Viviani, mi metto nell’ottica dello spettatore ed è un altro approccio, un altro modo di entrare nella scrittura: hai una visione esterna. Invece quando sei all’interno e ascolti mentre non sei in scena è diverso. Fortunatamente, mi è capitato negli ultimi anni di fare dei Viviani dove non sto molto in scena e ho potuto godermi questo autore veramente. Io ogni mattina mi faccio la croce e penso a lui». (Ivi)
In una recentissima intervista rilasciata presso il Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo, Taiuti ha aggiunto a proposito di Viviani, Eduardo e i suoi autori preferiti : “Mentre gli altri erano autori che sceglievo come attore, Eduardo e Viviani sono per me qualcosa che va oltre all’autore di testi e poi prediligo Beckett che ritengo un vero grande poeta della scena”