Ricordo di un intellettuale anomalo

di Gius GARGIULO

La personalità umana e intellettuale di Maurizio De Benedictis, studioso originale e rigoroso, non si può circoscrivere all’ambito sia pur vasto delle discipline accademiche della storia della letteratura o delle letterature e a quella della storia del cinema, che egli ha brillantemente praticato all’Università di Roma La Sapienza, divenendo con le sue ricerche un’autorità indiscussa in questi campi del sapere e formando generazioni di studenti con il suo magistero. Per dare una nozione, sia pur limitata a queste poche righe, della critica aumentata elaborata da Maurizio De Benedictis, si potrebbe cominciare dal suo ultimo grande progetto critico, la quadrilogia sulle figure di scrittori emblematici dal titolo Maledetti & anomali che avrebbe dovuto contenere anche William Burroughs dopo i saggi su Pier Paolo Pasolini(2017), Jean Genet (2017) e Yukio Mishima (2023) pubblicato postumo, tutti presso le edizioni Lithos di Roma. Questi scrittori «maledetti anomali» per De Benedictis vivono tra i pieni e i vuoti del linguaggio che diviene narrazione, tra dentro e fuori come fascinazione e rigetto nel dinamismo dei corpi e degli spazi nelle città vissute tra scrittura e vita. Il critico vede le loro esistenze e carriere, inclusi anche i loro limiti e talvolta le loro mistificazioni, come la storia di una affascinante e talvolta delirante sconfitta destinata ad approdare ad una autodistruzione inevitabile e alla morte. E questo malgrado gli sforzi nel riempire con la loro magmatica energia vitale travasata nella scrittura, i vuoti lasciati tali dalla letteratura ufficiale.  Si tratta di tre autori «espressivamente e biograficamente trasgressivi», accomunati da un erotismo assoluto nell’omosessualità esplicita ed ostentata o dissimulata in Mishima. Sono in conflitto aperto con le leggi e le norme della società opposte alla libertà di espressione e comunicazione per affermare una libertà soprattutto sessuale dell’individuo mentre Mishima viene visto nella sua particolare posizione caratterizzata dal ritorno alle tradizioni imperiali d’onore del suo paese. De Benedictis insiste su questa linea tematica fatta di battaglie legate anche allo spirito rivoluzionario postbellico che manifesta la vocazione alle sofferenze e al martirio del desiderio che diviene scrittura e cinema, specialmente per Pasolini e Mishima. L’anomalia maledetta si concretizza in un’attrazione per, o anche pratica di attività criminali su cui basarono molte delle loro opere controcorrente, originali ed estremiste. Burroughs, tossicodipendente e spacciatore, sparò senza volerlo alla moglie uccidendola in un tiro a segno allucinato dall’eroina e dalla morfina. Pasolini frequentatore e narratore delle vicende delinquenziali dei “ragazzi di vita”; Genet ladro, prostituto, traditore, aspirante omicida, chiuso per anni in carcere, dove cominciò a scrivere. Mishima cultore di una dimostrativa contro-rivoluzione con il sogno impossibile della rinascita di un Giappone imperiale, con un mini-esercito personale, che si tradusse poi in violenza contro se stesso con il suicidio rituale del harakiri. De Benedictis ricostruisce questi drammi e queste epifanie estetiche ripercorrendo e ricostruendo gli elementi comuni nell’unicità di queste significative e scomode personalità artistiche novecentesche. Egli mette in evidenza la loro solitudine di fondo anche se circondati da amici, amanti e discepoli e dalla moglie dai figli nel caso di  Mishima, ma anche da un’ostilità che le loro società nutrirono contro di essi – pure formalmente riconoscendone la “eccezionalità”, col successo ottenuto e qualche onore ufficiale.  