Guida Galattica per i Lettori | Gennaio 2023

contenuti:

  • AMICO ROMANZO Il mondo finisce all’orizzonte? a cura di Ariele D’Ambrosio
  • SIPARI APERTI Luca Saccoia e Lello Serao riaprono le porte di casa Cupiello a cura di Emanuela Ferrauto
  • COME SUGHERI SULL’ACQUA CovidNenia, Calembour per una pandemia a cura di Mario Corbo

AMICO ROMANZO

IL MODO FINISCE ALL’ORIZZONTE?

a cura di Ariele D’AMBROSIO

Luigi Calisi
IL MONDO FINISCE ALL’ORIZZONTE
libro/mania
2021, Milano
Pagine 384
euro 12,00
Info:
https://libromania.net/libri/il-mondo-finisce-allorizzonte

Il mondo finisce all’orizzonte?

È sempre molto piacevole avere tra le mani un libro cartaceo, di un’edizione che ne ha curato la maneggevolezza, la carta che non riflette, la bella copertina pittorica, e tutto malgrado lo spessore di quasi quattrocento pagine di racconto. E dico questo perché penso che un libro di carta potrà sempre restare una testimonianza, lasciare una traccia, malgrado le inondazioni e gli incendi, in questo mondo multiscreen retroilluminato, di scritture virtuali in nuvole-cloud che potrebbero sparire con un clik, con una semplice digitopressione del gestore dittatore dei clik, per un ricatto economico o una semplice vendetta. Ed invece questo libro lo porti dove vuoi, nei luoghi scelti volta per volta, letto nelle posture che più desideri, con appunti a margine in inchiostri dei più vari che cambieranno colore nel tempo e che riandrai a scoprire con il senso che questa distanza ha costruito dentro di te, per nuove visioni e nuove possibili interpretazioni. Questa la “inesauribilità del testo”, per citare Italo Calvino. Come a dire di uno scritto “a più alta complessità”, che più rileggi, anche nel tempo, e più scopri e comprendi nuove cose. E questo varrà anche per le note a margine che avevi riportato sotto lo stimolo di quell’antica lettura. 

Sto già parlando del Il mondo finisce all’orizzonte di Luigi Calisi, che pur assai giovane, ha scelto, per nostra grazia e per nostra gioia, il cartaceo come sua prima prova da romanziere.

Il veliero della copertina avanza verso di noi in una atmosfera notturna ma che potrebbe essere di tempesta e non sappiamo se sotto il titolo dove appare un mare profondo che dal blu si è fatto nero, comparirà d’improvviso lo scoglio di una tragedia.

Quando desidero acquistare un libro guardo la copertina, poi vado in quarta e poi nei risvolti, quando ci sono. La quarta ci dice di un romanzo di avventura. Il risvolto sinistro contiene un piccolo riassunto del romanzo, oggi si dice sinossi per fare più bella figura. Immediatamente leggo il nome del protagonista: Colin Kipling, e non posso non pensare subito a Joseph Kipling, inglese, grande viaggiatore e scrittore di romanzi d’avventura. Continuando a leggere appare “linea d’ombra” e come non ricordare lo splendido romanzo La linea d’ombra di Joseph Conrad, polacco naturalizzato britannico, anch’egli grande scrittore e navigatore. Si sfoglia e subito una bella citazione che fa da madrina al romanzo da Cuore di tenebra, sempre di Conrad. Poi andando avanti nella lettura mi appare anche il capitano Stevenson. Ed ecco Robert Stevenson, altro narratore e poeta scozzese, inventore dei libri L’isola del tesoro e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Ma c’è anche il profumo di Emilio Salgari che pervade tutto il libro per farlo più vicino alla nostra Italia.

Perché scrivo tutto questo? Semplicemente per dire che questi nomi sono delle citazioni mascherate che fanno del giovane autore uno scrittore colto, di ottime letture, cosa non sempre presente in tanti autori di inutili libruncoli dei nostri giorni.  Ma anche per dire che l’ancoraggio alla scrittura d’avventura e alla scrittura gialla, di tradizione, è forte e solidamente strutturata.

