Guida Galattica per i lettori | Settembre 2023
contenuti
- AMICO ROMANZO Napoli scontrosa di Sara CARBONE
- SIPARI APERTI Il fuoco nella fossa di Emanuela QUARANTA
- COME SUGHERI SULL’ACQUA Mudrābox(e). Cos’è questo scatolo rosso? Cosa conterrà con questo titolo bianco? di Ariele D’AMBROSIO
AMICO ROMANZO
NAPOLI SCONTROSA
di Sara CARBONE
Napoli scontrosa di Davide Vargas, La nave di Teseo, 2022, p. 500.
Saper guardare, scrive Italo Calvino, è indispensabile per «essere in mezzo al mondo»; quando le cose che ci circondano manifestano una certa ritrosia a mostrarsi, si rende indispensabile un occhio educato a «guardare nel retro della realtà», l’occhio che possiede chi è capace di “mettere a fuoco” immagini, che sa, magari, “pensare per immagini” e raccontarle partendo da esse. Davide Vargas, con Napoli scontrosa, edito nel 2022 per la casa editrice “La nave di Teseo”, nella sua duplice veste di architetto e scrittore, ha allenato lo sguardo a cogliere “immagini nascoste” e la penna a una prosa agile per poterle raccontare.
Immergendosi in un’esperienza odeporica nei luoghi e nei “tempi” della Napoli “segreta”, restituisce alla narrazione una città «collinare e verticale», congeniale a chi ritiene che, per spostarsi nella geografia, sia necessario alimentare «pensieri obliqui da inseguire». Il racconto è un vero e proprio attraversamento della “capitale borbonica” che la luce della controra trasforma in luogo della speculazione edilizia e in «sequenza delle occasioni perdute»; un vagabondare in cui l’idea del percorso è prioritaria rispetto a quella del luogo d’arrivo; quando così non è, il tragitto assume la forma letteraria del climax e si accelerano i tempi del viaggio sotto la guida della “stella polare” della meta. Napoli scontrosa è un «itinerario sentimentale» compiuto da Vargas ora, a piedi, da autentico flâneur che, a volte, si smarrisce, altre si riscopre a contare i suoi passi; ora, in auto; ora, in vespa e casco bianco – con espliciti riferimenti a Nanni Moretti; ora, in treno, mezzo ideale per godersi il tempo dell’esperienza e per scorgere, dai finestrini, «il paesaggio dell’esistenza». Svincolato da pregiudizi culturali, l’autore coglie «episodi di qualità» anche in sequenze di immagini opprimenti e disordinate come quella che gli si offre, un giorno, a Fuorigrotta; capace di guadagnarsi la prospettiva dell’“esule”, come accade a Santo Strato, egli non lascia «spazio alla banalizzazione degli stereotipi» e scorge nella città un “atlante” in cui, a ogni pagina, si sfoglia una storia di «costruzioni, persone, sovrapposizioni, amministrazioni e scelte politiche».
Il concetto stesso di “luogo” viene ripensato. Oltre i centri, le periferie e le strade, anche la Natura, con le sue erbe infestanti che si insinuano negli interstizi dei muri e tra i gradoni delle scale, è “posto”; la Luce, che spesso «entra nel vetrocemento» e, a volte, fa da guida allo scrittore, può vantare una sua superficie praticabile. Luoghi diventano i due milioni di libri, opuscoli e manoscritti della Biblioteca Nazionale: sono questi gli “spazi” frequentati da coloro che «portano addosso ferite di guerra». In una città in cui la separazione fra pubblico e privato è più labile che altrove, poi, il “balcone” assurge a “luogo” per eccellenza. «Bacheca di personalizzazioni fai da te» a Fuorigrotta, struttura panciuta con cornicioni possenti altrove, luogo angusto per sorseggiare un caffè – suggestione, spesso dichiarata, prodotta dalla drammaturgia eduardiana –, il balcone resta quell’elemento architettonico aggettante che mette in comunicazione il dentro con il fuori, che porta sulla strada i vissuti intimi e familiari. Che sia quello con i panni stesi di Rua Catalana o quello progettato da Francesco Della Sala secondo i dettami del Bauhaus a via Marina, questa sporgenza architettonica è simbolo di una cultura parimenti “aggettante”, tutta protesa alla condivisione e all’occupazione dello spazio pubblico; esso è metafora, infine, di una città con l’affaccio sul mare e, per questo, dialogante con altri popoli e sensibilità.
