Il plurale di identità è sempre identità: gli «Italianesi» di Saverio La Ruina

di Annamaria FERRENTINO

Partiamo da qualche elemento indispensabile per poterne parlare: qual è l’origine del termine Italianesi? È necessario un preambolo ed è necessario tripartirlo. Forse dovremmo cominciare dal fatto che Saverio La Ruina è stato ospite a Sala Assoli-Moscato dal 28 ottobre al 2 novembre per una personale sulla sua drammaturgia. Sei giorni e tre spettacoli: La dissonorata, La borto– due monologhi da lui intrepretati con le musiche dal vivo di Gianfranco De Franco- e Polvere, che lo vede in scena insieme a Cecilia Foti. Questa personale, che ha visto La Ruina impegnato per sei giorni con tre spettacoli diversi, sarà stata molto opportuna sotto il profilo drammaturgico ma anche molto impegnativa sotto il profilo performativo perché portare in scena tre testi in una settimana non è certamente cosa da poco. Tra l’altro La Ruina attore ha richiesto alla propria memoria di fare, come ha fatto, il “giocoliere con tre palline contemporaneamente”: questa prova è stata un vero successo. Italianesi in questa rassegna si inserisce come quarta proposta, ma in una forma mediale differente. Si tratta, difatti, di un film documentario, prodotto nel 2023 da Scena Verticale, con il sostegno della Fondazione Calabria Film Commission, correlato all’omonimo spettacolo scritto, diretto e interpretato dall’artista calabrese nel 2011. 

Dovremmo, forse, proseguire con un secondo elemento: il titolo Italianesi è un neologismo, una crasi che fonde due aggettivi o aggettivi sostantivati, italiani e albanesi, in uno solo. E dovremmo forse arrivare all’ultimo elemento, e cioè alla pagina di storia, invero poco sfogliata e poco letta, che Italianesi recupera e racconta attraverso un montaggio di voci che ne hanno fatto parte. Dopo l’occupazione fascista dell’Albania nel 1939, molti degli italiani che vi si erano insediati, militari e civili, rimasero bloccati. Erano considerati, così come i loro discendenti, potenziali nemici del regime comunista durante la dittatura di Enver Hoxha, che durò dal 1944 fino alla sua morte nel 1985. Furono costretti ai lavori forzati e all’isolamento nei campi di concentramento. Soltanto tra il 1991 e il 1992 si predispose il loro rimpatrio e poterono ritornare in Italia, non senza dover fronteggiare ulteriori difficoltà logistiche e d’integrazione. 

La Ruina allora si mette in viaggio e ripercorre quei luoghi, li interroga: tra i vari, Durazzo, Tirana, Savër, Belsh. Raccoglie le testimonianze degli italianesi, uno su tutti Pierino Cieno che in un campo di concentramento c’era stato da bambino, colpevole di avere un padre italiano. Raggiungerà l’Italia e conoscerà suo padre solo dopo quarant’anni. È a lui, soprattutto a Pierino Cieno, che è ispirato lo spettacolo Italianesi. Ma nel documentario, dello spettacolo del 2011, della forma drammaturgica, della lingua drammaturgica ci sono i prodomi- o forse, dovremmo dire più correttamente dal punto di vista cronologico- i residui. C’è solo un breve filmato iniziale, pochi minuti, in cui vediamo Saverio La Ruina nei panni di un italianese, sintesi originale dei tanti italianesi che vedremo subito dopo. Nei minuti successivi, infatti, abbiamo accesso diretto alle fonti, luoghi e storie, voci, ma anche corpi, lingue, che hanno dato l’abbrivio alla creazione di quella drammaturgia. Tra le tante testimonianze, frammenti di storia individuale e collettiva, una delle voci narranti e narrate, di questo documentario si rivolge a La Ruina intervistatore e gli chiede, in maniera spiazzante, il significato della domanda di dove sei? Questa domanda, posta come un riflesso disattento, per molti ha una risposta breve, di poche sillabe e netta, ma non per tutti è così. Talvolta la risposta è plurima, copiosa e potrebbe consistere in un’ulteriore domanda. L’italianese, infatti, dice -riformulo-: «Cosa vuoi sapere? Da dove viene mia mamma? Che lingua parlo io? O forse dove sono cresciuto? In fin dei conti, Di dove sei cosa significa?».

