Per favore non mordermi sul Pop. A proposito di POP, POPolare o POPpizzato di Ariele D’Ambrosio

di Gius GARGIULO

Tempi duri per i seduttori da happy hour nei locali affollati che tentano di corteggiare la bella illuminata dalle luci emanate dai tre schermi della nostra vita. Quelli televisivi giganti nella penombra del bar che ti trasmettono ad alta definizione, l’ultima partita di Champions in differita e la finale del Super Bowl dall’altro, mentre lei è concentrata a sbirciare su quello del lap top o computer portatile, surrogati di Big Datagossip, condivisioni su Face Book e le ultime promozioni di vendite on line di sneakers per passare allo schermo tattile dello smartphone con gli SMS ricevuti a cui rispondere con il pollice che carezza la tastierina. Tutt’intorno gli amplificatori diffondono disco music Easy listening. Dall’altra parte, la voce calda e vellutata di questi dongiovanni diplomati e laureati, usciti da un Jurassic Park della conversazione affabile e colta, si perde tra gli schermi e la musica. Una battuta intelligente e divertente annega in un Martini con patatine e Guacamole. Il suono e il significato di una frase arriva più debole e lontano dell’SOS lanciato dal Titanic nella fatidica notte dell’iceberg nel Nord Atlantico.
Risultato: la bella ma spesso anche il bello di turno, sono rimasti indifferenti alle tentazioni del mondo esterno o «real world», chiusi nella loro infosfera-semiosfera virtuale, come quelle figurine nella palla di vetro che si capovolgono con la nevicata interna. Allora solo un vampiro, che non parla ma ipnotizza con il suo sguardo vitreo riuscirebbe in questo ambiente multischermo e multimediale ad avere successo. Ma a quale prezzo? Trasformando con il suo morso le persone già distratte e assuefatte al flusso dei messaggi e dei «massaggi» della società dei mass media in vittime quasi incoscienti, immerse nel sonno ipnotico vampiresco con tanti saluti alla curiosa complicità nata dalla conversazione per la crescita di un desiderio condiviso. Queste immagini mi venivano in mente dopo aver letto il denso e documentato pamphlet, POP, POPolare o POPpizzato ? – Napoli, Diogene Edizioni, 2022- di Ariele D’Ambrosio, poeta, scrittore e saggista nonché clinico medico. Qui l’autore affronta con la lucidità argomentativa del medico, con la documentazione del saggista e con la creatività espressiva dell’artista, un tema centrale della nostra civiltà della comunicazione, la degenerazione della cultura di massa in una specie di « semantic noise » di rumore di fondo del significato capace di inquinare e togliere profondità ai contenuti espressivi e informativi della comunicazione stessa che come una droga  finisce con l’addormentare le capacità critiche e il gusto dei destinatari. Ma andiamo con ordine. D’Ambrosio distingue la cultura popolare che definisce « POPolare », quella che genuina sorge dalla creatività dalle tradizioni di gruppi etnici e delle nazioni (racconti folkloristici e canzoni) dalla cultura di massa che identifica come « POP », vista come « industria culturale » – traduzione dell’espressione tedesca Kulturindustrie, coniata da Theodor W. Adorno (1903-1969) e Max Horkheimer (1895-1973) della Nuova Scuola di Francoforte negli anni Cinquanta del secolo scorso. I francofortesi criticano negativamente, come una specie di pericolosa alienazione, il processo mirato di manipolazione delle menti operato dai mass media espressione dell’industria culturale. Il cinema, la televisione, i giornali sono il prodotto di una logica capitalista e di omologazione delle coscienze, che somministra all’uomo i valori in cui deve credere e persino come divertirsi fino ad interessare i campi della filosofia della creazione artistica (estetica), la sociologia della cultura, le scienze dell’informazione e della comunicazione. In breve il « POP », per D’Ambrosio, condiziona nel quotidiano, il nostro modo di parlare, di pensare e di comportarsi. Come se non bastasse, in questi ultimi decenni, nell’era del Web con l’accelerazione del flusso di informazioni e la ricerca di identità più visibili e dinamiche in Rete da parte delle grandi marche, attraverso la pubblicità mirata «affettiva» dello storytelling, teso a coinvolgere i sentimenti del cliente « customer-oriented », anche i prodotti quantitativi dell’industria culturale con i mass media vecchi e nuovi degenerano in quella che D’Ambrosio definisce « POPpizzazione » che banalizza, semplifica e inquina sia l’informazione, l’infotainement e la creazione artistica.

