di Gius GARGIULO
Ad uno dei più importanti autori italiani del nostro tempo, il drammaturgo, regista e attore, Enzo Moscato (1948-2024), è stato dedicato in sala Assoli, il 30 gennaio 2023, un importante convegno in suo onore, pensato e coordinato dal Centro Studi sul Teatro Napoletano Meridionale ed Europeo, creato, presieduto e animato da Antonia Lezza, storica studiosa e conoscitrice del teatro di Moscato a cui era unita anche da una lunga e feconda collaborazione e amicizia. Inoltre, la stessa Antonia Lezza dirige, pubblica e introduce, in questo volume dal titolo programmatico: Tradizione, Tradimento, Tradinvenzione,come schema genetico di tutto il teatro moscatiano, gli interventi di studiosi e collaboratori di Moscato al Convegno in sala Assoli. La pubblicazione ha l’intento di discutere e approfondire quella « forte tendenza di Moscato ad aprirsi alle istanze più varie…di riflessione sul ruolo del teatro nella società» (p. 15) in un confronto continuo, talvolta conflittuale, rappresentato dalla tradizione, dal suo tradimento in nome della necessaria creatività in quanto invenzione da cui il neologismo, creato dallo stesso drammaturgo, di « tradinvenzione » come Antonia Lezza ci ricorda nell’introduzione, Ma noi dobbiamo giocare. To play, scandita e condita da illuminanti e affettuose evocazioni dell’attività di Moscato, insegnante dei suoi testi « molto interessato all’aspetto pedagogico del teatro e alla sua valenza culturale…con una gran voglia di leggere e far leggere i testi » (p. 15) del suo teatro agli studenti nelle masterclass del Centro studi sul Teatro Napoletano e presso la cattedra di Letteratura teatrale italiana presso l’Università di Salerno di cui Lezza è stata titolare. Nel primo intervento dal titolo Enzo Moscato e Franco Scaldati: prove di prossimità, la studiosa Simona Scattina, del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, fa il punto sul ruolo centrale di Moscato nell’ambito della drammaturgia post-eduardiana «più innovativa e ardita dell’Italia degli anni Ottanta e Novanta» (p. 21), in relazione di «prossimità» a quella siciliana, rappresentata da Franco Scaldati (1943-2013). In particolare, i due drammaturghi, secondo Scattina, utilizzano la loro «lingua di scena» come un elemento centrale di tipo semiotico e di rappresentazione drammatica di teatralità «come un palinsesto testuale sonoro composto e de-composto con una incandescenza visionaria che si artiglia nelle viscere di due città in cui non c’è soluzione di continuità tra vivi e morti» (p. 22). Le affermazioni di Scattina ci portano a riflettere sul ruolo sociale del linguaggio che presuppone una pluralità e la produce, come sosteneva Hannah Arendt, divenendo l’alternativa alla violenza. Il linguaggio permette di vivere pacificamente e quindi ha un valore politico nel senso etimologico di vita nella città (πόλις). Per contro, se la parola nasce dal silenzio per rivelare il mondo, come sostiene Heidegger, nello stesso tempo, in una tradizione di due città come Napoli e Palermo, liminari tra la vita e la morte o meglio tra ciò che è vivo nella tradizione e ciò che dovrebbe andare contro di essa, il linguaggio rompe il silenzio e quindi dialoga con la morte e oltre la morte. La evoca, la rievoca, la provoca e la mette in scena secondo la tradizione greca che, come ci ricorda Scattina, è comune a Moscato e Scaldati. La differenza mi sembra risiedere nella considerazione evidente e programmatica del teatro di Moscato in una prospettiva postmoderna, con il rifiuto del realismo per prediligere frammenti, citazioni, mescolanza di registri alti e bassi, letterari e popolari dove comunque, come cita da Moscato la studiosa, il tradimento del passato, della tradizione, dei padri da parte dei figli è un rito di passaggio necessario. Si tratta del sentirsi stranieri, guardare le cose dal di fuori dopo averle lasciate per pensarle dal profondo e dare loro un nome, come affermava André Gide sull’opera di Walter Benjamin. Essere profughi della memoria, ammalati sofferenti per questo peregrinare ma comunque anche trasfigurati con il rischio di non essere neanche più riconosciuti e ascoltati dalla propria gente. Di qui per Moscato, anche la lingua madre, il dialetto napoletano e l’italiano-italiese, è costretta ad un peregrinare senza nostos (νόστος). La lingua moscatiana è un mosaico plurilingue (napoletano arcaico e contemporaneo, italiano, francesismi, anglicismi, gerghi) che diventa