Tutti uniti da una morte violenta annunciata o comunque traumatica. Pasolini fu assassinato; Mishima si suicida; Genet, ormai indebolito da un cancro, è vittima di un incidente nella camera di un alberghetto di Place d’Italie, nella sua odiosamata Parigi. Emblematica in tal senso è la figura di un maledetto anomalo ante litteram, l’architetto barocco Francesco Borromini (1599-1667) trasgressivo, ombroso e introverso morto suicida in contrasto con Gian Lorenzo Bernini(1598 –1680). Per De Benedictis, Borromini è l’uomo dei pieni armoniosi, come scrive nell’introduzione all’importante testo divulgativo dell’Opus architectonicum borrominaino (Francesco Borromini, Opus architectonicum, a cura di Maurizio De Benedictis, Roma, De Rubeis, 1993, pp. 4-12). Il dinamismo dello stile architettonico di Francesco Borromini introduce linee concave e convesse, forme ellittiche e illusioni prospettiche, in un equilibrio di riempimenti misurati degli spazi nel cuore dell’enfasi barocca mentre Bernini esalta i vuoti dando loro una forma come a dimostrare che il barocco, nella sua anomalia irregolare, sorprendente e inquietante può armonizzarsi nelle convenzioni ascetiche dell’equilibrio delle forme classiche. Anche i suoi scrittori maledetti anomali, con le loro opere e le loro esistenze travagliate, troppo estreme per essere accettate dalla società e dalle città: New York per Burroughs, Parigi per Genet, Roma per Pasolini, Tokio per Mishima, hanno un vuoto da riempire, quello della parte altra, oscura, ma rischiarante il complesso del secolo, il ventesimo, in cui questi intellettuali si consumarono allungando il loro influsso fino all’inizio del nuovo millennio,  tra vita, cultura, controcultura, superficie e profondità, tra Occidente e Oriente, dalla modernità al post-moderno. De Benedictis coglie questa scissione come stato di una relazione rotta o mancata che non può essere determinata solo dai contenuti dove il pensiero si muove nell’elemento del suo opposto. Questi autori sono « maledetti  anomali » perché  tentano con le loro opere e le loro vite o le opere nelle loro vite, di ricomporre l’unità originaria della vita dell’uomo. Lo studioso romano insiste sull’importanza ontologica e semantica della parola e della nozione di « vita », a partire da Pasolini, che diventa il paradigma e il nucleo centrale, per leggere le altre vite «collegate» sul modello « aumentato » di quelle  parallele plutarchiane, nell’abitare i vuoti, tra una esistenza e una identità precarie, in una socialità dominata da valori vissuti e denunciati come dispotici dai maledetti anomali. Infatti, riferendosi al periodo romano dell’autore friulano così De Benedictis in un suo studio precedente sul romanziere e regista italiano, analizza ed evidenzia questo concetto ripreso poi nel Pasolini « maledetto e anomalo ». 

Il termine «vita» a Roma è – o piuttosto era – intriso di significati speciali e contrastanti. Prima di tutto, c’è l’idea di una festa gioiosa, basata essenzialmente sul dispiegarsi della sessualità (valore liberatorio cresciuto in secoli di repressione papalina). Ma nel termine è anche presente una curvatura ironica, quasi una scettica coscienza dell’inconseguibilità ultima di un tale obiettivo, e dunque una sua alonatura come di un bene raggiunto e perduto; nostalgicamente vagheggiato (il film di Fellini, La dolce vita, ha posto il suggello su questa accezione). Allo stesso tempo, la parola ha anche avuto una connotazione delinquenziale, legata sia a fatti di piccola criminalità, sia, soprattutto, alla prostituzione e, per l’uomo – appunto, «l’omo de vita» -, al suo sfruttamento. I due romanzi romani di Pasolini – Ragazzi di vita e Una vita violenta – impattano sulla pregnanza di questa parola: il cui carattere cardine, specie nel primo, viene a costituire il punto di contatto tra l’esterno – la vita, la gioiosa e drammatica festa dei borgatari romani – e l’interno, cioè la solitudine e la diversità dello scrittore. Il punto di contatto tra quelli che erano i due piani paralleli in «Atti impuri» e i due poli dell’inizio festoso e del plumbeo finale nella traiettoria romanzesca de Il sogno di una cosa…Ecco perché dicevo che la parola «vita» sta all’incontro tra significato festivo e intonazione negativa; tra gli “altri”, i ragazzi, e la solitudine colpevole dell’io; tra il dialetto, dunque, parlato dagli “altri”, dai ragazzi, e l’italiano dell’io, di Pasolini (Maurizio De Benedictis, Il concetto di « VITA » nell’opera di P.P. Pasolini, in « Narrativa », Centre de Recherches Italiennes, Université de Paris X-Nanterre, n.5, febbraio 1994, pp. 33-34).