Un prodotto artistico diventa popolare se ha le caratteristiche che lo fanno diventare tale, non lo si fabbrica mai popolare. Piuttosto, cercare il popolare è come sperare di entrare nel sentimento e nella memoria di molti. Il popolare è un divenire…Perché il poppizzare non è un divenire, ma è un prevenire strategico-commerciale. È un manipolare l’emozione, per averla studiata prima e averne fatto strumento di vendita massificata (p.17).

In questo modo le canzoni di Domenico Modugno, Bruno Martino, Lucio Battisti, Lucio Dalla e Fabrizio De André sono ormai acclarati esempi di riuscito petrarchismo musicale in relazione ai prodotti « poppizzati » per ascolti « frettolosi e superficiali »  in radio e in streaming dei cantautori attuali e ai rap sfiatati, pallido ricordo dei potenti suoni e parole di quelli usciti dai ghetti afroamericani newyorkesi. Anche la canzone neo-melodica viene stigmatizzata come poppizzata perché priva di cultura rispetto alla grande tradizione colta della canzone napoletana classica. Ugualmente, D’Ambrosio segnala la poppizzazione del cinema di genere con la comicità ripetitiva e l’erotismo rozzo dei cinepanettoni, simpatici discendenti, aggiungiamo noi, con validi attori di teatro, delle « gloriose » commedie sexy all’italiana di Alvaro Vitali e Lino Banfi con Edwige Fenech, Carmen Villani, Lilli Carati e Annamaria Rizzoli, bellezze ruspanti senza ritocchi sullo schermo degli anni Settanta e sulle pagine patinate dell’edizione italiana di Playboy e soprattutto di Playmen,la rivista dell’editrice Adelina Tattilo. Di poppizzazione in poppizzazione D’Ambrosio ci ricorda come anche le telenovele o fiction televisive a lunga serialità per una forte fidelizzazione con il telespettatore siano degli « addormentamenti di massa » (p. 18), mentre i Social con l’I like tendono ad avere più « followers che consumano il già consumato » (p.30)  e la politica divenuta propaganda scivola in un pericoloso populismo. Ci troviamo per l’autore in un mondo della comunicazione poppizzante, cinico e rivolto essenzialmente al profitto nel tentativo di raggiungere il maggior numero possibile di consumatori e poi anche di elettori eterodiretti e ipnotizzati dall’alto in un gigantesco supermercato delle merci da cui nascono idee fatte di slogan che trasformano  i comportamenti in filosofia come sosteneva Adorno. Si reclamizzano sconti mirabolanti già scontati che dal carrello degli acquisti ci accompagnano fin dentro il seggio elettorale. Poppizzare, ci dice l’autore, indica 
…un fare manipolatorio per masse anestetizzate all’uso ed al consumo dagli artefici di tali addormentamenti, e dove troviamo ogni volta tutta la banalità di prodotti che non hanno nessuna forza di dire, di riflettere, di spiazzare, di emozionare, per esprimere solo una scontata, ovvia, tediosa ripetitività (p.19). 

