Se il Gattopardo balla con Barbie

di Gius GARGIULO

Ci sono articoli che non ti aspetteresti di leggere oggi, come quello della pur autorevole giornalista esperta di cinema, firma storica del Messaggero e del Mattino di Napoli, Gloria Satta, intitolato, Il Gattopardo, un capolavoro senza età.
Qui, Satta, commentando il recente successo di pubblico del passaggio televisivo in prima serata del film di Visconti appena restaurato, ci informa sul suo remake nella prossima serie Netflix e sui retroscena sulla storia del lavoro viscontiano e di Otto e mezzo di Fellini, girati nello stesso anno ed entrambi con Claudia Cardinale.
La giornalista afferma inoltre, che «oggi il cinema ha cambiato pelle e insegue gli incassi sfornando costosissimi film-giocattolo come Barbie» mentre ci lascia intendere che all’epoca dell’uscita del Gattopardo, dei film di Fellini, De Sica, Pasolini & CO. questo succedeva di rado. Oltre alla disinformazione sul fenomeno Barbie, grave per una giornalista cinematografica, Satta rivela uno strabismo mediatico in quanto ci riporta alla discussione anni ’50, obsoleta e superata dalla realtà dei fatti, sulla letteratura nobile e cinema d’autore minacciati da quelli di massa ed ora dall’instantbook. Quest’ultimo utile, diciamo noi, per approfondire la cronaca ed anche il gossip, benvenuto in un paese dove si legge poco. Nel ‘58 anno di pubblicazione del Gattopardo, dopo le note vicissitudini editoriali, si passava dal «neorealismo rosa» al « neorealismo leggero » con il « caper movie », I soliti ignoti di Monicelli, il manifesto della nascente e prolifica commedia all’italiana e si stava girando a Cinecittà il kolossal americano-italiano Ben-Hur, insieme ad altri « polpettoni » come li ribattezzò il cinismo romanesco, di grande successo. Su quel set si faceva le ossa anche il giovane Sergio Leone sotto le indicazioni di registi e tecnici hollywoodiani. Inoltre proprio con la produzione, la co-produzione, principalmente con gli Studios americani, e la distribuzione planetaria di quei film, detti all’epoca “di cassetta” perché facevano cassa guadagnando una vera «barca di soldi», come più tardi con i western, gli horror e i soft porno, tutti girati nella nostra Hollywood sul Tevere, con registi e tecnici italiani apprezzatissimi all’estero, si potevano, come oggi, finanziare anche i film d’autore che hanno fatto grande il cinema italiano. Ricordiamo che anche all’epoca dell’adattamento del Gattopardo al cinema, nel 1963, trovare dei fondi era difficile, come ci ricorda opportunamente la stessa Satta. Per i costi astronomici il film fu reso possibile dall’intervento dei capitali americani che imposero Burt Lancaster come protagonista, e per lo sforzo degli sceneggiatori abituati a dover rendere commestibile al grande pubblico anche un prodotto culturale difficile sotto l’occhio dispotico e attento al botteghino dei produttori e con le nevrosi creative dei registi.
Il Gattopardo trova il suo successo proprio nel circuito della cultura di massa (romanzo in edizione tascabile, adattamento cinematografico e passaggio in televisione generalista). Riesce ad essere ancora più visibile per essere apprezzato dal pubblico vastissimo di oggi. Le recenti edizioni tascabili del romanzo di Lampedusa in Francia hanno in copertina le foto di Burt Lancaster e di Claudia Cardinale protagonisti del film. Un romanzo e un film scomodi, che andrebbero d’urgenza studiati nelle scuole dell’obbligo per capire cosa significa diventare italiani nella storia recente.