Napoli è anche un “luogo culturale” e, per questo, esiste anche una «Napoli fuori Napoli» che Vargas ritrova a Tel Aviv così come a Parigi o a Lampedusa. È il luogo mentale della civiltà mediterranea dalle solide radici e quello della pietas, del “nesso” fra l’io e il resto dell’umanità; è la summa di tutti i luoghi il cui racconto è imbastito con il filo conduttore della povertà.
In contrasto con quella folla di persone a piazza Dante, catturate come in un «innaturale fermo immagine», si stagliano figure umane la cui pregnanza le fa diventare parte integrante dello scenario stesso. È l’anziana signora in vestaglia di flanella che sta su un balconcino dei quartieri spagnoli; la donna con «il corpo spezzato dalla sconfitta» che, fuori alla stazione della Circumvesuviana, ripete come in una filastrocca ai passanti: “Andiamo in camera, señor”; uno con un tavolino e tre carte la cui espressione del viso, a un tratto, si fa dura come quella dei predatori; un uomo andato negli anni con la camicia aperta e le forme flosce che si aggira dove «le signorine vanno in bicicletta senza pedalare» e un altro con la barba lunga bianca e «un’espressione straniera» come Georges Moustaki degli anni Sessanta. Tutte presenze senza nome alle quali potrebbe esserne affidato uno qualsiasi.
A un tratto, un nome, Tiziana; una collega che viene da Genova e chiede di vedere il Cimitero delle Fontanelle. Esplorando la città ipogea e stratificata, inizia per Vargas anche il viaggio nel passato, alla ricerca, magari, di «un segno che viene dalla temperie di una cultura che sognava di cambiare le cose». Le dimensioni Spazio e Tempo si fondono, infine, quando lo scrittore ritorna nei luoghi già visti come San Gregorio Armeno o il Palazzo Reale, perché se «l’avventura scatta seguendo le tracce del già noto», è pur vero che «l’imprevedibile delle città strizza l’occhio» e un secondo sguardo diventa necessario anche per preservare la memoria: ripercorrere certi itinerari significa non perderli, trasformarli, come i musei, in “permanenze”, segni stabili che combattono contro l’anonimato dell’ambiente.
Napoli scontrosa è una storia costruita a partire da “brandelli di tempo” ossia una raccolta di centocinquanta scorci del capoluogo campano, pubblicati ogni sabato su “la Repubblica” di Napoli, dal settembre 2017 all’aprile 2022, nella rubrica Narrazioni_I Luoghi. Dietro un itinerario geografico, si cela una narrazione storica: il 9 marzo 2020, anche Napoli si chiude a riccio, è “zona rossa” come tutto il Paese. Trascorrono 21 giorni prima che Vargas riprenda a scrivere. «Ho attraversato i luoghi della città», così inizia lo “scorcio” del 30 marzo: da scrittore veggente, Vargas ha optato per un verbo al tempo passato e concluso. E, stavolta, il titolo non rimanda a un luogo ma a un tempo, Tempo di quarantena. Un’era si è chiusa e, a partire da questa data, esiste un altro storico “prima” e “dopo”.
