Guida Galattica per i lettori | Dicembre 2021

Contenuti:

  • AMICO ROMANZO
    Capolavoro d’amore di Ruggero Cappuccio, a cura di Carmen LUCIA
  • SIPARI APERTI
    Tra cunto e drammaturgia: il prezioso tesoro di Gaspare Balsamo, a cura di Emanuela FERRAUTO
  • COME SUGHERI SULL’ ACQUA
    Perché risuoni la distanza, a cura di Ariele D’AMBROSIO

AMICO ROMANZO

Capolavoro d’amore di Ruggero Cappuccio

A cura di Carmen LUCIA

Capolavoro d’amore
di Ruggero Cappuccio
Dettagli Volume 
Feltrinelli, in libreria dal 16 settembre 2021,  pagine 176

Il romanzo di Ruggero Cappuccio, regista, drammaturgo e scrittore, è un romanzo d’arte e d’amore e si presenta come una pièce teatrale dissimulata, dove un furto di un quadro di Caravaggio diventa metafora e paradigma della Sicilia e dell’Italia intera, perché la perdita e la mancanza di cura diventano espressione di una civiltà e di un’identità peculiare della nostra nazione.

 Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 viene trafugata la celebre Natività di Caravaggio: a proteggere la preziosa tela c’è soltanto una serratura arrugginita e obsoleta, in una Palermo che diventa quasi un personaggio, traboccante di luce e di umanità, ma anche di ombre e sofferenze, come un’allegoria parlante divisa tra humanitas e feritas. Palermo è un’ “ isterica, che ama solo la sua sofferenza, e quando riesce a goderne trasforma il dolore in arte”: queste sono le parole di Manfredi Lanza sul traghetto che lo riporta in Sicilia, dopo otto lunghi anni. Il protagonista, quarantenne antiquario descritto nell’incipit del romanzo,  rivive un “nostos” nella sua città,  saturo di nostalgica inquietudine e di sofferta elegia. Rientra a Palermo, su richiesta dell’anziano e amato zio Rolando, che lo coinvolge nel racconto dei suoi ricordi: qui il lettore attento riscopre, come in un gioco di rimandi e di echi, un sottotesto ricco di citazioni implicite che rimanda a una riscrittura cinematografica di Ruggero Cappuccio – Lighea – nata da un racconto omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, una delle fonti privilegiate di Ruggero Cappuccio, insieme a Shakespeare. E proprio il Gattopardo, è il vero sostrato e sottofondo onirico e immaginifico del romanzo, che come in una riscrittura teatrale ne fa rivivere suggestioni, echi, visioni. L’incontro tra i due protagonisti s’intreccia, in un’osmosi non casuale tra amore e arte, alle ricerche della Natività di Caravaggio, rubata dall’Oratorio di San Lorenzo nel 1969. Nella ricerca del mistero che si dispiega attorno al furto del quadro, Manfredi attiva un’analisi nelle sue memorie, nelle sue ferite mai rimarginate, nei traumi di un’altra perdita, quella dell’amata Flavia che lo abbandonò all’improvviso, inducendolo a prendere la decisione di lasciare l’isola.