strumento di resistenza culturale come la Palermo di Scaldati che «si racconta per frammenti poetici, per mancanze» (p.23). La tradizione, quindi, è rappresentata da due città, «metropoli tatuate», nella icastica espressione di Moscato citata da Scattina, «che si fanno forma e danno forma» (p.26). Da una parte, i Quartieri spagnoli di Moscato, alveo, «rione», luogo e non luogo metafisico di identità, di chiusura e di apertura significante che diventa significato in continui aggiornamenti di trasgressioni a norme e tradizioni con l’equivalente visivo nella tortuosa e presepiale topografia degli edifici «sti palazzi uno a’cuoll’ a n’ato: anfratti, passaggi, grotte», per un percorso tra vicoli e tempo, nelle parole di Moscato consegnate alla sua autobiografia, Archeologia del sangue (1948-1961) (Cronopio, 2020). Dall’altra, abbiamo, simmetricamente complementare, l’Albergheria a Palermo di Scaldati. «Città-soglie, luoghi di confine tra la razionalità e una dimensione misterica e segreta, che la fantasia popolare ha sempre coniugato alla morte» come al sogno di un riscatto auspicato dai due drammaturghi nella loro produzione (p. 26), afferma la studiosa per ricordarci che i due autori rappresentano «città straziate e strazianti, disperate e disperanti, ora nella liricità, e nella trasgressione, ora nella violenza e nella nostalgia» (p. 35). In Parole con le ali, Pasquale Scialò, musicologo e compositore, docente di Musicologia e Storia della musica presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, ma soprattutto collaboratore e autore delle musiche per le opere di Moscato, ricorda come la musica al pari delle contaminazioni nel linguaggio naturale, sia un elemento consustanziale del teatro del drammaturgo napoletano già in fase di concezione, una specifica musica di scena scandita con ostinati ritmici, fin dai titoli come in Partitura o Rondò, oppure nell’ambientazione di Trianòn. Qui, delle prostitute fermate per dei controlli, si ritrovano in una cella nel sottosuolo di un carcere, denominata musicalmente « abbascio ’o tammuro » e si lamentano come all’interno di un ossessivo strumento a percussione. La vicinanza e l’influsso di Viviani nei temi e nei ritmi, rivendicati dallo stesso Moscato, costituiscono un evidente connessione con quel mondo rumoroso, pittoresco, sensuale e violento della marginalità dei Quartieri spagnoli, dotato di una musicalità quasi ontologica fatta di incroci tra antichissime e modernissime melodie come viene confermato da Scialò, specialmente nel ripercorrere la sua collaborazione musicale nella creazione delle opere del drammaturgo a partire dallo spettacolo Cantà. Infatti, il trattamento musicale di Cantà si rivela «una riscrittura sia timbrica che armonica delle melodie originali, nell’intento di sviluppare le potenzialità musicali dei brani proiettandoli in una nuova dimensione narrativa e sonora» (p.43). Scialò definisce questa operazione come uno «sconfinamento» tra diverse matrici musicali, in un procedimento non lineare, spesso come un puzzle tra musica colta, popolare napoletana e di consumo «con una vocalità legata a una sorta di atteggiamento spirituale del canto» (p. 49). Nello stesso modo, in Hôtel de l’Univers, nel 2003, una forma, per Scialò, di «racconto cantato», dal francese «récit chantant», Moscato concepisce uno spettacolo teatrale, come se fosse una proiezione cinematografica in una sala popolare che per un improvviso guasto del proiettore, blocca la prosecuzione del racconto filmico e allora l’immagine e la colonna sonora « sconfinano» nei vicoli in un grande fiume di suoni, canti e rumore per coinvolgere, travolgere, appassionare nella totale dimensione empatica di parole e musiche in quanto essenza del fare teatro contro ogni forma di indifferenza. Questa convincente e calzante nozione di sconfinamento moscatiano che Scialò collega a quella di viaggio espressivo, è ancora più evidente come procedimento-tradimento-adattamento, nel saggio di Laura Sicignano, drammaturga, regista ed ex direttrice del Teatro Stabile di Catania, intitolato, Baccanti à la manière de Enzo Moscato: disturbi, anarchia, ironia, dove lo sconfinamento si ritrova nell’importanza della parola «margine» dal latino margo come bordo o confine che «ci rimanda ai temi del limite, della marginalità e della devianza, molto presenti nell’opera di Moscato» (p. 61). Sicignano ci guida dentro le fasi dell’adattamento di un classico fondativo come