Insomma sembrerebbe che Dracula sia il grande ipnotizzatore, vampirizzatore e « poppizzatore » di massa, capace di spazzare via i pochi dongiovanni del messaggio chiaro e onesto nei vari campi della cultura massmediale di tipo Pop. Deduciamo che aumentano le fasce di utenti dei media in « anestesia » su quelle in « estesia » che fanno un uso critico dell’informazione. A questo punto l’autore si rende conto che il focus del discorso va spostato dall’oggetto mediatizzato e poppizzato al metodo di poppizzazione e in particolare al linguaggio, alla lingua e i codici e alle retoriche di persuasione e quindi diventa centrale il modello di comunicazione del linguaggio pubblicitario o della « POPlicità » e non soltanto informativa. Infatti si domanda l’autore 
…cos’è poi la pubblicità se non il pop assoluto che ricerca strade possibili di vendita e senza alcun confine tra il popolare che artatamente cerca di poppizzare ? Cosa c’è di più scientificamente pervasivo della pubblicità studiata e organizzata per i suoi fini…come non pensarla manipolatoria e non soltanto informativa ?  (pp. 74-75). 

Marcello Marchesi (1912-1978), grande umorista, sceneggiatore e regista diceva che la pubblicità non è l’anima del commercio ma il commercio dell’anima. Difficile dargli torto leggendo il pamphlet di D’Ambrosio che individua questa logica comportamentale nella concatenazione di Populismo › Pubblicità > Superficialità > Vendita > Consumo > Pop (p. 28). In effetti di qui si arriva al rapporto politica > pubblicità > populismo > Pop soprattutto in Italia che ha fatto scuola anche per gli americani. Prima Berlusconi e poi Trump. L’Italia si è confermata come sosteneva il filosofo e politologo francese Paul Virilio, un grande laboratorio della rappresentazione politica massmediatica. Benito Mussolini (1883-1945) era un giornalista con un grande senso della comunicazione con vocazione al marketing politico ed era anche testimonial del cioccolato Perugina. Aveva creato il famoso ministero della cultura popolare abbreviato in « MinCulPop » non certo per un acuto senso dell’umorismo. Più tardi la discesa in campo di Silvio Berlusconi (1936-2023) con il suo partito-azienda basato sulle ricerche di mercato applicate al campo elettorale ha rappresentato una novità assoluta. Recentemente Gianroberto Casaleggio (1954-2016) intellettuale informatico, titolare della Casaleggio Associati s.r.l. che si occupa di strategie sul Web, fonda il Movimento 5 Stelle .con il « frontman » Beppe Grillo di cui cura anche il celebre e determinante blog beppegrillo.it. per il successo elettorale, tra il web e la televisione, del movimento divenuto rapidamente un partito. Pubblicità vuol dire ricerca sul linguaggio capace di modellare la lingua che « lecca » le parti intime dell’inconscio attraverso parole collegate a concetti o « frames » narrativi per attivare emozioni e interesse nella nostra mente come accade anche nella comunicazione politica. Per D’Ambrosio il risultato è lo stesso, addormentare le coscienze, assuefarle ad un progetto che mira al profitto o al consenso politico.  
Cosa sarà, se non ancora una volta una massa resa piatta da un vedere appiattito per essere anestetizzata, ipnoindotta, assopita, sedata, perdendo in quest’unica visuale le innumerevoli variabili individuali? (pag.56). 