Oltre a ricostruire le giornate, le attività e la cronologia di queste vite, il documentario punta a dar risalto alla condizione condivisa dagli italianesi di un’identità culturale plurima, biforcata e, proprio per questo, soggetta ad essere difficilmente accolta o riconosciuta. Durante il periodo della prigionia in Albania, subiscono lo sguardo discriminatorio e punitivo, in quanto italiani o loro discendenti, e una volta ritornati in Italia, sono emarginati perché albanesi. Italiani in Albania, albanesi in Italia: la condizione che li appartiene e che non li abbandona mai sembra essere quella dello straniero. 

Scoprono il potere lenitivo di una sorta di rito laico di presentificazione: attraverso il ballo fatto senza musica per non attirare l’attenzione, attraverso le canzoni di Massimo Ranieri, di Sandro Giacobbe, vietatissime eppure capaci di riappacificarli con una lingua dai dolci ricordi, o forse, dalle promesse di vite possibili più fortunate. A parlare per gli italianesi basterebbe la memoria della loro lingua. La lingua muta- si trasforma- accoglie le novità, ma conserva anche. Custodisce le storie e le identità incastrate tra loro, sovrapposte. E forse, qui, vale la pena notare che identità è un nome invariabile. Un sostantivo che ha una sola forma per il singolare e il plurale. Questa invariabilità sembra una proprietà che mal si accorda semanticamente all’identità, che è, invece, ibrida, mutante, sempre favorevole agli innesti. Piuttosto, questa invariabilità ci suggerisce, forse, un rifiuto che è pienamente coerente con la sua mutevolezza. Ci suggerisce che non vuole essere declinata per numero quest’identità, che vuole essere una- la nostra- ma anche multiforme. 

Nel saggio (edito da Eum nel 2017) La gelosia delle lingue, incentrato sugli autori che decidono di scrivere in una lingua diversa dalla propria, come Beckett, Adriàn N. Bravi, argentino e italiano (argentiano? italiatino?), scrive: «Eppure, mi sento di non avere una lingua mia, una lingua senza tormenti, senza insicurezze; ovunque vada sono uno straniero che deve rovistare tra le parole e, se non trova quella giusta, deve cercare nel bailamme delle perifrasi». Ecco, molte delle testimonianze degli Italianesi rimano con questa citazione di Bravi, quando viene chiesto loro la provenienza dell’accento (domanda non sempre ben accolta), quando Pierino Cieno alterna italiano e albanese nel suo racconto e nelle sue risposte a Saverio La Ruina, ma anche a tutti coloro che incontra dopo anni a Belsh. 

Il documentario merita attenzione anche per un altro aspetto. Quest’operazione documentaristica, infatti, può essere un prezioso apporto per uno studio sul processo creativo che ritorna nella drammaturgia di Saverio La Ruina. Come ha avuto modo di raccontare lui stesso in occasione dell’incontro tenutosi il 27 ottobre “Prima della prima” al Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo, la genesi dei suoi spettacoli risiede spesso nella volontà di dar voce ad una realtà precisa, spesso storicamente determinata, come nel caso di Italianesi, o geograficamente localizzata. Questa volontà diventa metodo, anche per gli altri spettacoli della rassegna, in particolar modo in Dissonorata e La borto, la ricerca sul campo è principio della creazione o suo immancabile presupposto. Il documentario, che procede con un ritmo dolce, immersivo ma non invadente nelle storie degli intervistati, può essere per lo spettatore anche il privilegio della visione del materiale d’archivio- per quanto selezionato e montato- che è genesi di una drammaturgia.   

E forse, quel rito laico di presentificazione per gli italianesi, attraverso le canzoni di Massimo Ranieri o Sandro Giacobbe e la cultura italiana, non è molto diverso da quello che Saverio La Ruina auspica per la propria scrittura teatrale: presentificare pagine di storia, voci di mondi che rischiano di essere altrimenti dimenticate o di rimanere bloccate, come gli italianesi, nei confini dell’oblio. 

SALA ASSOLI-MOSCATO
Napoli
1° novembre 2025
Italianesi
regia Saverio La Ruina
fotografia Andrea Manenti
montaggio Matteo Delai
produzione Scena Verticale
con il sostegno di Fondazione Calabria Film Commission
film premiato al Tirana International Film Festival 2024: Panorama/Best Film Reflecting Albania
Italia, 2023
durata 84 minuti

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