Tutto mi si conferma sul risvolto di destra. Luigi Calisi è stato già pubblicato con racconti di fantascienza sulla prestigiosa collana Urania, ed è già stato finalista al premio Campiello giovani nel 2011. Oggi ha trentadue anni.

Il mondo finisce all’orizzonte è assai di più di un romanzo d’avventura come già scritto in quarta di copertina, e come “catalogato” dalle edizioni, è per certi versi un vero e proprio romanzo storico, con un impianto molto studiato ed anche indicato nella Nota storico-geografica alla fine del libro e che l’autore bene ha fatto a scrivere e che lo connota non solo come artista ma anche come studioso, e per questo professionista della scrittura. 

La creatività scevra dalla professionalità, che si conquista con lo studio approfondito della propria materia, porta in genere a risultati mediocri, di poco conto, ed ecco perché ho voluto sottolineare questo aspetto del giovane autore. 

Mi soffermo un attimo sul titolo del libro che contiene la parola orizzonte e che durante la scrittura la si troverà più volte come linea per restarne dietro, davanti, intorno, forse anche sopra o sotto, rincorrerla, sfuggirla, pensarla finita o infinita, attraverso il dire dei vari personaggi. E subito un ponte con quanto pensato da Chiara Valerio per L’Infinito di Giacomo Leopardi: ma cos’è questo qualcosa circoscrivibile in simbolo e che contiene se stesso? La siepe stessa è il simbolo e il meccanismo dell’infinito. Non potiamo le siepi! E poiché penso che il filo mentale e subliminale che cuce questo bel libro è l’orizzonte mi viene di dire: non spezziamo mai l’orizzonte! Ma che resti lungo, lunghissimo, ampio, pronto, possibile, superabile.

Dicevo che non è solo un romanzo di genere avventuroso, ma s’innesta anche il giallo, quando il protagonista avvocato si fa investigatore. E tutto è accolto da una piattaforma storica tra la fine del 600 e il 700. Storia di isole perdute, di migrazioni, di lotte di potere tra nazioni, di colonialismo attuato e perpetrato dal vecchio continente nel nuovo continente. 

È un romanzo anche etico che riflette sull’importanza della legge in quei luoghi sperduti ed insicuri, quando Colin Kipling, giovane avvocato insegue questo desiderio e questa speranza. E la riflessione si fa anche esistenziale con la descrizione di alcuni personaggi in cui troviamo il bene e il male stratificati e commisti, come fossero lo yin e yang esotico del mondo cinese. E questi semi di pensiero introspettivo, psicologico, sono appunto disseminati in tutto il romanzo e lo rendono assai più complesso di un semplice racconto di avventura. 

gli spagnoli avevano uno sguardo indefinibile, sospeso tra il sollievo e il terrore

… vedevo balenare ombre tra gli alberi, uomini che non conoscevo e che sarebbero morti per permettere ai vigliacchi come me di avere una possibilità 

…Mentre cercavo disperatamente di sopravvivere, mi chiesi se sarei mai riuscito a odiare qualcuno a quel modo.

Ed è solo qualche esempio che sta ad indicare la raffinatezza di questa scrittura.

Tantissimi personaggi che fabbricano la trama: soldati, capitani, pirati, ciurma e Colin Kipling protagonista che narra la scrittura e ci fa entrare in modo fluido e piacevolissimo all’interno del romanzo, ed ancora: il capitano Arthur Blackmore coprotagonista, Jonathan Spire, Harry Spire, Macario Caldeira, Maarten De Boer, Kermac Fraser, Robert, il primo ucciso, il secondo morto, Daniel, Olivier Rozier, Ragnar Justen, gli sbandati, i pirati, il lebbroso, gli schiavi, Kojo, gli uomini nella caverna, Angel, Cristina, Willy, Benet il sordo. E i luoghi: Norman Island, le isole Vergini, Saint John’s, Peter Island, Tòrtola, Guadalupa, l’isola dei lebbrosi, il bosco, la grotta, la chiesa diroccata, il mulino a vento. Ed ancora le cose: il rum, il grog (bevanda di latte di capra), la cassa, le lame, il tesoro – che richiama l’isola del tesoro e mi riporta alla canzone “quindici uomini, sulla cassa del morto, e una bottiglia di rum –, le pistole, i fucili, i cannoni, il libro-diario, la nave Ortensia, il vascello Dèsirade. Ed è tra questi nomi che s’intrecciano le Nazioni colonizzanti e belligeranti del tempo: Spagna, Inghilterra, Francia, Danimarca, Portogallo. Dalle grandi storie che condizionano la vita dei tanti, alle piccole storie anche psicologiche di questi multiformi personaggi.