Nel testo di Accattone, sottolinea De Benedictis, si crea il massimo equilibrio tra vita presa nel suo incosciente edonismo e senso religioso, sacrificale come negli altri due testi per il cinema, Mamma Roma e il cortometraggio La ricotta dove il tema del sacrificio, con la specifica imitazione della crocifissione di Cristo, giunge alla sua più completa espressione con il film, Il Vangelo secondo Matteo  articolato « nelle suggestioni di un manierismo anche figurativo ». Si arriva a identificare una nozione mortifera e cristica della vita che assume un carattere paradigmatico in Pasolini:

La vita svela la propria pena nella morte : ecco l’antefatto di una famosa idea del Pasolini di una ventina d’anni dopo : la vita come una specie di piano-sequenza cinematografico di cui la morte esegue il montaggio e rende il senso… Questo è il primo fondamentale sdoppiamento in Pasolini, che, come vedremo, l’approfondirà senza tregua nelle opere successive. Nel vivo c’è già il morto, come nella festa c’è la solitudine e il dolore del soggetto, come negli abiti festivi si vedono già quelli che si indosseranno per la sepoltura, e come nei giovani si riconoscono i padri che furono giovani e sono invecchiati e moriranno. Da una simile incrinatura nasce la divisione, poi ampiamente teorizzata, tra “figli”, come esponenti di vita potenziale, e “padri” custodi del potere, cioè del mondo produttivo e normativo (Il concetto di «VITA» nell’opera di P.P. Pasolini, pp. 29-31).

Si tratta per De Benedictis, dello stesso mondo « produttivo e normativo » contro il quale vive, gode e soffre Jean Genet, romanziere e drammaturgo francese, autore di Nostra signora dei fiori, (Notre-Dame-des-Fleurs) e del Diario del ladro (Journal du voleur), che pubblica molti dei suoi scritti grazie a Cocteau e a Sartre, quest’ultimo  considerato dal critico romano il suo alter ego di un  « caïnisme » o cainizzazione concettuale fratricida tra carnefici e vittime. Gli amanti raccontati da Genet sono assimilabili ai « ragazzi di vita »a cui Pasolini dedicherà il suo primo romanzo del ’54. Il critico romano mette a confronto in questo modo il « realismo coloristico pasoliniano con il monologante teoricismo della passione genetiana» nella monografia dedicata allo scrittore francese. Genet riletto da De Benedictis è un maledetto anomalo in tutta la sua carnalità che diviene pornografia affettiva di protesta, erotismo che non arriva a sublimarsi completamente nell’orgasmo rasserenante, normalizzante e normativo in una condizione omosessuale imperfetta per la nostalgia della figura femminile. Cerca un godimento che non vede riscatto, una santità senza santi e paradisi, nell’abiezione sua e degli altri con cui interagisce, come leggiamo in questo illuminante passaggio. 

La polizia catalana ferma Genet per accattonaggio, gli trova in tasca un tubetto sudicio e strizzato di vaselina. Lo mettono sul tavolo del commissariato e si ammazzano di risate. La più madornale abiezione. Nell’immaginario di Genet quel lurido oggetto – favorente la penetrazione, negli alberghetti sordidi, negli angoli più degradati – assume la forma quasi sacrale di una lucerna funeraria. L’esposizione della vaselina, davanti a poliziotti robusti e virili, è un momento fondamentale dell’autobiografia genetiana: tutta la sua vita sta in quell’abisso di umiliazione, da cui egli risale verso una forma di orgogliosa dignità. Inverte il valore: si fa una forza della più profonda vergogna. Quel tubetto è il suo trionfo, la turpitudine voltata in “bellezza” (Maurizio De Benedictis, Maledetti & anomali: Jean Genet, p. 60).

William Burroughs, esponente di punta della Beat generation, ha sempre considerato Genet un sorprendente creatore di spazio romanzesco. Notre-Dame-des-Fleurs divenne un best-seller negli Stati Uniti, anche se a lungo venduto clandestinamente, influenzando gli autori della beat generation. L’impatto dell’autore francese sui testi di Burroughs è rilevante, come si vede in Ragazzi selvaggi (The Wild Boys: A Book of the Dead) del 1971, ispirato dal genetiano, Il miracolo della rosa (Le Miracle de la rose) e nelle descrizioni letterarie dell’omosessualità, specialmente nel romanzo, Le città della notte rossa (The Cities of the Red Night) del 1981 e nel capitolo pubblicato a parte, The Poppling. L’atteggiamento di Burroughs nei confronti della questione omosessuale come per Genet e Pasolini, non è strettamente limitato alla presunta deviazione ma alla difesa dei diritti degli omosessuali come lotta di civiltà. Inoltre De Benedictis accosta a Genet i tre autori che avevano previsto un collegamento tra la loro ultima grande opera e la morte: Burroughs con Terre occidentali (The Western Lands) che chiude la trilogia composta da Le città della notte rossa e Strade morte (The Place of Dead Roads); Pasolini con Petrolio; Mishima con la tetralogia de Il mare della fertilità (Maledetti & anomali: Jean Genet, p.11). Nel 1970, con la tragica morte di Mishima che annuncia quelle altrettanto drammatiche di Neruda e Pasolini, finisce per De Benedictis un modello classico di letteratura-cultura. Infatti il saggio su Mishima rivela anche una approfondita e chiara esemplificazione sulla storia e la cultura nipponiche a cui fa seguito un’appendice, dal titolo Postmoderno, orientalismo, neofascismo per collegare le istanze del Giappone e le conseguenze del suo impatto con la cultura occidentale al complesso e contradditorio mondo espressivo ed esistenziale del grande artista nipponico. Non si tratta quindi di esplorare i significati di un impero dei segni letterari ed estetici ma di osservarli seguendo il corso della spada e della penna che si fanno azione per trovare una ennesima e definitiva soluzione all’imperfezione per una sensibilità esasperata che si « in-scrive » nella carne autodistruggendosi.

