LE PAROLE RITROVATE – presentazione di Rosa Troiano

PRESENTAZIONE
Antonio Calabrese, Le parole ritrovate Poesie in napoletano, con traduzione in italiano a fronte, Ancona, Italic, 2017.
 
Antonio Calabrese, poeta e ingegnere napoletano, ha raccolto la sua intera produzione lirica, pubblicata nell’arco di trent’anni in singole plaquette (Cocciole, 1989; A piede scauze, 1998, ed infine l’ultima, Tra scuoglie e nuvole, 2011, con 40 poesie illustrate da disegni dello stesso autore e commentate singolarmente ed eccellentemente da Domenico Silvestri), in un volume dal titolo particolarmente significativo e allusivo rispetto al tema di fondo della raccolta, la ricerca della parola poetica, ma anche particolarmente indicativo rispetto all’opzione linguistica compiuta:Le parole ritrovate.Poesie in napoletano (Ancona, Italic, 2017). La scelta colloca di fatto il nostro poeta nella linea novecentesca della poesia neodialettale che ha avuto come grandi protagonisti Pier Paolo Pasolini, Tonino Guerra, Albino Pierro, Biagio Marin, Andrea Zanzotto, e tanti altri ancora.
 Le ragioni  dello scrivere in dialetto a partire dalla svolta, che nella letteratura dialettale italiana si è avuta con il grande Salvatore Di Giacomo, fino alla stagione dei neodialettali, sono state indagate da Franco Brevini in uno studio fondamentale dal titolo Le parole perdute (1990). Uno dei motivi messi in rilievo da Brevini (peraltro condiviso da altri studiosi e poeti), che accomuna tante esperienze diverse di poesia in dialetto del Novecento, è la possibilità di scrivere versi facendo ricorso a un codice differente da quello della lingua comunemente usata: un codice ritenuto più espressivo, inedito, ma alla fine anche anticomunicativo e autoreferenziale, perché condanna il poeta dialettale ad accompagnare le sue poesie con un testo in italiano a fronte. L’esercizio si rivela peraltro di grande raffinatezza per il poeta dialettale che lo compie, come si può notare leggendo le stesse traduzioni che accompagnano le liriche di questa raccolta di Antonio Calabrese.  Brevini sottolinea come il dialetto attragga i poeti  delle ultime generazioni, perché in esso vi ritrovano la lingua di un mondo personale: “la parola dialettale perduta dai parlanti viene ritrovata dai poeti” attraverso uno scavo nel profondo, una ricerca della memoria, che fa affiorare suoni, forme, espressioni appropriate ad esprimere una materia magmatica, quella del proprio io.  
Per Antonio Calabrese è il napoletano a diventare il suo codice interiore, lo strumento espressivo della propria soggettività lirica. A differenza di altri poeti neodialettali, come per esempio Albino Pierro che ha dovuto in certo qual modo creare la propria lingua poetica, perché il dialetto lucano, parlato di Tursi non era mai stato né scritto né affinato per usi letterari, Calabrese ha avuto a disposizione una varietà urbana, non periferica, di dialetto che vanta una lunga tradizione,  un retroterra letterario anche di notevole importanza nel panorama italiano delle letterature dialettali, per la sua continuità storica e soprattutto la qualità degli esiti, da Basile alla grande esperienza di poesia di Salvatore Di Giacomo. Nella sua lunga durata la letteratura in napoletano ha segnato anche le diverse fasi del filone dialettale letterario in Italia; ne ha espresso nei secoli i diversi generi, da quello comico-parodico a quello mimetico-realistico, fino a quello soggettivo e lirico della poesia del Novecento, e dei nostri tempi, in cui il dialetto continua ad essere spinto al limite estremo dell’endofasia.
Antonio Calabrese si rivela, con questa raccolta, poeta di raffinata sensibilità. L’esercizio della sua scrittura dialettale testimonia di una personale ricerca espressiva, sia sul piano tematico sia  su quello linguistico-formale. Si può dire che dalle correnti che hanno caratterizzato il Novecento, Antonio Calabrese abbia colto il principio che la poesia deve avvalersi di un linguaggio inventivo, metaforico, analogico, per evocare quei misteriosi rapporti tra gli oggetti, tra le sensazioni, tra gli stati interiori, che lo sguardo comune non sa cogliere: tutto ciò richiede un’attenta elaborazione, un esercizio tecnico che non è  pura abilità esteriore, ma scoperta delle possibilità musicali, allusive, e delle polivalenze simboliche della parola.
Antonio Calabrese ha voluto dare lui  stesso testimonianza dello strenuo lavoro  che sta a fondamento della resa formale del proprio discorso lirico nel componimento che apre l’organica raccolta di versi,  Voglio passà nu juorno:
 