Grund della tradizione teatrale e filosofica occidentale: Baccanti (Βάκχαι) di Euripide (480-406 a.C.), che può essere letto come il tentativo di delineare la personalità ambigua e multiforme di Dioniso, una delle divinità più complesse del Pantheon mediterraneo. La regista opera una approfondita e filologicamente pertinente comparazione tra il suo adattamento dell’opera di Euripide e quella di Moscato intitolata con riferimenti sia alla psicoanalisi e al teatro di Ibsen, Disturbing ’a tragedy (Schizo-Baccanti, ovvero : Psicopatologia degli spettri euripidei, in margine al vivere odierno). Proprio in riferimento al punto di partenza della tradizione testuale, Sicignano, in qualità di regista, sottolinea il recupero della parola teatrale dopo una fase di rifiuto da parte delle avanguardie degli anni 60 fino agli anni 80. La tradizione, quindi, va affrontata per Sicignano, come una rilettura fatta di contaminazioni e ibridazioni. La sua versione delle Baccanti cercava con una nuova traduzione, lontana dalla «tradizione delle traduzioni», un linguaggio più contemporaneo. Inoltre, inserisce nel nuovo testo battute dalla Bibbia, dai filosofi presocratici, citazioni di diverse epoche collegate all’idea del ciclo vitale in un gioco di travestimento e di disvelamento del mito di Dioniso in cui il pubblico era invitato a riconoscere le fonti calate in una nuova dimensione drammaturgica (pp. 55-56). Continuando sul filo del suo ragionamento l’autrice considera la nozione di tradimento della tradizione qualcosa di inscindibile dall’attività creativa. In tal modo, in sintonia con la tradinvenzione moscatiana, la concezione di tradimento viene liberata, nell’esercizio della trasposizione, dalle scorie spiritualistico-idealiste, in particolare di matrice crociana, su una pretesa purezza dell’originale in rapporto al lavoro di traduzione, adattamento come impurità perché di livello artistico inferiore. Sappiamo che qualsiasi traduzione anche se fedelissima, difficilmente avrà la riuscita di una bella infedele, creativa e co-autoriale del traduttore, che si orienta verso il pubblico a cui essa è destinata con un linguaggio appropriato. Infatti, Sicignano sottolinea come Moscato si nutra della tradizione teatrale partenopea contaminata da varie culture alte e basse, segno di una irriverente intelligenza che rilegge in maniera diretta secoli di messa in scena del testo originale di Euripide. Sembra di riportare alla luce Palepolis sotto Neapolis in chiave Pop e Trash, spazio mitico, memoriale e stratificato. La Tradinvenzione, rappresentata dall’adattamento di Moscato, nel caso delle Baccanti, diviene un viaggio ermeneutico, come direbbe Gadamer, già dal titolo e nel sottotitolo, nel napoglese di una tragedia che disturba, destabilizza la fruizione « tradizionale » a livello di contenuti e logicamente a livello linguistico ma così facendo adempie al suo ruolo originario euripideo nel rispetto e nell’«archeologia» del significato destabilizzante-disturbante dell’opera che parla e ri-suona all’interno delle nostre coscienze. Giorgio Taffon, drammaturgo, romanziere, già docente di Letteratura italiana e Letteratura teatrale presso l’Università di Roma Tre, nel suo intervento, Da Antonin Artaud, a Carmelo Bene, a Enzo Moscato, esplicita il legame teoretico e attoriale che unifica in un «passaggio di testimone», questi tre drammaturghi. In particolare, Carmelo Bene e Enzo Moscato « teatranti-poeti con più o meno avvertibile mood spirituale» (p. 67) riprendono la concezione del corpo senza organi di Artaud e sviluppata da Gilles Deleuze e Félix Guattari, dove per l’attore, « senza organi », significa spogliarsi delle tecniche teatrali convenzionali e delle psicologie interiori “borghesi”, trasformarsi in «atleta del cuore» per restituire al corpo la sua dimensione originaria di vibrazione, di gesto, di voce pura attraversata da un soffio (souffle) come surrogato e recupero dello slancio vitale (élan vital) di matrice filosofica bergsoniana nel senso di pulsione iniziale (pulsion initiale) creatrice, interiore che attraversa la materia. Opportunamente, Taffon mette in evidenza la componente spirituale quasi mistica di questa concezione performativa che sulla scena dovrebbe coincidere con l’autonomia del corpo come presenza assoluta, secondo Artaud, dove per Carmelo Bene si tratta di un’assenza che cancella l’identità personale «restando al di fuori della Storia, fino a un teatro senza spettacolo» (p. 