Ho tenuto presente lo scopo, oltre a quello di capire il valore in sé di quegli scritti, di rintracciare il piano di vita che avrebbe condotto l’autore all’harakiri del 1970. Piano di vita – esemplato sulle due vie nipponiche tradizionali della “penna” e della “spada” – in cui, già dalla metà degli anni sessanta del Novecento, e forse anche molto prima, era inclusa quella morte spettacolare: come fine della letteratura e passaggio all’azione. Azione “politico-culturale” (con un gruppetto paramilitare da Mishima fondato e finanziato) sotto il segno di una sua personalissima estrema destra, utopizzante un mitico potere dell’Imperatore. Ma azione il cui vero intento era preparare non altro che l’autosacrificio dell’harakiri. Durante la scrittura di questo libro mi sono trovato a dover affrontare un intervento chirurgico che (spero) ha salvato la mia vita. Il chirurgo ha affondato il suo strumento esattamente dove Mishima l’aveva fatto nel proprio corpo, per perdere la propria vita (Maurizio De Benedictis, Maledetti & anomali: Mishima, dal dattiloscritto originale).

Le questioni politico-sociali, dunque, per De Benedictis si mischiano a problemi di linguaggio riguardanti, per lo più, la fine del vecchio modo di esprimersi, compresa l’avanguardia, e l’essenziale passaggio alla lingua della realtà quale il cinema. Questo vale ovviamente per Pasolini come il critico romano aveva già sottolineato nel suo Pasolini: la croce alla rovescia. I temi della vita e del sacrificio (Roma, De Rubeis, 1995).Col Pasolini polemista degli ultimi anni e autore di Petrolio, De Benedictis vede la compenetrazione dell’autore nella realtà, col tentativo di assumere il linguaggio proprio di questa: anche, si direbbe, al di la del cinema. Ma il linguaggio della realtà per Pasolini, ci rivela lo studioso romano, è quello della realtà del proprio corpo, del proprio desiderio. La realtà, politica e sociale, esistenziale e di costume, viene assunta, come attraverso una cinepresa (come si rileva dalle prose e dalle poesie scritte sotto questa angolazione), attraverso quella del proprio corpo. De Benedictis individua questo linguaggio pasoliniano della realtà nel cinema che filma la realtà attraverso il corpo che diventa tutt’uno con il film o con le pagine di un libro, sulla spinta del proprio desiderio come un percorso obbligato, con le dovute differenze e proporzioni anche per Burroughs con i suoi film di montaggio-collage sul Cut-Up nel 1964 e 1965, con Anthony Balch e Brion Gysin. Per Mishima, con il soffocante e rigoroso realismo estetico ed etico di sesso e hara-kiri, tra gocce di sudore e schizzi di sangue nell’unico film da lui scritto, diretto e interpretato, Yūkoku o i Riti d’amore e di morte del 1966, in bianco e nero, di trenta minuti. Per le sceneggiature incompiute di Genet come per i suoi romanzi simili a sceneggiature, scritti nelle prigioni e per il suo unico film da regista, Un canto d’amore (Un chant d’amour) del 1960. Un film onirico, muto, in bianco e nero della durata di 25 minuti, che ha la stessa costruzione di una realtà di corpi ripresi in isolamento nelle celle che si masturbano sognando altro, essendo in prigione secondo lo schema: prigione/ sogno/ prigione/ fantasma o desiderio/ prigione. La prigione è la realtà ma non si sa talvolta in quale mondo recitano gli attori. Corpo e montaggio uniti e guidati dal desiderio riempiono di contenuto i vuoti della realtà e si sovrappongono ad essa. Per continuare con l’analogia architettonica, gli artisti ci costruiscono sopra un altro mondo in chiave espressiva per arricchire la percezione umana con la problematica veicolata dalle loro opere. De Benedictis come un detective, svela questo procedimento, mettendosi nella pelle dell’autore, facendogli dire ciò che resta non detto. Egli fonda una analisi critica e una semiosi « aumentata », fatta di lettura rigorosa delle opere e compenetrazione