Anche questo romanzo, come gli altri di Cappuccio, nasce da evocazioni simboliche  suscitate dai luoghi della memoria (Palermo insieme a Napoli è al centro della sua poetica), dai veleni della malinconia, dall’ambiguità, l’incomunicabilità e parla dell’essenza stessa dell’amore, che è spesso “mancanza”. Caravaggio e il furto di un quadro è un topos presente anche nel  primo romanzo “Fuoco su Napoli” e a lui è dedicata la suggestiva opera  teatrale “Le ultime sette parole” di Caravaggio”. Per Ruggero Cappuccio la Sicilia costituisce una fonte d’ispirazione per il teatro, un radice e una memoria familiare e soprattutto un avantesto mitico di riferimento, per la presenza delle opere di Tomasi di Lampedusa, mediate anche dall’amicizia con il critico Saverio Orlando e il nipote Gioacchino Lanza. “Palermo – si legge nel romanzo – è spaventata dalla sua guarigione, è un’isterica. Ama solo la sua sofferenza”. Questo romanzo racconta di un itinerario introspettivo, di un’inchiesta verso una meta agognata e a tratti irraggiungibile. Il capoluogo siciliano è ricco di suggestioni poetiche: Palermo è decadente, ammantata da un velo di mistero a cui non si sa ancora oggi dare risposte. Un altro tòpos su cui l’autore ritorna, come in altre opere teatrali, che possiamo leggere in chiave intertestuale con questo romanzo (pensiamo a Spaccanapoli Times) è la bellezza della trasmissione ereditaria, che non riguarda unicamente il colore degli occhi o le malattie, ma anche schemi di pensiero e materiale onirico, come ha affermato Cappuccio in un’intervista: “Molti sogni che facciamo sono frutto della nostra regia personale e di detriti che provengono da vite precedenti. Conoscere il passato vuole dire capire qual è la nostra vera voce. Accade che quando compiamo un’azione, siamo doppiati dalla volontà dei nostri genitori o dei nonni. Ma è fondamentale comprendere chi siamo realmente”.



SIPARI APERTI

Tra cunto e drammaturgia: il prezioso tesoro di Gaspare Balsamo.

A cura di Emanuela FERRAUTO

Gaspare Balsamo,
Sotto il segno del cunto,
Spoleto (Pg), Editoria & Spettacolo,
2021, €16,00, p.189

L’incontro con la drammaturgia e il cunto firmati dal quarantenne trapanese Gaspare Balsamo avviene attraverso l’oralità e il palcoscenico, in occasione di un evento napoletano dedicato alla Sicilia, organizzato presso l’Ex Asilo Filangieri, tra il 19 e il 21 maggio 2016.

Dopo quell’esperienza decisi di intraprendere un’importante osservazione della scrittura e della messinscena prodotte e firmate da questo cuntista-drammaturgo-interprete. Continuavo a studiarlo a distanza, anche in Sicilia, assistendo alle fasi di un breve laboratorio condotto dallo stesso Balsamo a Catania nel 2017.

Nello stesso anno, grazie all’intervento e all’aiuto di Antonia Lezza, docente di Letteratura Teatrale Italiana presso l’Università degli Studi di Salerno, decidiamo di organizzare una lezione/spettacolo presso il Teatro dell’Ateneo salernitano, invitando studenti e docenti ad assistere ad una meravigliosa performance.

Nel 2018 Cue Press pubblica un volume dal titolo Lingua orale e parola scenica. Risorsa e testimonianza, a cura di Vera Cantone e Niccolò Casella, contenente gli atti del convegno svoltosi a Pavia nel novembre 2018, tra cui il mio saggio, primo contributo alla drammaturgia di Gaspare Balsamo.

Finalmente nel 2021 Editoria & Spettacolo pubblica un piccolo volume contenente alcuni testi firmati da Balsamo, volume inserito all’interno della collana Fare testo,curata da Dario Tomasello, professore dell’Università degli Studi di Messina, attento studioso del cunto e della trasmissione orale legata a particolari forme di narrazione, di drammaturgia e soprattutto di messinscena.

Durante il lavoro di studio e di analisi della scrittura e delle messinscene firmate da Balsamo, l’osservazione della performance e della tecnica orale rappresentava il punto di partenza fondamentale, ma ero consapevole che questo autore avesse a disposizione dei preziosi testi, che mi sono stati inviati generosamente. L’esistenza di scrittura, all’interno di un contesto nato e sviluppatosi attraverso una delle forme più importanti ed antiche dell’oralità, il cunto siciliano appunto, ha stimolato fortemente uno studio attento nei confronti di un autore che affida la sua narrazione, tramandata da padre in figlio e attraverso tutta la comunità, anche alla scrittura, rappresentando il cardine fondamentale che unisce e genera il passaggio tra le precedenti generazioni di cuntisti e i drammaturghi contemporanei.