Dobbiamo aggiungere a queste osservazioni che nel marketing pubblicitario sono le parole sulle quali si confeziona uno storytelling accattivante e coinvolgente, che fanno vendere e danno visibilità mediatica al prodotto. Lo stesso procedimento si riscontra nelle campagne elettorali dove gli slogan e le posizioni del candidato sui temi quali famiglia, patria, gender, lotta alla delinquenza e all’immigrazione, difesa delle tradizioni o stimolo alle innovazioni, sono le caratteristiche e le qualità del prodotto. Infatti la bibbia dei politici americani come di molti manager e parlamentari italiani del centro destra è il notissimo, Words that work (Parole che funzionano), del linguista statunitense e sondaggista del partito repubblicano, Frank Luntz, per una riflessione su come l’uso tattico di parole e frasi influisca su ciò che compriamo, su chi votiamo e persino su ciò in cui crediamo. Il libro ha avuto un tale successo che è scaricabile gratuitamente dalla rete insieme ai testi pseudoscientifici della programmazione neurolinguistica (neuro-linguistic programming, NLP) che vanno nella stessa direzione. Si pensi ad esempio alla parola liberal spinta dai media della destra statunitense ad essere sinonimo di « far left » (estrema sinistra) e rappresentata contro i valori  della famiglia, della patria e della fede. I conservatori sono riusciti a conquistare il centro del campo elettorale associando quel che è liberal a quel che è d’élite. Quest’ultima parola che si contrappone negativamente alla gente comune, è stata associata con frequenza crescente ai grandi giornali americani di opinione. È diventato un luogo comune parlare di élite dei media, di élite di Hollywood, di élite intellettuale. Si tratta di tutte élite alle quali nel senso comune si attribuisce un pregiudizio liberal, cioè di sinistra. Questo spostamento linguistico ha oscurato la Power Elite (i poteri forti), quella del petrolio e delle armi, come se non esistesse più. Il che è falso ma che importa, non è vero ma te lo faccio credere. Del resto, un altro celebre linguista americano del campo democratico, George Lakoff, professore all’Università di Berkeley in California, ha aiutato Obama a comunicare efficacemente su questioni sociali e politiche fondamentali nella vittoria alle presidenziali e a riformulare (re-frame) il significato di alcune parole pensate dai repubblicani ma riprese e fatte accettare ai democratici. Anche il suo libro che descrive l’avvincente analisi linguistica delle campagne politiche americane è divenuto un «best seller», Don’t Think of An Elephant!, (Non pensare a un elefante) in riferimento al simbolo tradizionale del Partito Repubblicano, l’elefantino con i colori nazionali statunitensi.
D’Ambrosio infine ci mette in guardia da quello che è il vero pericolo attuale, la poppizzazione più pervasiva e infida per gli individui e per le democrazie, le notifiche push  (un messaggio breve di marketing digitale che viene consegnato direttamente sullo schermo di un utente, su mobile o desktop come sms marketing e messaggi WhatsApp) dei Social come ha evidenziato lo scandalo dei dati Facebook-Cambridge Analytica all’inizio del 2018, quando fu rivelato che una società di analisi di Big data e di consulenza britannica, Cambridge Analytica, aveva raccolto i dati personali di 87 milioni di utenti-account Facebook senza il loro consenso e li aveva usati per scopi di propaganda politica. Il metodo utilizzato combinava l’estrazione dei dati (« data mining »), l’intermediazione dei dati e l’analisi dei dati con la comunicazione strategica in occasione delle elezioni in America e in Europa. Grazie alla combinazione di queste discipline con gli studi della psicometria (lo studio dei comportamenti umani), si era in grado di sfruttare il profilo psicologico degli utenti per individuarne una precisa personalità ed impacchettare messaggi estremamente precisi che andavano a colpire le loro debolezze e paure. Sembrano scenari da Grande Fratello orwelliano in grado di controllare il mondo o fatti anticipati dalla fiction televisiva House of cards, in cui si immagina che il presidente degli Stati Uniti raccoglie voti manipolando gli elettori con una propaganda personalizzata a base di illeciti programmi di software. Potenza cognitiva dello storytelling delle serie tv sulle piattaforme televisive a pagamento. In effetti D’Ambrosio denuncia l’opacità procedurale degli algoritmi 
…altro meccanismo dichiarato, ma di fatto “segreto” perché pochi e specialisti ne capiscono – che ho notato in un social come FB. Social che ti manda in visione sempre filmati estrapolati – che sono in “armonia” con le tue riflessioni, pensieri, rabbie, grida, postate. E così il social ti poppizza e tu “socializzato” ti autopoppizzi senza averne coscienza…(p.57).