Se non fosse per quelle incursioni della radio che riportano sul piano della contemporaneità il tempo della scrittura e quello dell’esperienza, l’autore ricorre, come il poeta romantico Wordsworth, all’espediente dell’«emotion recollected in tranquillity»: prima visita i luoghi, poi, ne scrive in un tempo differito. Convinto che ogni elemento architettonico sia esso stesso «scrittura e sovrascrittura del testo di città», con un procedimento narrativo che si dà, ora per contrasto, ora per ripetizioni di immagini, Vargas trasforma il luogo fisico in figura retorica. Il Centro direzionale, visitato una domenica pomeriggio, diventa campo semantico che comprende le nuvole nere e la luce fredda; la scarica elettrica e il cielo scuro; la donna di colore e la pietra brunita.
Il lessico, colto e ricercato, alimentato da un solido patrimonio culturale che spazia dalla Storia alla Letteratura, dalla Musica al Cinema, passando naturalmente per la Storia dell’Arte, è inserito in una sintassi paratattica, veloce e leggera. Frequente il ricorso alla tecnica dell’elenco di parole, di aggettivi, di sintagmi o di intere proposizioni, così come consueto è l’uso di parole-frase o sintagmi nominali-frase, espedienti narrativi che eleggono Italo Calvino a genius loci della scrittura di Vargas. Anche quando non citato esplicitamente, lo scrittore sanremese c’è sempre: le due straniere a Villa Campolieto, che esclamano: «They might be roses», al cospetto di alcuni fiori rossi, rimandano ai turisti del racconto “Serpenti e teschi” di Palomar; Ottavia, l’unico nome di donna citato assieme a quello della collega genovese, è lo stesso di una “città invisibile” di Calvino. Del resto, Napoli scontrosa, come Le città invisibili, scaturisce da quel desiderio di scrivere un “poema d’amore” alla propria città, proprio quando ci si accorge che diventa sempre più difficileviverlacome tale.
SIPARI APERTI
IL FUOCO NELLA FOSSA
di Emanuela QUARANTA
Un aforisma – comunemente attribuito a Bernardo di Chartres e citato da Giovanni di Salisbury nel Metalogicon – ci ricorda che “noi siamo come nani sulle spalle dei giganti”; esulando dal giudizio di valore o da un confronto sterile tra la cultura degli antichi (i giganti) ed i contemporanei (solo nani sulle loro spalle!), queste parole danno un’immagine suggestiva di una pratica tipica della cultura: l’idea che nulla si crea e nulla si distrugge ma che antiche intuizioni, immagini e formule si fanno strada attraverso i secoli, si depositano nel retaggio delle generazioni, e sopravvivono mutando pelle e assorbendo dal presente linfa nuova. Nella fiaba, in particolare, archetipi atavici vengono declinati in modo originale da ciascun popolo che la eredita e la rielabora.
Il fuoco nella fossa di Massimo Andrei è un prodotto esemplare di questa polarità tradizione/innovazione: si tratta di un’originalissima raccolta di fiabe o, meglio, di “cunti” – termine eloquente, che richiama l’antica tradizione narrativa che l’opera recupera – inseriti in una “cornice classica e attualissima allo stesso tempo”; racconti che strizzano l’occhio a Giambattista Basile ed al suo Pentamerone ma elaborati dall’autore con grande libertà e contraddistinti da una cifra identitaria che dona all’opera un valore aggiunto. È lo stesso Andrei a chiarire ai lettori, nella Nota dell’autore, le dinamiche intercorse, durante la stesura, tra l’elaborazione e la tradizione (citando autori come Giambattista Basile, Matilde Serao, Annibale Ruccello…): “Poiché il tema di alcune fiabe è stato ripreso da più autori” scrive “ho tenuto presente le diverse varianti, operando talvolta una sintesi, e aggiungendo situazioni ed elementi naturali, fioriti durante le repliche di uno stesso racconto. In determinate situazioni, quando si instaura pienamente una circolarità energetica e prossemica, il pubblico stesso suggerisce, risponde o commenta con battute e soluzioni impreviste”.