Come ho sottolineato nel mio saggio precedente, il repertorio presentato da Balsamo, oltre a quello tramandato dalla famiglia o dalla comunità di provenienza, si arricchisce attraverso la lettura vorace di innumerevoli testi della tradizione siciliana, dalle fiabe alle leggende raccolte negli studi di Giuseppe Pitrè e in quelli di Salvatore Salomone Marino, alle varianti raccolte da Ignazio Buttitta, risalendo anche alle opere settecentesche di Giovanni Meli e di Antonio Veneziano, partendo dalla grande raccolta delle storie dei Paladini di Francia, tramandate oralmente e fortunatamente conservate da Giusto Lo Dico. Ritroviamo anche preghiere, riti, filastrocche, le storie di Don Chisciotte, mescolate sapientemente alla cronaca nera contemporanea, alle storie di mafia, alle inchieste sui rifiuti e sui migranti.

I testi a me inviati da Balsamo nel 2017 erano dieci, di questi solo tre compaiono all’interno del volume, dal titolo Sotto il segno del cunto, edito da Editoria & Spettacolo:  Muciara, Ciclopu, Camurria. Si aggiungono, all’interno di questa ultima pubblicazione, Melos, Epica fera (che ha debuttato proprio a Napoli nel 2019 presso l’ex Asilo Filangieri), Omu a mari. Rimangono fuori Gira, vota e firria; Isola Zavona; Tratte; Tressicilie; Unu come a Pipino; Don Chisciotte in Sicilia; Trinacria sulla luna; ’U Ciclopu, Giufà e Firrazzanu.

Il volume, che conta 189 pagine, si apre con una bella dedica al bimbo di Balsamo, dal nome epico: A mio figlio Ruggiero, caruso, picciotto e figghiolo di Sicilia.

Scelta elegante quella di inserire le stesse parole dell’autore all’interno della Prefazione, riportando solo alla fine le parole di Dario Tomasello, il quale sembra voler lasciare spazio alla scrittura e alle atmosfere create dal cuntista. La prefazione riporta, in incipit, una frase firmata da Luca Sessa, amico fraterno di Gaspare, organizzatore di Festibal, l’evento svoltosi quasi ogni anno presso l’ex Asilo Filangieri di Napoli, grazie al quale ha avuto inizio questo lungo studio.

All’interno della Prefazione, Balsamo descrive le trame dei testi contenuti nel volume, soffermandosi su alcuni pensieri e considerazioni personali che riguardano anche le scelte linguistiche che caratterizzano alcuni racconti.

I testi presentano anche un sottotitolo, riportato all’interno del volume e anche nell’indice, quest’ultimo posto alla fine. Per ogni testo sono indicati il luogo e la data del debutto ed eventuali premi attribuiti, oltre alla data di creazione: si parte da Melos del 2020/2021 per arrivare a Camurria  del 2006 e ci si accorge, ben presto, che l’apparente ordine cronologico a ritroso non è rispettato, perché sono stati inseriti alcuni testi più recenti vicino a quelli più antichi. L’autore specifica, all’interno della prefazione, che Muciara e Camurria sono i suoi primi testi, ma non spiega il motivo dell’ordine di inserimento degli altri, attribuibile probabilmente al tipo di racconto e al suo contenuto.

I testi sono caratterizzati interamente dalla lingua siciliana o da un italiano fortemente dialettizzato: le battute dei personaggi sono riportate in corsivo, mentre la narrazione in tondo.

Si evince, certamente, un’attenzione maggiore, rispetto ai testi che mi furono inviati, alla complessa grafia dialettale. Lo stesso Balsamo afferma «in tutti gli altri lavori ho progressivamente sviluppato la ricerca di una metodologia di scrittura che portasse a un risultato più o meno standardizzato di lingua espressiva. Una scrittura in siciliano non fonografica ma tendenzialmente omogenea, che cercasse di restituire dignità alle sue pluralità dialettali di lingua in cui risuonano suoni secchi, morbidi, ritmi antiche ed evocativi».