nella vita intellettuale ed esistenziale degli artisti fin nei minimi dettagli, guidato dalla competenza letteraria e metodologica e dall’onestà intellettuale, per rendere omaggio e giustizia al loro sforzo creativo estremo. Questa architettura di montaggio e di corpi raccontati nella loro ambivalente vitalità tra letteratura e cinema, costituisce una delle trame critiche fondamentali seguite da De Benedictis per identificare i momenti costitutivi e il percorso della creazione estetica. Anche i suoi studi sul cinema si sono orientati prestissimo alla fase del montaggio con saggi fondamentali su Ejzenstejn (Immagini paralleleDue uomini e un film: Ejzenstein e Sklovskij, Ejzenstein e PudovkinBeckett e Keaton, Roma, Lithos 2000 e dello stesso autore, Ejzenštejn. Fino all’ultima estasi, Roma, Lithos 2001). Oltre alla laurea in Lettere, presso la “Facoltà di Lettere e Filosofia” de “La Sapienza” di Roma nel 1974, De Benedictis consegue nel 1980, dopo il biennio regolamentare anche il diploma in “Regia e Storiografia Cinematografica” del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e si dedica ad una prolifica attività di regista documentarista accanto a quelle della ricerca e dell’insegnamento della letteratura italiana e poi della storia del cinema alla Sapienza. Nei suoi studi riunisce attraverso la storia del cinema, le analisi sull’espressione cinematografica del corpo o il modo di recitare il corpo da parte degli attori, incluso ovviamente il volto, con la definizione tecnica e narrativa del montaggio che « taglia » in tante parti la vitalità della creazione cinematografica per stabilirne il senso. Il nostro Autore ripensa la semiotica e le tecniche del montaggio nella sintassi delle inquadrature e delle sequenze, collocate nella dimensione storica evolutiva e globale del cinema dei registi, dei tecnici e degli attori. Il suo libro Acting.Il cinema dalla parte degli attori (Roma, Avagliano 2005), contiene queste riflessioni sul montaggio che modifica la recitazione dell’attore « spezzettata » con una unità da ricostruire mentalmente rispetto a quella della continuità teatrale. Opportunamente in questa pubblicazione De Benedictis osserva che l’attore cinematografico deve mettere a punto l’unità interiore del suo personaggio nelle prove, prima delle riprese. Nelle prove l’attore deve elaborare una sorta di sceneggiatura concettuale del personaggio, in cui i vuoti delle spezzettature necessarie per le riprese reali sono riempiti dalla considerazione dell’unità generale del personaggio, come indica il metodo Stanislavskij perfezionato dall’Actors Studio di Lee Strasberg a New York. L’attore di teatro, nota ancora Maurizio, « teatralizza » la propria presenza con gesti manierati ed eccessivi che vanno riassorbiti nell’ artificiale naturalezza ingigantita dallo schermo cinematografico. L’attore deve servirsi delle visuali della cinepresa come una variazione espressiva. De Benedictis vede l’immagine di montaggio, quella in cui l’attore deve inserirsi valutando non solo i pezzi in cui risulta materialmente presente, ma anche gli altri in cui non è dinanzi alla cinepresa. Per esempio, l’inquadratura di un paesaggio – che, venendo prima o dopo, inglobano e ampliano il senso della sua recitazione. Profondo conoscitore del cinema italiano, De Benedictis lo ricolloca per quello che è nel suo farsi film per descriverlo « dentro l’immagine», specialmente per il Neorealismo e poi per la stagione d’oro della Hollywood sul Tevere nel volume, Da Paisà a Salò. Parabole del grande cinema italiano (Roma, Avagliano, 2010). Egli ricostruisce le modalità espressive nate dallo sguardo dei registi e illumina la cavità della maschera degli attori, scomponendo la loro recitazione. In tal modo il critico e lo storico entrano nello sguardo definito « autòptico » di Rossellini, « antropologico » di Visconti, « amoroso» di De Sica, « tecnico » di