Tutto in una trama sapiente, organizzata da uno scrittore sorprendentemente maturo. E l’ordito per organizzare il grande tessuto di questo romanzo? Ed ecco due nomi femminili: Ellen, e Susan Warburton, che entrano di diritto come coprotagoniste ognuna di loro sorprendendoci con le loro rispettive differenze.

Insomma, malgrado è America centrale, mi sono ritrovato in qualche modo nel mondo di quella meridionale e mi è venuto in memoria, mentre leggevo, Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcìa Marquez e sono contento di questa cucitura alta che spero sia di ottimo auspicio per Luigi Calisi.

Gli ancoraggi forti alla tradizione del genere d’avventura sono ben evidenti, come, della contemporaneità la commistione col genere giallo, ma la cosa sorprendente in questo giovane autore, torno a ripetere, è che nel tutto s’innestano riflessioni esistenziali profonde e approfondite. La miscela fa di questo romanzo d’esordio un testo non solo godibile sul piano letterario, ma anche sul piano storico filosofico.

Per finire un accenno all’analisi del testo che vede una sapiente capacità di scrittura, torno a dire assai professionale: ritmo serrato tra descrizioni e dialoghi, capitoli brevi, sintassi fluida, periodi brevi, coerenza lessicale, che spingono il lettore a non fermarsi mai per stanchezza, ma sempre col desiderio di continuare a leggere. Trecentoottanta pagine che ho divorato con il piacere di stare in ottima compagnia, accanto ad una semplicità di scrittura, che si badi, in questo caso, è consapevole punto di arrivo e mai ovvietà, banalità o scontatezza. 

Una capacità sorprendente, di fabbricare suspens: riunire spesso il cognome al nome in un secondo momento, o aprire un nuovo orizzonte improvviso da una strada buia e tortuosa.

Finisco riferendo di una guerra descritta con una tale intensità di immagini che fa capire, anche in questo nostro momento così terribile quanto sia stata, la guerra, sempre mostruosa, dolorosa e senza senso. Una guerra descritta con una tale intensità che si collega di fatto ad un dipinto che meglio di altri descrive la paura, l’angoscia, il terrore, l’orripilazione, ed è “l’Urlo” del pittore norvegese Edvard Munch che tanto influenzò, col suo simbolismo, l’espressionismo tedesco e nord europeo. Un romanzo che credo meriti una buona e necessaria divulgazione e promozione, ed anche una possibile riduzione a sceneggiatura per un ottimo film.

Il mondo finisce all’orizzonte, questo il titolo, ma un orizzonte che come quella “siepe” lascia immaginare nuovi spazi in cui ritrovare testimonianza e traccia di una buona, ottima, sana e sapiente letteratura.