“Il fatto racchiuso nella novella” – scrive Luigi Settembrini nell’introduzione alla riedizione del Novellino di Masuccio Salernitano, riportata dall’autore nella sua opera – molte volte non appartiene a nessun uomo particolare, ma a tutto un popolo, anzi a molti popoli, e ognuno lo ripete a modo suo, lo fa avvenire nel suo paese, e al suo tempo”. Eppure, ne Il fuoco della fossa una voce particolare si fa sentire: la voce di Massimo Andrei, autore-attore, diluita nelle voci dei suoi personaggi che rappresentano, con la loro varietà, uno squisito campionario umano, uno specchio del mondo. E così, in un casale fuori Napoli, Francesco Corricelli, o’ filosofo, amico fraterno del nostro narratore riunisce – per errore o per curiosità antropologica? – “sette personaggi molto diversi tra loro, sia per età che per estrazione sociale”: Nello Torello, affermato pittore; suo zio, proprietario del casale, amante del buon cibo e della buona compagnia; la sua compagna Filomena, esperta di psicopedagogia infantile; Clorofilla, trans m-to-f vegetariana e molto social; suor Aurelia, sorella di don Nicola, suora ritirata a vita casalinga; e Rita, amica e confidente di suor Aurelia, donna saggia e mite.
È la stessa personalità dell’autore – e del suo alter ego narrante, Nello Torello – a conferire all’opera la sua cifra distintiva: “ci sono uomini di scena e uomini di libro” – scrive Giuseppe Pesce nell’Introduzione, riprendendo il titolo di un’opera di Taviani – “E Massimo Andrei – con la sua vivace attività di attore, regista e autore di cinema e teatro – appartiene certamente a una generazione che si colloca sempre più a metà strada tra la scena e il libro, ovvero tra tutto quello che dalla letteratura rifluisce nel mondo dello spettacolo e che dallo spettacolo si riversa nella letteratura; divenendo, in questo caso, racconto e memoria”.
Insomma, gli ingredienti della buona fiaba nell’opera di Massimo Andrei ci sono tutti e i suoi cunti, proprio come le fiabe, conservano una certa atemporalità; tuttavia, il valore del tempo si insinua con forza tra le pagine. Innanzitutto, neppure al lettore più disattento potrebbe sfuggire il riferimento a “un’infezione da un’altra parte del mondo, che tutti sentivano al telegiornale, e che si diffondeva tra la popolazione”, che costringe a “stare molto tempo senza uscire di casa”: l’epidemia di Covid-19, che tanto ha segnato la nostra storia recente. Il senso del contemporaneo, però, non è l’unico indicatore cronologico all’interno dell’opera: del tempo, l’autore si premura di evidenziare anche il valore; ci propone un paradigma di tempo ben speso, tra gli affetti, che è possibile trascorrere dedicandosi ai piaceri semplici (il buon cibo, una buona storia), quel tempo prezioso che nella quotidianità della nostra vita dimentichiamo di preservare.
L’opera cattura il lettore con la sua alternanza di registri e di temi disparati: la loro complessità – spesso adombrata da un velo di ironia – viene condensata e somministrata sapientemente al lettore mediante l’uso di proverbi che restituiscono il sapere antico e la voce del popolo, tradizionale depositario della saggezza delle fiabe. Ad impreziosire i cunti, inoltre, emergono intrecci e figure mutuate dalla cultura greca antica e dalla sua mitologia, anch’esse manipolate ad arte, fiabescamente alterate, eppure mai compromesse nella loro essenza.
Altro tratto caratteristico dell’opera è l’utilizzo simbiotico di media diversi, ciascuno dei quali concorre, con la propria peculiarità, a restituire una delle facce di quest’opera così squisitamente versatile. E se, tradizionalmente, la dimensione dell’oralità viene sacrificata alla parola scritta – veicolo preferenziale per la diffusione della cultura – ne Il fuoco nella fossa essa viene recuperata attraverso un espediente: la possibilità di ascoltare alcuni racconti dell’opera narrati (o, come scrive l’autore, “cuntati”) dalla voce di Massimo Andrei attraverso i codici QR riportati nella sezione “Contenuti speciali”.