Antonioni, « simbolico » di Fellini, « feticista » di Pasolini. Per l’attore, De Benedictis scompone, tra gli altri la maschera di un interprete significativo della condizione italiana del secondo dopoguerra, quella di Alberto Sordi. Il critico incrocia la sua recitazione con la storia dell’arte, per la smorfia delle maschere ripresa dai mascheroni su ponti e palazzi dell’architettura barocca, con le neuroscienze dei neuroni specchio sulle funzioni cognitive relative all’istinto di imitare (e recitare), una stessa azione, eseguita da se stessi o da altri individui come base della cultura e dell’arte. Eduardo De Filippo è inquadrato con particolare attenzione dal critico romano nelle pieghe dei suoi lavori multimediali, di scrittore, attore, regista di teatro, cinema e tv. Il contributo maggiore alla storiografia cinematografica, nella vastissima bibliografia di Maurizio De Benedictis è costituito dall’ispirato, documentato e fortunato volume sulla storia del cinema americano, il cinema per antonomasia (Il cinema americano. Dalle origini ai giorni nostri, Roma, Newton Compton, 2005), osservato e raccontato come la rievocazione di una grande epopea collettiva, tra luci e ombre, di set naturali e artificiali, non solo impresse sulla pellicola ma anche nella personalità artistica e psicologica dei registi e delle loro opere. Dalle prime pagine lo storico del cinema, cineasta e narratore, ci mostra, come in un romanzo di iniziazione epocale, la nascita di questa cinematografia alla « luce », di un’energia economica, tecnica e creativa, a immagine della nazione che l’alimenta e la ispira. 

Il cinema americano nasce sui tetti : il mezzo necessita di un bagno di sole … La febbre di ciò che somiglia sempre più al cinema sale. Salgono, come si è visto, le troupes sui tetti dei grattacieli di New York, per un culto solare che è necessità tecnica. Poi gli studi si trasferiscono in spaziosi capannoni di vetro, dove, ognuno di fronte al suo scenario, i tecnici dei vari gruppi lavorano tutti insieme con riprese rigidamente frontali per inquadrare il proprio rettangolo di fondale. Produzione in serie, alla lettera, di più film girati contemporaneamente. La concentrazione è scarsa, voci e ordini si mescolano; ma il muto della proiezione pialla tutto. Il sole, arroventando le vetrate di quelle case di bambola per adulti, scioglie il trucco degli attori, il sudore sotto le giacche e i colletti inamidati, le gonne ampie e i busti, le bombette e i cappellini d’imitazione parigina. Nei film della Edison vi si aggiungono abbacinanti lampade ad arco, altra invenzione del Mago (Il cinema americano, p.11).

Il libro, piuttosto che ripercorrere organicamente la storia del cinema di Hollywood, traccia i profili di registi rappresentativi di particolari metodi espressivi, come anche del loro superamento, che chiariscono l’evoluzione  delle sue fasi fondamentali a partire dalla « Hollywood Classica », la Old Hollywood, dalle origini fino alla seconda guerra mondiale; seguita da quella « di mezzo», dal termine di quella guerra fino alla « Nuova Hollywood », cominciata alla fine degli anni Cinquanta-inizio dei Sessanta, e proseguita più o meno fino agli anni Ottanta, quando gli subentra un’ « Altra Hollywood»  o « una Nuovissima Hollywood », che per molti versi, secondo l’Autore, la prosegue e la ripete. Sfilano come in un film dalle inquadrature e carrellate accurate e dalla precisa messa a fuoco, i registi, dal « primo degno di questo nome, l’ingegner Edwin S. Porter », poi David W. Griffith, primo in grado di « mettere la cinepresa dentro l‘azione», Eric von Stroheim; Charlie Chaplin e Buster Keaton; Howard Hawks, Frank Capra e Fritz Lang, maestri « nell’uso ottimale dei mezzi tecnico-formali e dei generi narrativi » insieme ai continuatori e innovatori: Orson Welles « potere e disgrazia del carattere» , Alfred Hitchcock o « “lo stato di eccitazione” drammatica