  Voglio passà nu juorno
jettato a Margellina,
o stiso ncopp’ ê scuoglie
facce fronte â Gaiola
addò ca cielo, mare,
sole, friscura ’e viento
song’ una cosa sola.
 
E lloco, ô sole stiso,
quanta vierze aggio scritto,
parola pe parola,
voglio scerià c’ ’pommece
truvata nterr’ ârena
mmiez’ a ll evera ’e mare.
 
Sulo accussì liggenneme
Nun farraie ’musso stuorto.
Sulo accussì – chi sa?-
sti quatto vierze mieie,
parola pe parola, senza te fà nu scippo,
te sciuliaranno ncore.
 
La lirica ha una funzione proemiale, programmatica; si organizza intorno a una struttura discorsiva nella quale l’ ‘io’ lirico  rivolge il suo discorso a un ‘tu’, evocando il momento aurorale della creazione poetica, con una puntuale indicazione del luogo per dare consistenza a chi guarda e ci parla dell’impulso ricevuto dagli elementi naturali (cielo, mare, scogli, vento) a compiere le operazioni vitali per la scrittura:  una scrittura che ritrova il suo senso ultimo nella drammatica ricerca  del  “sé”, della propria anima, come si evince anche dai versi che chiudono la raccolta e sono collegati in forma circolare alla lirica di apertura: “E st’anema chi ’a scerea, / chi ne sape ’o culore? / Cennere, pommece, cennere / e ancore nun vene fore” (Aggio sceriato c’ ’a pommece).
Al rischio di un’esistenza scheggiata e polverizzata il poeta neodialettale resiste con  la sua discesa nell’autenticità espressiva che è quella dialettale. Le parole ritrovate, levigate e affinate: “E scrivo sti parole / e songo fronne ô viento “, con la loro leggerezza possono scivolare nell’anima liberandola da ogni pesantezza e lacerazione esistenziale (’E scrivo sti parole).
Il tema della ricerca della parola poetica dialettale accomuna l’esperienza dei poeti del Novecento che cercano nel dialetto un nuovo linguaggio per la poesia: da Albino Pierro l’ingresso nella “parlète frisca du paise”, il tursitano arcaico che gli permette di esistere e di ritrovare se stesso fuori del linguaggio consumistico e omologante, è salutato  con un inno pasquale: “Si campène di Paske / su paroe di Christe / ca hê fatte nghiure ’a morte / mo sta parlète frisca di paise /iettete ’u banne e dìcete / “Vinese a què, / v’agghie grapute ’i porte”. Achille Serrao, poeta napoletano dell’ultima generazione, rivolge la sua richiesta di “ ’na sporte ’e parole / ’mmescate” a una figura assente, in uno scenario di solitudine notturna, e le parole ricevute sono quelle del dolore.
Anche in Antonio Calabrese il tema della ricerca della parola poetica dialettale acquista talvolta risonanze particolari, toni stranianti che si associano ad immagini di forte espressività e a sensazioni di dolore e di paura che accompagnano la ricerca vissuta come una sorta di catabasi nel sostrato affettivo del dialetto e nei suoi spessori idiomatici: “Cercale sti parole / dint ô cafuorchio d’ ’o core / addò annascuso ancora / mozzeca ’o rancefellone” (Cercale sti parole): il rancefellone è il paguro detto anche granciporro, il granchio dalle branchie grosse e mostruose che abita tra le fessure dei dirupi marini e delle pietre degli argini edificati sui litorali.
 Il tema della parola attraversa tutte le raccolte poetiche di Antonio Calabrese ed è oggetto di un processo di concentrazione espressiva che riduce tempo e spazio delle strofe e dei versi per cui, come linguaggio del profondo, la parola dialettale diventa scabra ed essenziale, acquisendo sempre nuove risonanze: “Comm’ ê ggavine. / E se ne fuje sta vita / tra scuoglie e nuvole” (Comm’êggavine). Il tema è stato peraltro interpretato da Domenico Silvestri e da Diego Poli nelle rispettive prefazioni, con penetrante acutezza: entrambi hanno sottolineato il carattere “emblematico”, “allusivo” e “interiore” del discorso lirico di Antonio Calabrese, un discorso che si aggrappa a parole-simbolo di grande pregnanza semantica, come la voce cocciola, ‘conchiglia’, nella quale – cito da Diego Poli-  convive una pluralità di valori che si scambiano il senso alimentato dalla cristallizzazione nell’organico che trasfigura gli schemi, gli strati, le spirali in nitida iconicità o in pura astrattezza”. Per Domenico Silvestri, “ le parole ritrovatedella complessiva raccolta poetica di Antonio Calabrese, sono quelle che si cercano nel buio anfratto del cuore […] e che il miracolo della Poesia converte secondo la bellissima immagine di Giuseppe Ungaretti in ‘limpida meraviglia di un delirante fermento’. Esse si propongono con cristiana umiltà come umanamente fragili, ma a ben guardare risultano poeticamente indistruttibili”.