Un’attenzione particolare meritano le illustrazioni di Daniela Pergreffi che impreziosiscono l’opera con la loro vividezza e la loro forza, esaltate da una cromaticità ridotta all’essenziale nella scelta del nero e del rosso. Questo incontro felice tra testo e segno – tra narrativo e visuale – potenzia le suggestioni della parola scritta.
Sullo sfondo dell’opera – uno spazio scenico sottilmente evocato – la città di Napoli, la sua geografia (“il dio Vesevo, grande e potente, che aveva davanti a lui uno specchio d’acqua, che sembrava un ferro di cavallo aperto verso il mare”) e la sua fauna umana, allegoricamente illustrata attraverso le immagini di insetti, coccinelle, “grilli, tafàni, ragni, ragnetièlli e ragnùni”.
A fare da filo rosso all’intera opera è il fuoco: il fuoco nella fossa, che dà il titolo ad un cunto ed alla raccolta stessa, ma anche il fuoco del calore umano, il fuoco come elemento della natura che “non è solo puro e purificatore. Anzi, può essere inquinante e tossico quanto gli altri, se non peggio, soprattutto quando lo appiccano sui veleni…”. Infine – suggerisce Massimo Andrei – esiste un altro fuoco, tutto interiore: “Nel mondo c’è chi, per propria forte volontà o per indole innata, lo alimenta e lo mantiene vivo vivo. Mentre ci sono altri che, invece, lo lasciano sopire lento lento, con qualche labile radice di brace, che ogni tanto lampeggia. E infine, c’è chi ‘o fuoco ‘o tene proprio stutato…”. Ciò che è certo è che la raccolta di Massimo Andrei del fuoco ha tutta la vivacità ed il calore, ed è un ottimo combustibile in grado di alimentare “il fuoco nella fossa” di ciascuno dei suoi lettori.
COME SUGHERI SULL’ACQUA
MUDRĀBOX(E). COS’È QUESTO SCATOLO ROSSO? COSA CONTERRÀ CON QUESTO TITOLO BIANCO?
di Ariele D’AMBROSIO
Daniela Allocca
Mudrābox(e)
IL LABORATORIO / le edizioni, 2022 (NA)
pagine 48
euro 50,00
Concept & Testi di Daniela Allocca
Ideazione e progettazione grafica > Daniela Allocca & Giovanni Ambrosio
Illustrazioni > Vincenzo Del Vecchio
Fotografie > Angela Sodano
Costume > Carla Merone
L’edizione è stata pubblicata in 80 esemplari, stampata su carta Aralda (160 gr.).
Caratteri di stampa: Infini, disegnato da Sandrine Nugue.
Info:
https://docenti.unior.it/index2.php?content_id=21011&content_id_start=1
https://www.laboratoriodelcammino.com/daniela-allocca
danielallocca@googlemail.com
Mudrābox(e). Cos’è questo scatolo rosso? Cosa conterrà con questo titolo bianco?
Cos’è questo scatolo rosso chiuso tra le mie mani? Mudrābox(e). Cosa conterrà con questo titolo bianco? Lo apro, sì l’ho aperto. Già sapevo essere un libro di poesia. C’è di mezzo il sanscrito e la sua India, dove “Mudrā” significa gesto, sigillo.
Dal link informativo apprendo che l’autrice, performer e ricercatrice, già docente universitaria di tedesco, definisce questa sua opera “libro d’artista” e “oggetto narrante”.