70). Il drammaturgo pugliese intende essere coerente con i presupposti teorici della rappresentazione del corpo senza organi in una rivoluzione anti-naturalistica. Taffon rileva questa aporia che da Artaud, Deleuze e Guattari arriva a Lacan dove l’inconscio funziona secondo le leggi del linguaggio tra metafore, metonimie, giochi di significato, considerati “testi” da leggere, più che segni da interpretare simbolicamente e aggiungerei alla lista, Derrida con la sua «differance» che frattura, sospende la presenza, incrina l’identità dell’io. Il terreno indubbiamente diventa accidentato perché presenza e assenza del corpo e del linguaggio sono antinomiche in un’utopia teatrale irrealizzabile che però spinge a trasformare radicalmente l’idea di attore e di scena sia in Bene sia in Moscato, in un teatro della crudeltà «à la manière d’Artaud», inteso come rigore, necessità, urgenza vitale nel portare lo spettatore davanti all’essenziale della vita, senza alibi o illusioni. La contraddizione legata all’interpretazione della visibilità di questa assenza-presenza, messa in luce da Taffon a proposito del teatro di Carmelo Bene, non fa che rivelare e al tempo stesso confermare una radicata eredità intellettuale francese. Nel corso del Novecento, infatti, tale tradizione ha continuamente messo in discussione l’idea che emozioni e sensi possano offrire un accesso diretto alla conoscenza, mantenendo una costante diffidenza verso l’immediatezza dell’immagine percepita dallo sguardo, pur riconoscendo al tempo stesso la centralità fondamentale della visione. Questa contraddizione si riverbera sulla « realtà » e sull’«iconismo » del linguaggio che scava materialmente e senza astrazioni nell’inconscio dello spettatore per diventare elemento centrale del teatro dei due autori-attori-poeti italiani ed in particolare di Moscato. La materialità del linguaggio si impone all’attore sulla spiritualità laica dell’essenza stessa quasi smaterializzata della parola, più in Moscato che in Bene, pena l’appiattimento delle posizioni del primo sul secondo. Per il drammaturgo napoletano conclude Taffon, si realizza un’immanenza di lingua, carne e soffio (p. 76). Chiude il volume, We love Enzo, di Igina Di Napoli, un album di ricordi dei rutilanti anni Ottanta della creatività teatrale napoletana, incentrati sulla scoperta dell’opera di Moscato, in una suggestiva e palpitante rievocazione vissuta da una testimone di quell’indimenticabile periodo. In sintesi, Tradizione, Tradimento, Tradinvenzione, vince la difficile scommessa di condensare in un agile volume, con rigore e chiarezza, l’essenziale della creatività espressiva moscatiana. La nozione di tradinvenzione, nell’universo del grande autore napoletano, viene esplicitata e analizzata nei vari interventi, in quanto procedura che diventa procedimento per agire sulla lingua-linguaggio teatrale come tra una langue e una parole, in termini saussuriani. Ricordiamo che in Moscato vi è un’idea quasi circense, acrobatica, di «gioco tra realtà e finzione, di dramma e trasfigurazione della realtà» come nota Antonia Lezza, (Un esempio di tradinvenzione: «Mirabilia Circus» di Moscato, in M. Lureau (ed.), Mondes narratifs et normatifs entre la parole et l’image, Paris, 2021, p. 101). Un gioco che si tiene in equilibrio sul filo del linguaggio come su quei fili, esili ma resistenti, che sorreggono in penombra, i panni stesi nei vicoli Napoli. Il linguaggio poetico e polifonico moscatiano, in quanto contaminazione tra poesia canto prosa e recitazione, potrebbe accostarsi al concetto dei «giochi linguistici» (language-games), centrale nella seconda fase del pensiero di Ludwig Wittgenstein. Il gioco linguistico per il filosofo viennese, mette in crisi molte parole che non hanno una definizione unica perché i loro usi sono molteplici. In tal modo, nel gioco di parole, il linguaggio diventa un’attività cognitiva, che disturba ma fa riflettere per non ridursi solo a un sistema di segni. Questo «gioco linguistico» si applica al mondo: è intrinsecamente sociale, come il teatro per Moscato. Giocare e recitare in inglese «to play», come in francese «jouer», in tedesco «spielen», condividono la stessa forma verbale. Allora, come ricorda Antonia Lezza, possiamo terminare e «giocare» con la stessa frase con cui Moscato concluse il convegno in suo onore in sala Assoli nel 2023: «Ma noi dobbiamo giocare. To play».
Gius Gargiulo
MoDyCo Lab CNRS, Université Paris Nanterre