Gruppi di potere economico e politico, attraverso questo tipo di comunicazione fanno leva sulle inquietudini e le paure dei destinatari dei messaggi sul web soprattutto con le fake news che devono creare ansia e rabbia per impedire un esame critico dei fatti. Lo stesso procedimento lo vediamo per le truffe informatiche di cui l’Italia ha il triste primato per numero di vittime. Si vuole angosciare la persona, per meglio manipolarla e vampirizzarla e quindi per dirla con D’Ambrosio, poppizzarla più efficacemente. Purtroppo questo tipo di informazione-disinformazione è un bombardamento continuo di falsità di base che proiettano sull’altro in modo semplicistico l’origine di tutti i nostri guai. In tal modo la cattiva propaganda politica sul Web, attraverso i Social e i messaggi di posta elettronica, crea e alimenta il popolo dei disinformati, incapaci di incrociare le informazioni e di verificarle su siti autorevoli. A queste persone, ma non solo a loro, può capitare, talvolta anche a persone informate e colte, di non distinguere nel messaggio la parte « aletica » (il coefficiente di verità) dalla parte « estetica » (emotiva) ed « etica » (la deontologia dell’informazione contenuta nel messaggio). Infatti bisognerebbe praticare una continua e impegnativa ginnastica mentale dell’interpretazione destreggiandoci tra le categorie logiche degli atti linguistici quali :  comunicazione « veridica » : ti dico quello che ritengo sia verocomunicazione « sincera » : voglio farti sapere quel che ritengo sia verocomunicazione« vera » : ti dico la verità. Si crea così una ampia fascia di utenti sul Web che hanno come unico punto di riferimento i Social con i loro messaggi in cui credono ciecamente come prima credevano ciecamente in ciò che vedevano alla televisione e prima ancora alle prediche domenicali dei parroci. Possiamo definirlo un « popolo del complotto » questa volta ben riconoscibile e identificabile dei No-tutto, No Luna ( non è vero che gli americani sono andati sulla Luna), No Chemio (non sottoponiamoci alla chimica della chemioterapia imposta per il profitto delle multinazionali del farmaco), No Tav, No Olimpiadi, No Vax, No Pos. Queste persone, vivono attraverso i social le loro incapacità e frustrazioni, spesso intossicate e invelenite dalla quantità di fake news spedite in push e finiscono con il divenire aggressivi «haters», odiatori, adepti della teoria del complotto permanente ai loro danni e spesso riciclano idee di negazionismo che rievocano un tragico passato. I meccanismi di base sono ancora una volta semplificazione, polarizzazione e proiezione che operano sullo sfondo di luoghi comuni già acquisiti in precedenza (non per nulla l’antisemitismo è una costante storica ben nota) e sono vittime di emozioni variamente manipolate. Come si è visto purtroppo durante la recente pandemia, molti No Vax pur ammalati gravemente di Covid hanno preferito la morte invece di accettare le terapie della medicina ufficiale. La teoria del complotto è una delle forme narrative più avvincenti della letteratura e di quella popolare in particolare. Umberto Eco (1932-2016), pertinentemente citato da D’Ambrosio per i duplici aspetti della cultura di massa contemporanea sia come nemesi dell’umanità sia come sua salvezza, espressi in Diaro minimo (1963) e Apocalittici e Integrati (1964), nel Cimitero di Praga (2010), racconta la diffusione del Protocollo dei savi di Sion sul « complotto ebraico » volto al dominio del mondo, documento notoriamente falso su cui si basa l’antisemitismo recente. Nel suo ultimo romanzo Numero Zero (2015),Eco in forma narrativa descrive la pervasiva distorsione della verità e la moltiplicazione delle verità nel mondo dell’informazione della carta stampata come « macchina del fango » per intimorire e distruggere avversari dell’altra parte politica. In effetti la costruzione della teoria del complotto come falsificazione mirata dei fatti, si sviluppa efficacemente in più modi: se esistono prove del complotto per quanto falsificate e male interpretate, si dice allora che il complotto c’è.  