Ariele D’Ambrosio 



SIPARI APERTI

LUCA SACCOIA E LELLO SERAO RIAPRONO LE PORTE DI CASA CUPIELLO

a cura di Emanuela FERRAUTO

Luca Saccoia e Lello Serao riaprono le porte di casa Cupiello

Riaprire le porte di casa Cupiello significa organizzare una vera e propria sessione di studio approfondito su un testo intoccabile, ossia quello eduardiano. Il lungo lavoro che emerge dalla visione dello spettacolo appare approfondito, accurato, serio, scientificamente e filologicamente attento. Il coraggio di riprendere un testo ormai classico come Natale in casa Cupiello significa aver assimilato, assorbito e assunto il senso profondo della scrittura eduardiana, senza perdere di vista il messaggio. Se un testo diventa “classico” e universale è evidente che l’obiettivo sia comunicare qualcosa che nasce da uno sconvolgimento, personale o storico, per poi rendere il discorso comprensibile e attuale in tutte le epoche. Il racconto eduardiano che caratterizza i personaggi della famosa famiglia Cupiello nasce da uno sconvolgimento del topos “Famiglia”: proprio quella che ci piace osservare e analizzare nell’ultimo decennio e che campeggia ormai destabilizzata e smembrata all’interno della drammaturgia meridionale contemporanea, attraverso evoluzioni e sradicamenti. Anche la famiglia Cupiello è destabilizzata, ma non è ancora “rassegnata” come quella contemporanea, non comprende cosa stia avvenendo, quale sia il suo futuro, anela al cambiamento violento, ma non riesce a sradicarsi dal passato. Lucariello è attaccato morbosamente e angosciosamente ad un elemento ancorato alla cultura partenopea e del Sud Italia, il presepe, che sembra apparentemente il fulcro della discussione e dell’intreccio delle conversazioni tra i personaggi, ma altro non è che il motivo che scatena una riflessione ben più profonda, permeata di ironia, rabbia, colpi di scena e sceneggiata. La regia di Lello Serao e la bravura straordinaria di Luca Saccoia, quest’ultimo ideatore insieme a Vincenzo Ambrosino della versione Spettacolo per attore cum figuris, si coniugano all’antica arte dei manovratori guidati da Irene Vecchia, i quali portano in scena dei pupazzi ideati, insieme allo spazio scenico e alle maschere, da Tiziana Fario. Non sono pupi siciliani, non sono marionette, in assenza di caratteristiche tecniche ben evidenti e di tradizione legata alle famiglie che tramandano ancora oggi quest’arte meravigliosa, ma sono personaggi creati appositamente per questo spettacolo, pertanto assumono un valore inestimabile per la storia del teatro e di questo allestimento. I pupazzi sono manovrati attraverso piccoli bastoncini, appendici degli arti superiori e inferiori, con una maestria tale che la fluidità dei movimenti è umana. La tecnica sorprende in un primo momento gli spettatori e successivamente li coinvolge poiché gli attori sembrano numerosi e nel corso dello spettacolo il pubblico riesce istintivamente a non considerarli semplici pupazzi, ma personaggi in carne ed ossa. Luca Saccoia dà voce a tutti i personaggi, recuperando una scelta coraggiosa presentata in passato già da Fausto Russo Alesi, ma la regia di Serao sembra avere una tendenza che guarda positivamente al futuro, sotto l’occhio severo di Eduardo. Saccoia lavora principalmente dal vivo, ma in alcuni momenti anche attraverso voci off, che permettono all’attore di porsi di spalle al pubblico durante alcune scene. Come è comprensibile, anche se oggi appare superfluo in una produzione contemporanea, è banale raccontare in maniera tradizionale una vicenda che il pubblico conosce bene; si preferisce, dunque, scegliere una maniera innovativa, sebbene ancorata alle tradizioni, di portare in scena i personaggi e, soprattutto, di evidenziare gli elementi chiave del racconto. Questa scelta appare chiara anche attraverso la scenografia che, soprattutto nella prima parte e durante le prime scene, è caratterizzata da un telo-sipario-quinta su cui sono disegnati tutti gli elementi caratterizzanti: la stella cometa, il presepe, i pastori, la lettera, le scarpe, la scodella con la zuppa di latte, le banconote e via dicendo. La sensazione è che sia esploso il racconto, che il passare degli anni abbia impresso così fortemente questa storia nella mente degli spettatori e che gli elementi che la caratterizzano siano rimasti in sospensione.  