   Gli arcaismi dialettali, che ispirano infatti con il loro valore di autentici poetismi la scrittura poetica di Antonio Calabrese, appartengono in buona parte a quel lessico del mare che connota semanticamente il paesaggio marino partenopeo, un paesaggio intensamente evocato attraverso un cammino a ritroso che porta il poeta napoletano a recuperare esperienze, vale la pena di ricordare, come quella della  pesca con le reti e con le nasse, rivissute nel calore del ricordo e della nostalgia: “ ’O mare ’e tanno, ’o mare / d’ ’e mmummare, d’ ’e nnasse, / d’ ’e rrezze spase ô sole, / d’ ’a refola che passa / e annaria ’e vvele. // ’O mare comm’ â gnosta / niro, d’ ’e nnotte  nere / arravugliate ’e nuvole, / ’e luna, viento, stelle.” (’O mare ’e tanno, ’o mare). Ma il mare del golfo di Napoli, con le sue trasfigurazioni simboliche, costituisce anche l’elemento naturale e universale nella cui vita si specchia  la “vita turbata” del poeta contemporaneo, e in quanto specchio può accogliere e riflettere per traslato quelle operazioni vitali della poesia connesse a una ricerca che ha come ultimo approdo il raggiungimento della quiete ’nfunno a nu mare antico.
Vorrei infine ricordare che ci sono in questa raccolta anche liriche che colpiscono per i modi con cui il nostro autore si è  rapportato ad altre voci della tradizione. Quelle scelte appartengono alla giovinezza creativa dell’autore e ci svelano nel processo della creazione poetica quella spinta profonda che si nasconde nel linguaggio della letteratura e agisce sull’attività di chi scrive, che trasmette sempre l’eco lontana di altre voci, a volte palesate e a volte tenute nascoste. Per questo processo che caratterizza parte della produzione poetica di Antonio Calabrese vorrei segnalare dapprima la lirica dal titolo Stradulella ’ntruppecosa.
La  densità timbrica e semantica del testo ritrae la leggerezza della canzonetta di ascendenza digiacomiana. La poesia è composta da cinque quartine di ottonari; l’ultima ripete la prima con un effetto di eco. Le rime sono quasi tutte alternate; e mare rima perfettamente con Marechiaro per effetto dell’indebolimento del suono della vocale finale, caratteristica, com’è noto, della fonetica napoletana. Da aggiungere l’anafora di Stradulella e lievi inarcature dei versi. La sintassi è di tipo nominale e asindetica, molto scarsa l’aggettivazione. La lirica si sviluppa da un quadretto quasi convenzionale per poi realizzare quella felice fusione dell’elemento realistico con il lirico, come accade nella poesia di Di Giacomo, con un effetto di rifrazione dall’esterno verso l’interno. La donna anche qui, come sulla scena poetica digiacomiana  è il personaggio che domina la lirica e viene introdotta in modo indiretto e metonimico, con il ricorso a un diminutivo-vezzeggiativo, che fa da marca di “ affettività e di intimizzazione” : na manella che m’afferra / forte ’o vraccio e chiù s’ ’o stregne; la sensazione che provoca il gesto della mano che afferra il braccio dell’innamorato è prolungata dall’effetto dell’inarcatura del verso.
Qualche altro esempio singolare di dialogo che il nostro poeta tesse con altre voci della grande letteratura, non solo italiana ma europea, allo scopo di saggiare attraverso il confronto interlinguistico e intertestuale le possibilità espressive del dialetto, si ritrova nel secondo componimento del presente volume: ’A vide chella perzeca.  Si tratta di una lirica che traduce liberamente in napoletano una poesia di Goethe, An seine Spröde, che celebra il rapporto fra io, amore e natura, nel solco di una tradizione che risale alla lirica greca. Antonio Calabrese ha scelto per  epigrafe della sua  versione  alcuni versi del testo in lingua originale “Du reife Pomeranze, / Du süsse Pomeranze; / Ich schüttle, fühl, ich schüttle, / O fall in meinen Schoss!” Ecco invece l’elegante traduzione dell’intera lirica fatta da Mario Specchio come testo a fronte del testo in tedesco, per l’edizione Tutte le poesie di Goethe dei Meridiani della Mondadori:
Alla sua ritrosa
Vedi la melarancia?
Pende ancora dall’albero;
è già trascorso marzo
e nuovi fiori sbocciano.
Io mi avvicino all’albero
E dico melarancia,
matura melarancia,
dolce melarancia,
io scuoto, senti, scuoto, scuoto
oh, cadi nel mio grembo.
 