Conclude il volume l’utilissimo glossario che riporta la traduzione in italiano di alcuni  particolari termini dialettali, appartenenti ad uno specifico linguaggio settoriale, nonostante il lettore non abbia, però, nessun riferimento alla specifica pagina.

La postfazione firmata da Dario Tomasello rappresenta un vero e proprio contributo saggistico che accompagna il lettore attento nello studio e nell’approfondimento della narrazione orale, del cunto e di questa particolare forma di drammaturgia creata dallo stesso Balsamo.

La nota biografica chiude questo prezioso tesoro, un volume che finalmente dona visibilità e fissa sulla carta un’originale e ricchissima drammaturgia che nasce da una profonda e antica natura orale, ma che fortunatamente si adatta alla contemporaneità attraverso una forma di scrittura interessante. Il lavoro di Tomasello e la preziosa attività di Editoria & Spettacolo hanno scongiurato la perdita di un patrimonio di inestimabile valore.



COME SUGHERI SULL’ ACQUA

Il verso non è mai libero

a cura di Ariele D’AMBROSIO

Vera D’Atri
 
LA GIOIA DELL’ACERBO
 
Giuliano Ladolfi Editore
Novembre 2021
Pagine 94
euro 10,00
 
Info:
https://www.ladolfieditore.it/index.php/it/chi-siamo-3.html

«Il verso non è mai libero. / Appartiene alle tragedie già avvenute.»

Così comincia questo bel libro di Vera D’Atri dalla copertina sobria ed elegante della Collana Perle Poesia, con una ottima introduzione di Giuliano Ladolfi.

Così comincia, con questo distico a mo’ di proemio, dove già si tocca con mano tutta la capacità di questo poeta di concentrare una dichiarazione propria della τέχνη specifica della poesia, con una visione profonda, anche tragica dell’esistenza, che andremo a vedere.

Una visione che dal πατήματα ερωτιχά di Saffo, scopre il doloroso che si espande dal rapporto d’amore al tormento dell’esistere, fino a raggiungere il doloroso della “La tragedia del vivere umano”, di Miguel Unamuno. Eppure, malgrado questo inizio imponente, che evoca nei versi citati un’eclisse di buio che si trasmette,  mi accorgo subito della levità di questa scrittura che ritengo sia  una delle caratteristiche fondanti e assai incisive dei versi di Vera D’Atri.

Ma ritornando alla “non libertà” del verso, c’è da dire che questa non è mai da considerare una prigione, ma è soltanto, e lo ripetiamo, ricercare il proprio io, il proprio fare distinguibile, per una “libertà” rinnovata che prende per mano alla ricerca di nuove angolazioni, prospettive, profondità e superfici dove viaggiare, camminare, nuotare e continuare a scrutare col senso della curiosità del capire e del sentire. Perché è proprio nelle restrizioni autoimposte, nei canoni, se si vuole innovativi, che si organizza anche la creatività della propria forma, e tutto questo per definire anche che è nelle restrizioni, in quel da – a,  che si “gioca” e si definisce l’umano. L’umano di cui la poesia non può fare a meno.

Il verso non è mai libero, come la vita d’altronde che può esprimere solo libertà relative, o un “libero” arbitrio, se pure esiste, che si realizza soltanto in percentuali variabili ed incerte.  

Ritornando allo specifico della poesia, e mi si perdoni la citazione, anche Aldo Menichetti, forse il più significativo metricista italiano ci dice che “nelle adibizioni più alte e rigorose, non pigre né meramente antagoniste e contrappuntive nei confronti della vecchia metrica, la loro «libertà» non risulta anarchica o gratuita («soltanto un cattivo poeta potrebbe accogliere il verso libero come una liberazione dalla forma», Eliot; in fondo, quali che siano le sue convinzioni teoriche, il vero poeta regola sempre «son chant sur une loi factice, plus ou moins stricte, dont il s’instaure le prisonnier volontaire», Waltz 217): la loro forma si autolegittima, facendosi portatrice di una «propria» misura, sicché assumono anch’essi per il lettore quello stesso carattere di necessità (insostituibilità) che contraddistingue nei suoi risultati migliori la metrica tradizionale.”