Lucariello conduce tutta la prima parte seduto sul suo letto e il figlio, Tommasino, rappresentato in forma di pupazzo, appare ancora a letto, mentre gli altri personaggi, la moglie e il fratello, sbucano da fessure e tende che si aprono sulla tela su cui si sono impresse tutte le immagini degli elementi caratterizzanti. Il letto diventa elemento che cuce il racconto, aprendolo e chiudendolo: se il letto delle prime scene è carico di speranza, come lo è Lucariello verso un figlio che disprezzerà il presepe e che ruberà le scarpe allo zio, in conclusione diventa luogo di morte apparente, di passaggio di consegne tra il maestro Eduardo e il figlio artistico Saccoia, attraverso una commovente scena in cui, ancora una volta, Lucariello, stavolta pupazzo, è disteso di spalle al pubblico. Un letto-catafalco, che ricorda il tributo di Enzo Moscato a Eduardo nello spettacolo Tà-kài-Tà, su cui Lucariello guarda al passato, di spalle verso il fondo della scena, mentre gli altri personaggi cercano di guardare verso la platea, al futuro. In effetti lo stesso Tommasino sembra accontentare il padre morente, affermando che finalmente il presepe è di suo gradimento. Luca Saccoia interpreta Lucariello con le sue fattezze, in carne ed ossa, ma via via si sdoppia con il suo alter ego, il pupazzo che rappresenta Lucariello e che mostra le fattezze di Eduardo: l’evoluzione è interessante e istintiva, il pubblico si ritrova ad ascoltare e ad osservare il pupazzo Eduardo/Lucariello dimenticando che Saccoia è in scena e sta manovrando il suo alter ego scenico, dandogli la voce. Una vera e propria trasfigurazione che, a tratti, subisce dei corto circuiti, tanto che, sapientemente, Saccoia non imita mai Eduardo, ma l’orecchio attento percepisce alcune inflessioni, alcuni suoni, una risatina, tutti elementi che improvvisamente l’attore inserisce nella sua recitazione e che sono palesi e doverose citazioni, mai caricaturali, dell’interpretazione di Eduardo. L’intero spettacolo e tutti i personaggi, da Saccoia ai manovratori, anch’essi presenti in scena e successivamente visibili, ai pupazzi, sembrano inseriti all’interno di un presepe in costruzione: lo scheletro metallico che sostiene e nasconde il telone, soprattutto all’inizio dello spettacolo, comincia ad apparire in controluce a conclusione degli atti, per poi diventare parte integrante della scenografia ed elemento che sostiene i movimenti e le azioni dell’attore. L’evoluzione sembra caratterizzata da uno svelamento, uno spogliarsi degli orpelli per andare a fondo, per far emergere la verità e ciò che di nuovo o di deviato appare all’interno del racconto. Emerge, dunque, anche il tradimento della figlia, ma in realtà sembra che la regia voglia insistere costantemente e ossessivamente sul rapporto padre-figlio, sia reale, ma soprattutto artistico. L’apertura ad una possibilità di cambiamento parte proprio dall’atmosfera sospesa, onirica, che incombe sulla prima parte dello spettacolo, come se l’esplosione avesse stordito i vecchi personaggi e le vecchie generazioni, ma dopo una morte simbolica, tutto sembra poter cambiare. Lo spettacolo ha riscosso un successo enorme e la platea del Piccolo Bellini di Napoli ha registrato il tutto esaurito dal 20 dicembre all’8 gennaio. È necessario sottolineare ed evidenziare la bravura di Luca Saccoia, attore che aspettavamo da tempo in scena, che abbiamo visto in televisione, ma che non dimenticheremo mai non solo nella sua interpretazione de L’anima buona di Lucignolo, ma da quest’anno anche in questo suo Lucariello cum figuris. L’utilizzo di una vera e propria “metrica” gli permette di calcolare i tempi di inserimento delle battute tra personaggi, anche quelle più veloci o immediate, oltre a modulare, senza nessuna difficoltà o incertezza, le tonalità e le coloriture delle voci di ogni singolo personaggio. Indispensabile anche la visione del video documentario, firmato da Francesco Mucci, in cui si descrive il lavoro di costruzione dei pupazzi e di interazione tra Luca Saccoia e questi personaggi (visibile alla pagina https://www.youtube.com/watch?v=VYcZrXP_fJw).