Possiamo ora metterlo a confronto con il testo di Calabrese, la cui versione in napoletano ha tutto lo stile della “bella infedele”:  nella sua forma  piana, diretta, accessibile, riesce a fondere con leggerezza ironica la grazia elegante dei versi del testo di partenza con moduli della poesia d’amore popolare di tradizione napoletana, echeggiati in quell’epiteto affettivo, perzechella, che fa da contrappeso al nobile, elevato Pomeranze:
’ A vide chella perzeca
ca pennuléa d’ ’o ramo?
Zucosa, avvellutata,
rire e pazzéa c’ ’o sole.
Pare ca sta aspettanno,
si sulo tuculéo,
’e ffronne tremar ranno,
m’ ’a truvarraggio mmano.
 
Ah, quanta vote i’ dico
a chi pare c’aspetta,
e invece, si m’accosto,
rire, pazzéa, me scaccia:

  • Ah, perzechella mia,

sienteme, damme retta,
’o vi’ ca sì ammatura
pe me cadé int’ ê braccia? –
 
 
 In questa poesia, come in tante altre della raccolta, che si sviluppano a partire da una citazione di versi appartenenti ad altri, grandi poeti (Biagio Marin, per il tema del mare, F. Garcia Lorca, Alcmane, Machado, Carlo Betocchi, ecc.), memoria e linguaggio poetico si trovano intimamente congiunti, svelando un aspetto profondo del processo letterario e dell’esperienza della parola poetica che “mentre mette alla prova se stessa – come ha scritto un grande critico della letteratura italiana, Ezio Raimondi – consente al singolo che la pratica di reintegrarsi nel flusso della memoria collettiva, di entrare a far parte di una comunità che lo ha preceduto, dalla quale la sua irripetibile singolarità trae vigore e sentimento”.
 
Napoli,
Rosa Troiano