Se non esistono prove, allora questo conferma il complotto visto che le prove sono state eliminate.  In termini logici se p allora q, se non-p, allora di nuovo q. Quindi secondo logica q (assurda perché fabbricata con le fake news) è considerata innegabile e quindi vera dagli eventuali poppizzati. Non ci vuole certo un autorevole premio Nobel dell’economia, impegnato nell’economia immateriale dell’informazione come Joseph E. Stiglitz per comprendere che le democrazie siano in grave pericolo a causa di informazioni false diffuse attraverso i Social per alimentare un pericoloso populismo elettorale. Il populismo, ricordiamolo, si definisce come l’obiettivo primario dei vari partiti politici che cercano di rappresentare gli interessi della gente comune, il popolo. Questi partiti spesso si contrappongono a un’élite o a un establishment reale o percepito come tale. Le varie vittorie elettorali recenti di candidati populisti in Europa hanno visto emergere movimenti marginali come le voci euroscettiche, spesso allineate con alcuni movimenti populisti e amplificate dai media. Rischiamo di sembrare anche noi, alla fine della lettura di questo pamphlet di D’Ambrosio, piuttosto apocalittici come scriveva Umberto Eco a proposito di Theodor W. Adorno in quanto il pensatore tedesco esprime un atteggiamento critico e aristocratico nei confronti della moderna cultura di massa. Certo, anche quelli che non sono apocalittici e sono raffinati borghesi che leggono Marcel Proust (anche se era un po’ Pop), David Foster Wallace (Popcritico antipop) e Karl Kraus (occasionalmente feticisticamente Pop) in lingua originale, che ascoltano su dischi in vinile la musica barocca nelle incisioni della Berliner Philharmoniker, il BluesSgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, Horses di Patti Smith e  che amano circondarsi  compatibilmente con il budget, di mobili Luigi XVI e Chippendale, che calzano di preferenza mocassini  Church’s con fibbia modello Westbury 173 in tinta cognac per uomo e Church’s Pembrey W5 fumo di Londra per donna e si spostano o sognano di farlo, traffico permettendo, in una Morgan spider roadster di colore verde Connaught Green, o in una biciletta usata, (perché quelle nuove da cross gliele hanno rubate più volte), anche loro sono immersi nel Pop della cultura di massa. Quando si trovano pigiati nella metropolitana all’ora di punta e leggono la free press, quando in un supermercato mettendo una bottiglia di Bourbon Whisky nel carrello sono accompagnati alla cassa dal motivo di Tu sei quello cantato Orietta Berti, o nell’anticamera del dentista sfogliano Novella 2000 e Gente, che ammettono pubblicamente, di trovare divertente e affascinante la casa dei fantasmi a Disneyland, che vedono alla tv una partita di calcio con gli amici, che si appassionano oltre a Fitzcarraldo  di Werner Herzog  anche a Indiana Jones al cinema e ridono liberi dai sensi di colpa, anche delle gag viste in un vecchio cinepanettone passato alle due del mattino su qualche canale televisivo  incuriositi dal trash  e che ordinano talvolta via Delivery un sano e gustoso Bibimpap della «nuvelle cuisine» coreana, di tendenza pop, (ma chi se ne importa!), insieme a una pizza Margherita. Non si sentono pop esterofili o dei traditori dell’identità linguistica nazionale se dicono di voler acquistare un « computer » invece di un «automa algoritmico universale », come suggerisce correttamente l’ingegneria informatica e il dizionario o che fanno Smart Working  (tradotto come « lavoro efficace » ma tutti i lavori ben fatti teoricamente lo sono),  neologismo-anglicismo italiano inesistente in inglese, dove si dice «to work remotely » o «work from home» e in francese pertinentemente «télétravail». Insomma dobbiamo convivere con il Pop e saperci difendere dalla poppizzazione. Il vero nodo da risolvere è quello della dieta mediatica poverissima degli italiani che passano davanti alla televisione generalista ancora oggi in media, tre ore e mezza al giorno, un’eternità e la considerano la prima fonte di informazione. Vanno poco a cinema e a