In attesa che tanti spettatori italiani possano godere di questo ottimo lavoro, siamo felici di aver ricevuto questo regalo ad apertura del nuovo anno.

Foto Anna Camerlingo NATALE IN CASA CUPIELLO Napoli 20 dicembre 2022 – 8 gennaio 2023 Piccolo Bellini Spettacolo per attore cum figuris di Eduardo De Filippo da un’idea di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia con Luca Saccoia  regia Lello Serao spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario manovratori Salvatore Bertone, Paola Maria Cacace, Lorenzo Ferrara, Oussama Lardjani, Irene Vecchia formazione e coordinamento manovratori Irene Vecchia luci Luigi Biondi e Giuseppe Di Lorenzo costumi Federica del Gaudio  musiche originali Luca Toller realizzazione scene Ivan Gordiano Borrelli assistente alla regia Emanuele Sacchetti datore luci Paco Summonte mastering Luigi Di Martino fonica  Mattia Santangelo progetto grafico Salvatore Fiore  documentazione video Francesco Mucci direttore di produzione Hilenia De Falco un progetto a cura di Interno 5 e Teatri Associati di Napoli in coproduzione con Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini con il sostegno della Fondazione De Filippo per i 90 anni di Natale in casa Cupiello



COME SUGHERI SULL’ACQUA

COVINENIA, CALEMBOUR PER UNA PANDEMIA

a cura di Mario CORBO

Ariele D’Ambrosio, CovidNenia, Calembour per una pandemia, Diogene Edizioni, Napoli 2021.

CovidNenia, Calembour per una pandemia

Infranta l’armonia del cosmo, viviamo il tempo dello spaesamento

Custodi infedeli di bellezza svanita – fantocci anonimi senza volto – attoniti, vaghiamo sospesi nel vuoto. 

Ariele D’Ambrosio, in CovidNenia, si propone di raccontare, in versi saturi di pensosa ironia, l’umana condizione dello spaesamento – nella sua genesi occasionale (pandemia) e remota (società globale postmoderna) – il senso e il non senso che tale status assume nelle vite di individui sempre più precariamente sospesi nel vuoto, come l’immagine di copertina, suggello iconico del percorso poetico tracciato dall’autore, illustra con plastica efficacia.  Tale immagine, creata da Daniela Pergreffi, e tutte le altre che fanno da corona alle composizioni poetiche, indicando la rotta da seguire per una loro adeguata comprensione, rendono inconfondibile il testo di D’Ambrosio: poesie scritte e affidate innanzitutto al pubblico dei lettori, da leggere, quindi, nel silenzio dell’anima, ma, nello stesso tempo, poesie da guardare, attraverso il lampo creativo delle illustrazioni che rischiarano la scrittura svelando significati inediti, in vista della loro destinazione finale: il farsi suono attraverso la voce e la parola orale.  La voce, infatti,  nella duttilità del suo modularsi, dona linfa sempre nuova alla ‘fissità’ della scrittura, rimarcando, glissando, ironizzando e così facendo di poesia teatro, secondo i migliori canoni dell’oralità poetica, tanto cara al nostro autore, teorico appassionato della cosiddetta poesia orale secondaria, detta così per distinguerla dall’oralità primaria, cioè dall’attività poetica che prescinde totalmente dalla scrittura, nascendo e vivendo solo nel tempo dell’improvvisazione e della sua enunciazione.  Nel mondo antico, sulla scia delle intuizioni pitagoriche, Platone aveva già capito che il Bene è il frutto dell’equilibrio dinamico e dell’armonia tra «bellezza, verità e misura». L’ordine intrinseco al cosmo è espressione della fusione tra questi fondamentali valori. Senza misura, non c’è né bellezza, né verità e, di conseguenza, non c’è cosmo, ossia non c’è realtà intelligibile, ma mero caos. Ebbene, i tragici eventi dei nostri giorni (dissesti ecologici e cambiamenti climatici, pandemie, guerre) descrivono la storia drammatica dell’armonia perduta, della rottura di quell’equilibrio tra misura, bellezza e verità, che, riducendo il cosmo a caos, mette a repentaglio la vita stessa della terra e dei suoi abitanti, non solo quelli attuali, ma anche le generazioni future, che rischiano di dover gestire le sorti di un pianeta in condizioni di sofferenza estrema e insanabile. Nella sezione intitolata Pentattico Pindarico I II III IV V (pp. 139-142), D’Ambrosio espone questi concetti in uno dei componimenti più liricamente ispirati del volume – Dov’è la certezza domani – costituito da cinque triadi di Ode Pindarica.  Non a caso, credo, venga riproposta, come illustrazione grafica del componimento, l’immagine di copertina, emblematica nel suo rappresentare il senso di precarietà e di spaesata sospensione nella quale è immerso l’uomo contemporaneo, che, avendo perso ogni punto stabile di riferimento, viene rappresentato come un fantoccio sospeso nel vuoto in cui vagola senza meta, muovendosi su instabili altalene sostenute da esili fili.