L’ottima edizione stampata da Vittorio Avella, Maestro incisore, ed Antonio Sgambati con la propria casa editrice Il Laboratorio/le edizioni, è come sempre di una raffinatezza essenziale, di un rigore e di una delicatezza difficilmente riscontrabile. La scala, la sfumatura di rosso utilizzata per dare colore alla scatola-copertina, richiamerà il Meshes of the Afternoon – Maglie (Reti) del Pomeriggio, film cult e colto del 1943, muto e sonorizzato solo nel 1959? Navigando in internet ho visto in un fotogramma, del film in bianco e nero, un’ombra di profilo di volto appena accennato, spalla, braccio, e mano che ha tra le dita un fiore. Che fiore sarà stato, di che colore? I petali col suo gineceo centrale mi sono apparsi della forma di un papavero e così lo riconosco nel mio immaginario. Un papavero rosso, mentre il film lo si può inquadrare tra il “giallo” e il “surreale” e lascio al lettore la possibilità di conoscerne trama e scene.
Qui i primi riferimenti simbolici, partendo dal mistero di una poesia e di una poetica racchiusa in questa scatola.
Come definirne gli interni? Fogli spessi? Cartoncini? Le informazioni ce lo dicono: carta Aralda (160 gr.), per 80 esemplari di un libro multiforme che contempla, come in un teatro scritto, molte specialità messe insieme: ideazione e progettazione grafica dello stesso poeta Daniela Allocca e Giovanni Ambrosio, illustrazioni di Vincenzo Del Vecchio, fotografie di Angela Sodano, costume di Carla Merone, caratteri di stampa Infini, disegnati da Sandrine Nugue.
Sì, penso di definirlo un libro teatrale, non nel senso di una scrittura drammaturgica, ma nella capacità di racchiudere in un contenitore unico tante forme espressive, tra simboli, concetti e metafore.
Carte, dicevo, che non hanno numeri di pagina e che per questo si può intenderle come libere da una successione, da mischiare anche, ogni volta per un gioco del caso legato come tarocchi al pensiero magico, o per ricordi di posizionamenti, o per nuovi incontri di diverse successioni. Carte da distaccare ed isolare singolarmente dalle altre, o a gruppi, più piccoli, più ampi, per contemplarle, leggerle, capovolgerle. E pensare. Già qui il primo lascito di questa poetica di confine tra scrittura e creazione che si può e si deve intendere transartistica. Ma io le ho contate. Ne sono 48 e le ho numerate nella successione che mi è capitata. Solo un microscopico numero a matita in basso a destra, sul suo lato vuoto, per il rispetto che devo a questi “fogli” di carta preziosa.
Per riguardo dell’Aralda mi sono guardato bene di scrivere note a margine perché ho voluto lasciare queste pagine come oggetti concreti da guardare e non solo da leggere. Ho usato queste due parole: oggetto e concreto. E qui subito, su questi due vocaboli, i riferimenti culturali, i rimandi ad una stagione della poesia del novecento, di cui sarà opportuno ricordare qualche nome, per riconoscerne la genesi. Quella che fa sbocciare questo libro-oggetto in un tempo che non prevede e non può prevedere più né “ismi” né “gruppi” per ragioni storico culturali, e politico ideologiche, su cui non posso attardarmi per ragioni di spazio. E si badi bene, per quanto ricorderò a momenti, che questo oggetto-narrante non usa mai citazioni esibite per non essere assolutamente citazionismo, parola recuperata dall’arte, e che pure ha fatto moda, senza essere scuola, in certa poesia del novecento che definirei tuttora epigonica, nemmeno epigona, giocando con l’agonia della riflessione socio-esistenziale e dell’ideazione creativa.