del cinema puro concentrando in ogni sequenza eventi e dettagli di caratterizzazione »; John Huston con « la ricerca e l’applicazione di una “grammatica” americana ». De Benedictis successivamente pone sotto la sua lente analitica un certo numero di realizzatori, della Hollywood « di mezzo », da Elia Kazan a Nicholas Ray, da Otto Preminger a Anthony Mann, Don Siegel, Samuel Fuller e Robert Aldrich  « capaci di rivitalizzare una produzione che andava incagliandosi nella reiterazione di temi e modi dei generi classici » come il western, il poliziesco, il cinema bellico, il  dramma e e il melodramma, e iniziano a dare una scossa alla tradizione con dei film noir, cioè di un nuovo genere fatto di atmosfere intriganti e inquiete, aprendo la strada alla « Nuova Hollywood ». Qui, nella terza parte, il critico cineasta traccia gli accurati ritratti di Stanley Kubrick, Arthur Penn, Sam Peckinpah e Robert Altman che « rinnovano potentemente il linguaggio di Hollywood, in un fecondo scambio con gli strumenti espressivi degli altri media, col cinema europeo, con i moti e sommovimenti sociali e culturali degli anni Sessanta» e oltre. Un’appendice sul cinema di genere e sulle nuove tendenze permette a De Benedictis di estendere il suo sguardo sulla « Nuovissima Hollywood » e sull’evoluzione dei generi tradizionali. Osserva quindi la parabola del western, da John, Ford a Clint Eastwood, dei film di fantascienza e non solo, di Spielberg « attualmente il più rappresentativo dei registi americani » con i suoi film dove « l’avvio è fulminante e i finali talvolta esitanti e scadenti », del musical con sua « geometria melodia, frenesia» fino alla commedia brillante da Lubitsch, Cukor, Billy Wilder a Woody Allen, nel suo personaggio eponimo che  « non si integra negli spazi un cui deve operare, li inceppa e li sconvolge » sulla linea dell’umorismo ebraico che va dai fratelli Marx a Jerry Lewis. I mafia movie dei registi italo-americani per De Benedictis, da Scorsese a De Palma, Cimino e Coppola con il Padrino fino a Tarantino, sono opere con « senso della violenza privo del senso dello stile». Lo stile e la dinamica dello stile, scaturiscono, per il nostro critico, dalla violenza del movimento insita nel cinema americano fin dai dodici minuti de L’assalto al treno postale (The Great Train Robbery) del 1903, di Edwin S. Porter, primo western o ritenuto tale nella completezza narrativa della sua dinamica violenta ed opera canonica e seminale di tutti i film di azione, come egli sintetizza in un saggio sul western americano e Peckinpah.

L’esito del primo western assomiglia a quello del celeberrimo Arrivée d’un train à La Ciotat dei fratelli Lumière: uno schock psicomotorio per gli spettatori. Con la differenza che a Parigi, per la proiezione del 1895, a valere fu la semplice novità tecnica dell’immagine in movimento. Mentre a New York, otto anni dopo, l’effetto – c’era comunque anche qui un treno, il più cinegenico dei veicoli (il bandito che spara è come un macchinista che guida la locomotiva contro gli spettatori) – fu la storia che quel movimento sosteneva: o meglio, lo specifico ingranarsi di vicenda raccontata e tecnica dell’immagine in movimento. L’acme di questo ingranaggio è la violenza peculiare del primo cinema americano, e poi della maggior parte del suo seguito nei generi e nei film. L’immagine in movimento si valorizza nel movimento violento, che è per definizione il più incisivo, il più spettacolare. Un movimento, ovvio, che non sfocia nel caos ma si dà delle regole incanalanti e autoprotettive (versione italiana, originale di Maurizio De Benedictis, Western et genres violents. L’aventure de Sam Peckinpah (traduzione di Maurice Actis-Grosso), in Transductions : Du western américain au western italien, a cura di Gius Gargiulo, numero monografico della « Tribune Internationale des Langues Vivantes», n. 50, maggio 2011, p. 16).