Riportiamo, per intero, la quinta triade del componimento (p. 142):

La sorte non c’entra col fato, speranza lo spazio, l’arbitrio, lo iato, che cerca all’interno una danza che sente armonie,

la giusta misura del buono col bello, che sono il respiro del dono sereno ché senza rovello ci lascia le vie

che trovano le soluzioni se guardano all’altro vicino, se scansano false opinioni, pensieri di un mondo piccino, di un mondo che fermo non gira, che senza l’aiuto ci manca, scompare, sprofonda nell’ira, ci stanca.

Il poeta non abbandona la speranza di riscoprire, nell’attuale situazione di sospensione e disorientamento, una danza / che sente armonie / la giusta misura del buono / col bello, recuperando la dimensione dell’incontro solidale e dell’alterità (le vie / che trovano le soluzioni / se guardano all’altro vicino), strada maestra per uscire dal caos e ritrovare il senso dell’esistere. Nell’ordine misurabile e intelligibile del cosmo regna un’originaria assonanza tra gli esseri viventi e tra essi e l’ambiente; nel disordine anarchico del caos prevale, invece, dissonanza e smarrimento: sentimenti che portano ineluttabilmente verso un tramonto senz’ alba. In assenza di regole e di misura non è esperibile alcuna reale libertà, che si configura, come tale, solo in rapporto ad una realtà in qualche modo definibile e controllabile, senza la quale la libertà è solo illusione generatrice di angoscia. Quello descritto è, in breve, il quadro concettuale sotteso a CovidNenia. Se l’occasione contingente della riflessione poetica di D’Ambrosio, in questo testo, è la pandemia da covid che ha colpito il nostro pianeta, il discorso di fondo è rivolto a individuare, descrivere e beffeggiare i miti illusori della contemporaneità, a partire dalla crisi del modello antropologico che ha trasformato l’essere umano da custode a dominatore di una realtà di cui ha smarrito il senso ultimo e la destinazione finale. Nella postfazione al volume (Metrica e rima, perché), curata dallo stesso autore, viene descritta, con chiarezza esemplare, la poetica che ispira le composizioni di questo libro. Nel ringraziare alcuni amici, il nostro autore afferma: «queste persone mi hanno insegnato a giocare con le forme e con le parole, a capire che nel gioco appaiono le metamorfosi e che queste ti aiutano, sorprendendoti, a riflettere e scoprire diverse angolazioni, diversi spazi, altre profondità, nuove superfici».  Pertanto, in contrapposizione alla tendenza, sempre più diffusa nella poesia contemporanea, ad adottare versi liberi, nel tentativo di esperire l’ebrezza illusoria di una libertà ab-soluta, cioè affrancata da ogni vincolo estrinseco, D’Ambrosio utilizza, con grande perizia ed evidente passione, schemi metrici classici, in tutte le loro varianti canoniche e non, ottenendo risultati molto piacevoli e sorprendenti per la loro peculiarità formale e contenutistica. Il nostro autore mostra, in CovidNenia, come l’adozione di strutture metriche classiche, nella loro variegata multiformità, oltre a non restringere gli spazi della libertà poetica, sia in grado, altresì, di alimentare ed orientare l’originaria scintilla ispiratrice con esiti talora inattesi. Al riguardo, l’autore afferma, in una prosa dai suggestivi accenti lirici:

 «la metrica si muta in matrice e la rima sarà la riva dei suoi mari». 

La misura, il ritmo, la rima non sono orpelli di natura meramente formale ed erudita, ma strumenti creativi che, fecondando il linguaggio ab imis, lo rendono generatore di contenuti nuovi e originali. Si potrebbe dire, e mi pare sia questa la visione di D’Ambrosio, che tra la realtà – che nasconde intrinseca armonia e giusta proporzione – e la poesia – che si esprime attraverso misura e ritmo di strutture metriche multiformi – sussista una profonda sinergia: la poesia getta luce sulla realtà, che rappresenta il tessuto connettivo, la cui trama cela ritmi e misure metriche inaudite. Nell’animo del poeta confluisce la metrica della realtà, che l’attività poetica contribuisce a disvelare nella sua recondita armonia.  

Mario Corbo