Tutto questo per dire che la poetica di Vera D’Atri realizza uno stile ed una individualità precisi, che le sue poesie ti trascinano e ti trasportano, ti sospingono e ti capovolgono alla ricerca di un nuovo angolo nascosto che ti appare improvviso col senso dell’inatteso, col senso dell’imprevisto che stupisce ogni volta, intensifica e definisce idee e sensazioni.

Ma cos’è poi l’acerbo del titolo e perché “La gioia dell’acerbo”, perché questo gioire che ci indica il titolo della raccolta? Perché l’acerbo è quello che sarà o che potrebbe essere, e la sua gioia è proprio in questo possibile divenire, in questo fulcro dove resta nascosto l’inatteso che potrebbe comparire come invece restare inespresso.

Mentre leggo ho la sensazione che ogn’una di queste poesie ci sfiorino come fossero segmenti di vento, per poi accorgersi che hanno inciso percorsi che restano scolpiti: «…le solcò la mente l’ideogramma / rondine, sfregiando la luce con un tratto nero /d’inaudita bellezza. Lei cantava per ore / come una vita inesperta che si affida / al rimedio dei refrain, // ma era un atteggiamento / caduto giù da un ponte per non essere / baciato.»

Detesto la retorica della parola amore, così come quella del cuore e dell’anima, ma qui uso l’amore perché lo sento, appartato, pervadere tutta la poetica di questa bellezza lieve. Ed è un amore che si estende nella malinconia della distanza ed espande la nostalgia in saudade. Il volo della rondine è un ideogramma perché scrive una linea nell’aria, il refrain, preferito al ritornello, è un suono di fisarmonica francese, un modo per cercarsi con la musica, ed è un segno che resta acerbo, preferendo il suicidio della caduta alla disillusione del concreto.

Ma di uovo la τέχνη e con essa i canoni degli accapo: precisi, necessari, mai precari. Non c’è ricerca di ritmo, ma c’è ricerca di sospensione. Gli accapo di questo poeta ci “costringono” al silenzio, per ascoltare quel vento che penetra come respiro, ed entra facendosi riflessione ed emozione dell’umano. «Questa è stagione di vento. / Qualcosa va, qualcosa viene mentre / splende la parola taciuta. … », ed ancora «… Ma poi scriveva per insegnare / al cuore  a far di conto prima di poter / gemere agli incanti. », «… Il male si riproduce / di spontaneità in spontaneità, / innocente come cicuta.». Questi esempi per dire della precisione dei versi che non potrebbero avere altra forma, se non quella dei suoi contenuti. E questo è un segno di buona e rigorosa poesia.

Non so perché mi viene in ricordo Marina Cvetaeva, ma credo di saperlo, perché c’è un filo che mi conduce dai suoi versi: «… gli addii erano più grandi delle mani. / Quasi le braccia lasciassero le spalle / e le labbra restassero indietro a supplicare! …», a quelli di Vera D’Atri: «… C’è l’addio alla terra infiacchita, // eppure ci sono le rose, / le rose sempre a corrompere, le rose sempre / a stordire. Le rose che han giurato / di illuderci ancora.». Perché la disillusione è anche una verità della vita: si può non nascere, ma non si può non morire. Ed il morire, anche metaforico, è il distacco estremo, la sparizione col disincanto che ci dice che l’orizzonte è solo un cerchio d’aria attorno alla sfera del mondo. Ma mi fermo su quel le rose sempre / a stordire., su quest’accapo, su questa spezzatura che sospende anche un minimo tempo, il tempo del non capire, del non afferrare, come in uno spiazzamento dello stato di coscienza che ci fa fragili tra l’illusione, che resta una speranza, e la disillusione che ancora non vediamo o non vogliamo vedere. Bastano pochi versi leggeri, che si approfondiscono nelle ombre emotive dell’inconscio, per dirci tutto questo come fosse pietra e metallo. Qui la parola che evoca verità e sentimenti col talento di chi sa scrivere poesia.