teatro, non sono grandi lettori di libri e giornali, ascoltano la radio e malgrado la diffusione di Internet tra il 2019 e il 2021 con l’83,5% di utenza, usano passivamente la Rete, restando prevalentemente sui Social, 76,6% degli utenti (fonte Censis). Un grande artista della Pop art come Andy Warhol ci ha aiutati a riflettere dall’interno sui prodotti di consumo dell’industria culturale e a come decontestualizzarli in chiave creativa sulla scia dei «ready made» di Marcel Duchamp e a presentarli in modo inatteso per una nuova interpretazione. La street art di Banksy di natura satirica e sovversiva costituisce un monito a pensare la società e la cultura criticamente attraverso l’immagine-provocazione come un cross over allegorico sui muri di tutte le città del mondo. La scuola di cui si parla poco e male è il nostro vaccino contro la poppizzazione insieme a una semiotica  o popsofia che indaghi sul contenuto, i modi e le interpretazioni dei prodotti della cultura popolare attraverso i media. Alla scuola il compito primario di abituare alle differenti possibilità interpretative dei testi, a verificare e a incrociare le informazioni. L’istruzione deve fornire anche un primo bagaglio di l’alfabetizzazione informatica insieme a quella per imparare a leggere e scrivere. Dobbiamo a scuola studiare la lingua e le lingue, apprendere minimo una seconda lingua straniera dopo l’inglese. Riconsiderare le origini di un nuovo umanesimo a partire dalle scienze del linguaggio, della psicologia, della matematica dalla logica e dalla filosofia come ci propongono due grandi linguisti cognitivisti, un americano John Goldsmith e un francese, Bernad Laks, in un approfondito e avvincente trattato ragionato sulla storia delle idee della modernità da questo nuovo punto di osservazione, Battle in the Mind Fields (Battaglia nelle discipline della mente). Insomma dobbiamo divenire tutti un po’ più maturi perché la tecnologia non nasce da una mitologia o da una magia ma si fonda su di una ben precisa filosofia e dobbiamo conoscerla. Con questo pamphlet D’Ambrosio ci scuote dal torpore su questo problema che ci coinvolge tutti e ci fa comunque scoprire quella che si potrebbe definire la «sindrome del fanciullone», perché nella poppizzazione non ci sentiamo adulti con il cuore di bambini ma degli adulti regrediti ad uno stadio infantile o dei bambini che non sono ancora divenuti adulti e forse per tutta la vita non riusciranno mai ad esserlo, distratti e anestetizzati in questo paese dei balocchi pubblicitario.  Fanciulloni lo sono più i padri che devono imparare ad essere genitori dei loro figli senza farsi poppizzare da loro, saperli indirizzare anche talvolta con una certa severità intelligente spiegando perché ogni tanto è salutare staccare gli occhi dai Social al computer o sullo smartphone dando per primi, i padri e le madri, il buon esempio. Quindi più maturità da conquistare anche con i Social che non sono né un bene né un male ma dobbiamo essere noi a distribuire le carte, a saperli usare e padroneggiare consapevolmente per combattere la solitudine, creare solidarietà, diffondere idee di cultura come allo stesso modo guidiamo l’automobile per andare al lavoro e non per finire contro un muro. I Social sono orizzontali per necessità pop e devono restare tali. Quasi nessuno si sogna su FB di chiedere l’amicizia a Cicerone, condividere un « I Like » con Platone e sostituire Socrate ai Ferragnez o a Elisa Esposito (la maestra del « corsivo ») come influencer, non funzionerebbe, scapperebbero tutti in un altro Social o blog e forse solo un « pio » studente ci farebbe sopra una tesi polverosa. Sulla scia della Scuola di Francoforte di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, D’Ambrosio conclude il suo saggio negando in maniera draconiana il valore di cultura al POP perché espressione della manipolatoria cultura di massa «  No ! perché il POPOLARE, anche con il suo folklore non è il POP nel quale cultura non c’è» (p. 88). La cultura è, secondo noi, un pensiero condiviso, fatto di pratiche e prodotti espressivi semplici