Quali a mio avviso i poeti e le poetiche di riferimento? Scorrerò veloce: Eugenio Miccini con la sua sinestesia teatrale performativa, i suoi libri d’artista e i suoi volumi di teatro, con il suo multicodice o mixed-media, per una poesia anche visiva così come da lui coniata. Insieme a Lamberto Pignotti con la poesia tecnologica e visiva, multimedale e sinestetica, cine-poesie, libri oggetto (anche di plastica), poesie da toccare, chewing poems, collage. E ancora Adriano Spatola a cui si deve il concetto-titolo di poesia totale, con la sua poesia visiva e verbo visuale, poesia concreta e sonora ed i suoi geroglifici realizzati come composizioni astratte con frammenti di lettere dell’alfabeto. E come non ricordare, e lo desidero fortemente, i nostri Stelio Maria Martini e Luciano Caruso, che dal Futurismo, passando come gli altri attraverso la neoavanguardia, il Gruppo ’63, i novissimi, e le loro riviste, hanno contribuito a scardinare i confini delle arti, abbattendone muri e recinti, per creare nuove strade e ponti. E mi chiedo con un certo orgoglio: dove poteva nascere tutto questo se non dall’inquietudine e dalla curiosità che resta valore profondo, fondativo e costitutivo della poesia?
Ma ritorno al nostro poeta Daniela Allocca e al suo Mudrābox(e). Sono contento di avere tra le mani quest’oggetto narrante, perché mi permette di aggiungere un altro tassello al mondo variegato, molteplice, multiculturale di questa poesia che vivo nel contemporaneo. Ma perché questa box(e) cucita al gesto, al sigillo che la parola “Mudrā” indica e segna? Ed allora subito la carta, il foglio, la pagina numero 2, così come da me sistemata, – e come sempre non incolonno la successione degli scritti perché lo spazio non me lo concede – come fosse un indice di senso: «Mudrābox(e) è un’indagine sul senso del tatto / Mudrābox(e) è una manipolazione del testo / Mudrābox(e) è una mappa dei desideri / Mudrābox(e) è dialogo tra spirito e materia / Mudrābox(e) è una lotta con amore / Mudrābox(e) è il fiore di Meshes of the Afternoon / Mudrābox(e) è il 5 maggio in Preghiere quotidiane / Mudrābox(e) è una macchina da guerra». Ed il poeta nella pagina esplicativa ci dice e ci chiarisce che “… le mudrā sono gesti utilizzati come pratica energetica e associati alle divinità, legate a diverse religioni, presenti nella pratica dello yoga e nella danza bharathanatyam. Proprio grazie a questa danza ho scoperto le mudrā, ritrovandole poi nella pratica dello yoga. … avevo lavorato focalizzandomi sul tema della violenza sulle donne … Il desiderio di trasformare questo odio in amore disegna la sequenza delle mudrā.” Poesie associate alle mudrā quindi, ed espresse dal corpo di un personaggio – le fotografie elaborate con segni sovrapposti – che indossa guantoni di boxe realizzati col nastro segnaletico utilizzato nei cantieri, quello rosso e bianco che darà i suoi colori alternanti a tutto il “libro”. E aggiungo, quel nastro utilizzato per circoscrivere aree di non passaggio, aree off-limits, diventando simboli e metafora di una lotta decisa per sconfiggere la violenza del limite, del muro, e quella della sopraffazione del non detto, dell’occultato, del negato. Mudrābox(e), ci dice il poeta Daniela Allocca “è diventato un incontro quotidiano, il richiamo alla cura di me stessa, alla fiducia nella ricerca spirituale, alla consapevolezza che una pratica che parte dalle radici può decolonizzare la nostra carne dal pensiero che la violenza sia insita nella relazione tra i viventi.”.
Mi attardo solo un attimo sui fogli resi visivi e che si alternano alle poesie. Immagini del poeta che danza in sfumature di rosso e di bianco, abito bianco, grande foulard rosso, fotografie elaborate in movimento e manipolate con i segni delle mani danzanti – Kapota, Samputa, Swastika, Shanka, Pushpaputa, Shivalinga, Mastya, Avahitha – che sono ferme e sovrapposte, nitide ed incise. E qui la chironomia per mani che gestiscono movimenti discorrendo e recitando, riassunte nel fantasmata e nella astanza, parole coniate dal danzatore ed anche onomaturgo Domenico da Piacenza. La prima parola che descrive l’attimo di sospensione tra movimento e stasi, la seconda per dire dell’arte quando si manifesta alla coscienza, eternizzando quell’attimo in un’immagine cinetica che bene riassume la dimensione spazio-tempo che la fisica di Albert Einstein ha scoperto e ci ha donato nel reale con le sue formule di numeri e lettere. Ma non posso, guardando e riguardando queste immagini, dimenticare Anton Giulio Bragaglia e il suo Fotodinamismo Futurista, che chiude con una coerenza assoluta questo percorso visivo e sperimentale partito da lontano.