Mi pare di ricordare che Manganelli dicesse che non c’è scrittura senza carta – non ne sono certo, ma che Manganelli resti a proteggermi – mentre noi siamo immersi in questo online di retro luce a schermo che ci fa secchi gli occhi. Viviamo in questo ping pong tra carta e cloud, dove le nuvole non sappiamo cosa salveranno. Quanti libri spariti tra incendi e inondazioni, quanti ne spariranno tra inganni e ricatti informatici. Ma perché divago? Perché non mi salva quello che guardo in internet, perché quel piccolo tempo mi sfugge con la sua illuminazione che mi trafigge gli occhi, perché non leggo e non sento, perché mi resta solo lo sguardo che guarda una superficie che sfugge e non resta. E malgrado l’ossimoro che vedrà questo mio scritto in video, ancora mi salva la pagina che dal suo foglio mi dice: «Ci fu chi, udendo il bisbiglio / della pioggia, sazio si ritrasse nella stanza // e da un appassire quotidiano si rivestì / di foglie tutte fanciulle.» E ci piace la speranza delle foglie che qui fanno capolino. Quelle che fanno della carta una poesia da toccare, anche da odorare, percependone un suono nascosto che si fa melodia in quel bisbiglio / della pioggia che ancora una volta ci sospende.

«È solo questo il ricominciare. / Il rompersi del buio tra le rotaie lungo / il marciapiede e l’erba nera, dentro lo sfiato / polveroso d’una tristezza ovale, corale, madornale, / l’incredulo passato rappreso nelle tasche, / fatto di giochi, l’attesa dei colori / laggiù, // dove sconfina il blu / prima che arrivi il sole, quel mezzano, / a utilizzarlo nell’acquerello del mattino.» I versi si dipanano ed il costrutto sintattico fa sì che ogni parola si arricchisca di senso, e la phonè del significante rimandi ad un astratto che si fa visione:  la tristezza ovale, come una sinestesia tra il sentire astratto dell’umore ed il vedere: e m’immagino questo stato della psiche che curva più stretto all’apice e si fa per questo ancora più prigioniero e doloroso. Su ogni parola così messa, potremmo per lungo tempo soffermarci a riflettere, a vedere, ad ascoltare, a sentire, ad emozionarci. Anche qui la capacità della buona poesia di comunicare nella sua sintesi e che la fa ambigua e per questo complessa con le sue molteplici significazioni. Molteplicità che si vanno ad intrecciare a quelle del lettore, con il suo vissuto emotivo e culturale.

«… Quand’è che inizia la vitalità degli atterriti? …», «… Sotto la pioggia la lanuggine dei campi / con dolcezza si lascia uniformare.», «Gli alberi se pur belli non hanno volto. // Ornano un cielo anch’esso senza volto. …», «… Custodire il cielo nell’edera che sale, …», «… fino al gemito di falsa primavera / che tutto lascia provvisorio tranne le nenie / fatte in casa di voci che come ceneri / si perdono.». Quanti rimandi a verità fluide, ad incertezze statiche, che tutto lascia provvisorio tranne le nenie: le preghiere che sedano e si perdono. Quanti rimandi che entrano ed escono dalle nostre vite che simili s’intrecciano.

Finisco con «… Una realtà che non so dire / se vita sia o il tarlo che la svuota, / se sia come la pace che sormonta gli obelischi / o cadere eterno di risvegli.». Cosa più della poesia, più di questi versi, avrebbe potuto mettere a fuoco il senso e la dicotomia dell’esistere, per restare immersi, ancora una volta, in questa sospensione di verità mutevoli che Vera D’Atri ci regala.

Ariele D’Ambrosio

Napoli dicembre 2021