Il Gattopardo è il nostro Via col vento, tratto dal romanzo di successo di Margaret Munnerlyn Mitchell, coetanea di Tomasi di Lampedusa, con lo stanco Don Fabrizio Salina-Burt Lancaster nel Sud borbonico al posto della volitiva Scarlett-Vivien Leigh, nel Sud americano. Un vastissimo territorio, ugualmente latifondista, destinato come il nostro Meridione, a perdere la guerra con i nordisti, e come per noi, mutatis mutandis, a trascinare fino ad oggi le conseguenze politiche sociali di quella guerra che non è mai realmente finita.  Una sconfitta aggravata dalla crisi economica successiva e dalla drammatica condizione degli afroamericani costretti nel secolo scorso, per il segregazionismo sudista, a emigrare nelle industrie automobilistiche del nord degli States come i nostri braccianti meridionali in quelle del Piemonte e della Lombardia. Il teatro e i romanzi nella cultura di massa stanno al Settecento e all’Ottocento come il cinema sta al Novecento ed in entrambi i casi le idee profonde e complesse diventano accessibili perché messe in scena dall’empatia dei personaggi di fronte ai conflitti che devono affrontare sul filo del racconto. Lo stesso fenomeno si sta verificando con il film Barbie, dove la celebre ed iconica bambola, con l’eterno fidanzato Ken e con il suo mondo Barbieland rosa confetto, impattano con il mondo reale. Barbie la bambola bionda e slanciata creata dalla Mattel nel 1959, nota come fashion doll, il nome esteso di Barbie è Barbara Millicent Roberts, emblema di un modo standardizzato di essere donna, non più relegato alla maternità e al focolare domestico, è stata venduta in oltre un miliardo di esemplari in almeno 150 nazioni e ancora oggi se ne vendono tre al secondo. Si tratta di un vero e proprio fenomeno planetario nella storia del costume e sul modello di interpretare la femminilità che ha ispirato il film omonimo. Qui Barbie si trova a dialogare e a riflettere con le successive varianti della sua linea di bambole: Barbie avvocato, giudice, medico, diplomatica, giornalista e perfino Barbie Proust, sulla condizione femminile come accade a Ken per quella maschile con le sue rispettive diversificazioni. Non si tratta di un «film-giocattolo », del resto la stessa Barbie-bambola della Mattel nel suo progetto commerciale va bel oltre questa nozione semplicemente ludica, ma di un’opera di fiction capace di trasmettere un’idea forte in un film problematico che con leggerezza parla della condizione della donna di cui Barbie-bambola è il prodotto in una società patriarcale dal dopoguerra ad oggi. Il femminismo di Barbie politicamente corretto si scontra con quello arrabbiato, «woke» dell’adolescente presente nel film. Con la profondità analitica di un saggio di sociologia, attraverso una potenza espressiva straniante, dialogica, musicale, coreografica e filosofica, questo «fantasy comedy film»  riesce a unificare il lato ovviamente Glamour  con quello di una critica costruttiva della società americana per far uscire le donne e specialmente gli uomini, da un’eterna adolescenza esistenziale patriarcale e prendersi ognuno, insieme, le proprie responsabilità.
Una vera e propria operazione di « alta cultura » eseguita dall’attrice e regista Greta Gerwig per lanciare dibattiti degni di quelli degli anni Cinquanta tra politica, cultura e mondo dello spettacolo, opportunamente evocati da Satta. Barbie come epitome di un modo di essere per la storia della donna occidentale ormai entrato in crisi, ha un po’ lo stesso ruolo del Gattopardo  per la storia italiana nel personificare le conseguenze della celebre “inerzia” che ricade sull’oggi della Sicilia e sull’intera Nazione. Sono rimasto favorevolmente stupito nel vedere le sale affollatissime per il film Barbie a Parigi ma anche in tutta la Francia, con persone di entrambi i sessi e di tutte le età per un film complesso nella sua organizzazione discorsiva e concettuale, ma che obbliga a porsi degli interrogativi e a crescere mentalmente. Questo afflusso eterogeneo di pubblico si verifica fortunatamente anche in Italia ugualmente per un altro film impegnativo ma ben raccontato come Oppenheimer di Christopher Nolan, campione d’incassi insieme a Barbie negli Stati Uniti e in Europa. Questi due film ci dimostrano che anche grazie ai vituperati social e alle recensioni cinematografiche di condivisione sul web come Letterboxd, si possono trasmettere idee di emancipazione. Non a caso Barbie che parla specialmente agli uomini, sia stato vietato nei paesi arabi, in Libano, Vietnam e Camerun. Il film apre uno spinoso dibattito tra timide aperture e conservatorismo sempre dominante. Fabrizio Salina rifugiato nella sua polverosa villeggiatura a Donnafugata come Barbie nella sua Barbieland, devono reagire alla loro maniera, ai cambiamenti che li minacciano, fuori dai loro mondi. Vedo bene a questo punto il principe Fabrizio Salina impeccabile e nel suo frac, ballare il celebre valzer verdiano con la « Stereotypical Barbie » interpretata da Margot Robbie, leggermente ingessata con l’abito di Angelica, mentre i due Tancredi-Ken gelosi (Alain Delon e Ryan Gosling) si trovano in un angolino di un salone delle feste tutto rosa della casa di Barbie, prodotto tra gli accessori della celebre bambola a 150 $ con dentro bersaglieri e garibaldini dei quali si immagina l’accento piemontese e padano, come soldatini nelle divise impeccabili,  plaudenti insieme agli arrivisti nuovi ricchi, come Don Calogero  che aspira ora ad essere anche il padre di Barbie.
Il mestiere di giornalista certo, è un lavoro difficile. Ci sono tanti condizionamenti : la velocità nel comporre un pezzo, la mancanza di spazio nel Desktop publishing(DTP) per le testate on line e su carta, per approfondire qualche concetto o abbozzare delle riflessioni. Comunque anche nel settore veloce dell’informazione cinematografica, i giornalisti talvolta rischiano di restare nella Barbieland dei luoghi comuni e della disinformazione quando sarebbe utile documentarsi anche sommariamente sui film che stanno per uscire nelle sale per fornire al lettore motivazioni e spunti di discussione su queste opere, oltre a quelle di successo consolidato, i cosiddetti « classici », senza mostrare pregiudizi tra cultura alta e bassa in cui ci muoviamo tutti e per superare il consueto discredito del presente rispetto al passato glorioso del cinema italiano e non.