La violenza, continua De Benedictis, si congiunge al massimo della produzione competitiva, con i metodi del fordismo, del taylorismo: una violenza esercitata sul lavoro per trarne il massimo del profitto. Il sistema competitivo genera connaturatamente violenza velocità e violenza, movimento violento ma anche ludico e spettacolare. Una violenza dinamica che Quentin Tarantino ricostruisce come un elemento consustanziale espressivo del cinema statunitense che da quello di genere invade il farsi del cinema stesso, tra sceneggiatura-regia-recitazione, nel suo recente volume intitolato Cinema speculation (traduzione di Alberto Pezzotta, Milano, La nave di Teseo, 2023). De Benedictis si rivela acuto e raffinato saggista per la qualità delle sue intuizioni che fanno intravedere nuove metodologie o nuovi promettenti percorsi di ricerca tra letteratura, cinema e arti visive e per la chiarezza espositiva, quasi in una prosa narrativa di ascendenze gaddiane. Sulla scia di Calvino e Pasolini, egli considerava «l’ingegnere », un esempio non solo di stile e di trasparenza linguistica ma anche di intensità narrativa tanto da dedicargli  una  densa e approfondita analisi (La piega nera: groviglio stilistico ed enigma della femminilità in Carlo Emilio Gadda,Roma, De Rubeis, 1991). Orienta la sua ricerca sul linguaggio e la narrazione di un altro grande maestro di stile della letteratura contemporanea, Giorgio Manganelli (Manganelli e la finzione, Roma, Lithos, 1998).  Anche i suoi romanzi, in un italiano rigoroso sul piano sintattico e puntiglioso, forse fin troppo su quello lessicale, si possono leggere come degli avvincenti saggi alla ricerca di enigmi esistenziali e intellettuali in cerca di soluzione. Se nella redazione di un saggio si deve snodare e dipanare la problematica per annodare alla fine le conclusioni epistemologiche, nei romanzi si fa l’inverso, si annodano o si « intrecciano » le vicende e i profili dei personaggi che si snodano alla fine nel descrivere il nuovo equilibrio o squilibrio raggiunto sul filo del racconto. De Benedictis anche nella finzione narrativa procede per snodi progressivi fino a quello finale. Il saggio in forma di romanzo sulla narrazione delle geometrie del dolore nell’anima e nel fisico è incentrato sulle tracce di una diva assoluta, incomunicabile, chiusa nel suo mito tra ricordo e realtà, tra Costiera amalfitana, Roma e l’altra parte dell’Atlantico, nel suo primo romanzo, l’Estate di Greta Garbo (Roma,Avagliano, 2006). Qui la «vissutezza» del vissuto di Greta Garbo dall’estate del 1938, durante una sua celebre vacanza sulla costiera amalfitana, nello splendore di un paesaggio sospeso tra cielo e mare, tra profonda sensibilità artistica e il presagio della fine della sua carriera, per lo scoppio incombente del conflitto mondiale, viene ripercorsa e ricostruita nella sua autenticità dal vissuto e dalla sensibilità del protagonista, ultimo di tre generazioni della sua stessa famiglia a trovarsi dinanzi in epoche diverse, Greta Garbo. Una Madonna apparsa fuori dal paradiso cinematografico. L’attrice ieratica, viene tolta dall’involucro della sua incomunicabilità inespressa di diva-divina. Un involucro luminoso « sciolto» dinanzi al lettore come l’ultima stazione di un viaggio o  il risultato di una ricerca approfondita, continua, quasi accanita che riempie tutto il tempo dei ricordi e invece di dare soddisfazione e felicità mostra « in fine » i confini e la certezza di un mondo perduto e racchiuso nelle apparizioni-perdizioni di Greta Garbo. Un’altra dolorosa e tragica ricerca è quella del protagonista di Un filo di corallo rosso, come riflessione sul male, questa volta nel senso assoluto dell’Olocausto nazista (Roma,Avagliano, 2018). Negli anni Settanta del secolo scorso, Ignazio, un ricercatore italiano di storia contemporanea in sabbatico a Parigi, incontra un vecchio tedesco che lavora come guida clandestina nelle catacombe della capitale francese. Divenuti amici, il vecchio gli narra fatti della Seconda guerra mondiale, come l’occupazione di Parigi fino alla decisione di sterminare gli ebrei, uno dei più funesti eventi della Storia, la Shoah, da una prospettiva intima che lo mette in relazione con la guerra, combattuta dagli aguzzini contro le vittime. I personaggi di questa storia agghiacciante sono realmente esistiti. Essi sono descritti al giovane ricercatore con una ricchezza di informazioni e considerazioni che svelano a Ignazio la guerra vera, vista da dentro, da un testimone eccezionale e mostruoso, un criminale nazista ormai vecchio che gli sta di fronte. Questa ulteriore scoperta o ennesima agnizione spinge Ignazio ad una tragica azione finale, che trasforma il suo campo di studio, la Storia, in una vicenda personale di vita e di morte. Nella finzione narrativa si conferma l’idea di fondo dello storico e del critico saggista che per giungere all’autenticità come realtà ricostruita a posteriori, « tornato sul luogo del delitto », deve aumentarla, riempirla nei vuoti o illuminarla completamente con un potente riflettore mentale che trova la sua energia e la sua ratio nella strenua e difficile voglia di inseguire l’oggetto della sua ricerca, del suo interesse, per svelarla e risolvere l’enigma, fino a investire tutta la carnalità del proprio esistere.