«… mangiano i fichi al sole / il gioco della luna sull’acqua / il faro che rompe ogni magia / tutto quello che non si dice / tutto quello che non si vede / io e il tatto / io e tutto quello che ancora non so di me. / ama». E in tutto quanto ho finora scritto, ecco questi versi e questa poesia essenziale, che nella sintesi subito esprime la sua complessità, ma diretta, senza nessun ghirigoro, come fosse incisa su di una stele di marmo. Carte, fogli, trasformate in stele, così mi appaiono, per la forza nitida che si approfondisce in un solco con la potenza delle sue spezzature, e in questo primo segmento un’unica parola come verso finale, voluto in bold, per una scelta grafica che fa di questo poeta un artista attento alla forma totale. Il titolo Kapota è una danza di due mani giunte: «prima di entrare / l’inverno scorso / la censura del pianto / terrapieno», e c’è il respiro dell’haiku, di un mondo ancora più ad oriente, per un terrapieno, che aiuta a censurare il pianto, e quanta raffinatezza nella scelta di questi vocaboli per diventare emozione assai più profonda e pregna di senso. Un tono che subito ci spinge nel suo motivo esistenziale e metafisico, «alle dodici un sospiro / mescola la strategia nel calderone / mesto mostra dalla finestra il selciato / quanta arsura nella terra di niente / tante briciole ha mangiato / branchi di briciole non fanno un pane. / respiri di fiato spezzato illudono i polmoni, / una parola, un gioco, un dato. / andò per lui e non torna. / spalle» e in fondo a destra sulla pagina «brucia l’incenso al mattino» come fosse un titolo a concludere. Ma è spalle quell’ultimare e quel completare silenzioso: una figura immobile e muta che ha perso la sua faccia di donna come in un quadro di Edvard Munch. Ho piacere, per il senso di spiritualismo ascetico che sento in questi versi, di trascrivere in toto questa poesia: «solitudine e resistenza all’essere / parole di ferro per porte senza chiavi / la cella è stretta / il tempo è immenso / nessuno sa quando finirà questa maledizione / nei tempi andati si narra di un pozzo / dove si scagliava la vita a pezzi / solo dei pazzi era l’onore / di dirigere questo strano frantoio / la vita sciolta / dava altra vita / e così andava l’acqua nei campi / e vi fioriva l’erba dei santi / ora del pozzo non c’è ricordo / l’acqua è sepolta / la vita è composta / non ci son folli a dar corso alle foglie / né alla formica, al ragno o alle biglie / solo la luna al mancare bisbiglia / prova e riprova / ma nessuno più origlia. / l’erba dei santi». Una poesia che canta e che prega mentre vado a concludere «… parlando con i fiori ha scoperto come / usare l’asfalto», e con questi due versi, amplificati nella grandezza della sua grafica, termina la poesia che comincia con «interno ed esterno che in piega si attendono, …». I fiori e l’asfalto sembrerebbero un ossimoro concettuale, ma le mani a pugno della boxe ancora una volta diventano la danza dei fiori.
L’unica cosa che mi manca in questo libro-opera è ascoltare la voce di Daniela Allocca che conosco essere “radiofonica” per bellezza di timbro e capacità espressiva. Mi aspetterò un’ultima carta, profumata come un fiore, che contenga un QR code o una tessera USB, manipolata all’arte, per una sinestesia totale che possa mutare ancora una volta il male nel suo bene.
Napoli agosto 2023