e complessi, nello spazio e nel tempo che agisce nella realtà esterna o mondo reale, elaborato dagli uomini su e con altri uomini con diversi scopi, sia che i risultati siano positivi sia negativi per gli individui e i gruppi sociali. Per tale ragione vedrei cultura anche nella tanto deprecata canzone neomelodica napoletana dove si possono riconoscere sonorità antichissime che vengono dalla musica araba insieme al rock melodico mentre i contenuti raccontano un « epos » contemporaneo nel quale nel bene e nel male si riconosce una larghissima parte di « popolo » napoletano, il più antico dell’Occidente ed anche il più moderno nel mix di manifestazioni storiche, espressive ed esistenziali. Così anche i fumetti per adulti, i fotoromanzi rosa e tutta la paraletteratura nella scarnificazione e ripetitività delle forme narrative consentono sì di utilizzare formule sperimentate, ma anche di sperimentare nuovi significati, spesso non previsti dal sistema produttivo. Adorno e Horkheimer pur avendo avuto sull’industria culturale delle valide intuizioni sociologiche, erano due signori formatisi nella Germania di inizio Novecento, intrisa ancora di pensiero idealistico e di antimodernismo. Adorno, in particolare, anche ottimo pianista nel suo esilio americano, guardava ancora alla Germania della  Repubblica di Weimar (1918-1933) e a differenza del suo collega francofortese Herbert Marcuse (1898-1979), alle cui idee si ispirarono molti dei movimenti di protesta del’68, non aveva approfondito o valutato degne di studio le dinamiche psicologiche di massa della società americana come il cinema hollywoodiano che viene liquidato come business insieme a tutte le opere d’arte, dell’industria culturale  che hanno un valore determinato dal mercato e non perché trasmettono intrinsecamente qualcosa di per sé. Adorno nega la formazione di un immaginario sociale che scaturisce dalla dialettica tra l’industria culturale di cui il cinema è l’epicentro, e la massa dei destinatari, cui viene conferito un ruolo attivo in questo processo di elaborazione creativa. Resta il fatto che un immaginario sociale si era già formato nella Germania di Weimar in cui viveva il suo collega Siegfried Kracauer (1889-1966) della prima scuola di Francoforte, critico cinematografico. Aveva compreso che i mondi irreali, distorti, allucinati dei film horror dell’Impressionismo tedesco con vampiri e malefici imbonitori sull’orlo della follia, traducevano la paure e le angosce di una nazione sconfitta e avvilita che si sarebbe ritrovata nazista come più tardi la fantascienza e l’horror hollywoodiani avrebbero rappresentato attraverso le invasioni di extraterrestri e la proliferazione di « zombies »  le paure di una guerra atomica. Il vampiro Dracula con Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens) di Friedrich Wilhelm Murnau (1888-1931), proiettato per la prima volta nel 1922 a Berlino, riassume nella vicenda del suo personaggio paure e fascinazioni della società tedesca degli anni Venti, ma anche quelle di un mito POPOLARE del diabolico, passato nella società di massa dell’industria culturale POP. Portatore di epidemie, sintomo universale delle ansie umane legate alle lotte per la supremazia sessuale di tipo darwiniano, mostruoso e inquinante che usa il sex appeal, l’astuzia e la forza bruta per soggiogare e destabilizzare famiglie, classi sociali e nazioni è lui che ha morso sul POP e lo ha vampirizzato. Oggi è diventato più light, mondano specialmente per la vita notturna, concede interviste nei romanzi di Ann Rice e nella serie di grande successo TV  Twilight (tratta dai romanzi di Stephenie Meyer, che hanno venduto oltre 100 milioni di copie in totale in tutto il mondo), assume l’aspetto giovanile di Edward Cullen, frequenta il college e seduce Bella Swan, un’adolescente umana e accetta anche un triangolo amoroso con il licantropo o (lupo mannaro è poco elegante) Jacob Black e la nascita della bambina vampiro-umana, Renesmée. Auguri ! Il vampiro poppizza dall’interno ma non si fa poppizzare e rimane POPolare. Alla prossima puntata.