Scannasurice di Enzo Moscato, il corpo narrante dell’attore, letto da Cerciello 

di Antonella ROSSETTI

E’ l’entusiasmante prova attoriale di Imma Villa, diretta da Carlo Cerciello, a dare voce e corpo a Scannasurice, tra i primi lavori di uno dei maggiori autori del teatro contemporaneo, Enzo Moscato.
La complementarietà tra testo, attore e regia, il mutuo arricchimento, l’eloquente coesione di un procedimento estetico condiviso, restituiscono appieno tutta la forza scenica e linguistica di una pièce simbolo del teatro moscatiano.
La messinscena diretta da Cerciello ben evidenzia le peculiarità dell’ordito-scrittura, care all’autore: diritto e rovescio, profondità e superficie, in modo tale che la scrittura drammaturgica e quella scenica diventino l’una l’ombra dell’altra. In linea con l’humus del teatro Elicantropo, quale teatro della libertà, della ragione, della favola, dal valore altamente conoscitivo e autenticamente rivoluzionario, Carlo Cerciello, non a caso, sceglie di mettere in scena un altro lavoro dell’ Autore partenopeo, che, già dagli anni ’80, si mostra innovatore indiscusso e sovvertitore, nella maniera di guardare ed interpretare la scena, soprattutto, di quella, in lingua napoletana. Come Ruccello e Santanelli, Enzo Moscato ha saputo voltar pagina, superare la barriera dei canoni teatrali precedenti, creando la propria personale scrittura teatrale, espressione di una lingua gorgogliante, carica di intense sfumature. Lingua furente, popolare e colta. Il suo dialetto ingloba le sonorità delle varie derivazioni: dal classico al barocco, dal borghese a quello dei bassi fondi. La phonè già naturalmente intrinseca nella lingua partenopea, si rafforza nei giochi fonetici e fonologici, nei contrasti, negli ossimori che delineano una autentica lingua-spartito. Una partitura drammaturgica così complessa, per forma e contenuto, denota lo spessore del letterato Moscato, filosofo, studioso di filologia ed antropologia. Ogni parola è un mondo che si apre, un punto focale da cui partire e attingere sapienza storica e il prezioso patrimonio della memoria della tradizione orale.

Il teatro Elicantropo, è pervaso dalla penombra. Una scatola di cemento occupa la scena. Sotterranei di palazzi, grigi, gelidi, senza identità. Un labirinto, diviso in buche, celle, finestre, loculi. Case senza focolari, pareti senza intonaci, dormitori di fortuna di carni scarnificate, brandelli di umanità in decomposizione. E’ la città di sotto, degli ultimi, di quelli che non vogliono mostrarsi e che si fa presto a dimenticare. Vittime di un terremoto, di quel terremoto dell’80: ferita crudele, cesura profonda, che ha mutato l’identità sociale e culturale di una città, cancellando desideri e progetti, ha insabbiato speranze, incancrenito ignominie. 

E Scannasurice, sopravissuto agonizzante, con un corpo perfettamente neutro, ibrido tra il maschile e il femminile, l’adulto e bambino, l’animale e l’umano, vive tra nefandezze e topi, assumendone, le sembianze, le movenze, le umiliazioni. L’attrice si abbandona ad una particolare tensione fisica, che accompagna la parola, la sottolinea, l’esalta. E se non c’è teatro senza attore, l’attore, qui, è il teatro. L’elasticità vocale e gestuale, i cambi di timbro nelle differenti evocazioni interpretative, illuminano la sala buia, i visi, gli animi, i ricordi. Imma Villa, si fa plasmare dalla materia scrittoria ed affida soprattutto al suo corpo il compito di diventare chiara pagina impressa, facilmente leggibile. L’attrice, sembra attraversare le stesse coordinate del testo: passa da un piano all’altro, tra simbologie e prospettive : sale, scende, si nasconde ,riappare, sgattaiola, si intrufola, si perde, traccia linee precise, si trasforma, per non mutare mai nella sua essenza. Il suo corpo si pone quasi in rapporto onomatopeico al suo dire: e’ scrittura in movimento, che, Cerciello, definisce e potenzia con ritmi sostenuti. Scannasurice, ricoperto da un lungo cappotto maculato, come da un guscio protettivo, è vecchio straccione, ambiguo ubriacone, visionario realista, inventore di favole e narratore preciso. Si perde nei Cunti della saggia nonna e racconta di persone e di topi, confondendoli, assimilandoli: passano immagini di donne esamini con in testa diademi formati da cadaveri di 12 topi, simili alle 12 stelle che incoronano l’Immacolata; capuzzelle di bambini inghiottiti dal buio si accompagnano a pianti inconsolabili e risa sfrenate di piccoli indemoniati. Centrale, si staglia la misteriosa presenza della bell’ambriana, benevola e malvagia. Ed in alto, di particolare impatto scenico, una finestra-sipario, con luci d’altare e di ribalta, tra il sacro e il profano, illumina una figura di donna, inquietante: una maga-Madonna, come una Minerva mefistofelica, con un contagocce, misurando curaro, decide le sorti per quei topi e cristiani che sono troppi e devono essere annientati. Poche gocce nella cisterna principale dell’acqua, e l’eutanasia sarà indolore, per tanti. In un momento di particolare liricità, la Villa si muta in tenero innamorato, rivolgendo ad un giovane studente, le sue attenzioni: per lui, di giorno, sarà una rosa. Di notte, invece, appartiene al suo doppio, a un Altro, che passeggia con calze a rete e tacchi alti, in cerca di ombre, di affari.

Non amano il veleno, quelli che hanno bisogno di veleno” recita Riccardo II, nella tragedia scespiriana. Così, è lui , Scannasurice, ultimo degli ultimi, a fare il gesto estremo, a sperimentare il giusto dosaggio delle gocce letali: smette di bere vino per assorbire veleno. Il vino può annebbiare la vista ma non può rendere ciechi. Fuori dalla casa-gabbia, giace a terra la sua parte esteriore, il suo travestimento notturno, ben riposto, già morto. Il tenero Scannasurice, ragazzino fragile, nudo, con l’adagio dell’antica ninna nanna consolatrice, abbandona la scena del mondo. Come pecora sacrificata e capuzzella rapita. Si dilegua nel grigio cemento, incenerito, come chi è passato senza lasciare traccia, senza voce. Frammento d’una coscienza mutilata, senza bandiera.

A completare una messinscena “d’autore”, imponenti si collocano le musiche di Paolo Coletta che, come stasimi, nei rivoli della recitazione-fiume dell’attrice, si impongono incisivi. Così come i tagli di luce, che intensificano suggestioni, svelando e celando fili di pupille che scrutano, confondono prede e predatori.

Colpisce e fa riflettere, il segno palese che Carlo Cerciello sceglie, per ricordare, a suo modo, fuori dal coro e da ogni retorica, Eduardo De Filippo. Imma Villa, copre con il coppitiello il beccuccio della caffettiera napoletana. Da altre finestre, con altri dirimpettai. Caffè diversi, comunque amari.