Bros

di Emanuela Ferrauto

BROS

Coloro che hanno visto questo spettacolo in passato hanno descritto l’esperienza come immersione totale, coinvolgimento destabilizzante, con entusiasmo o disprezzo totale. In effetti sono reazioni fortemente contrastanti quelle provate durante la visione di BROS, non solo dalla sottoscritta, ma anche dagli spettatori presenti al Teatro Bellini di Napoli, dove lo spettacolo è andato in scena dal 13 al 18 dicembre, dividendo fortemente la platea.  Nei giorni seguenti, anche i social più famosi hanno riportato lunghi commenti, alcuni firmati dagli attori e dai registi napoletani accorsi al Bellini per vedere o rivedere questo spettacolo, altri descritti attraverso le parole di un pubblico stupito. Il palcoscenico a scena aperta è illuminato da una luce soffusa che proviene dall’alto, un fascio di luce bianca rifratto a causa della presenza di una costante nebbia che invade l’intera platea, oltre il palcoscenico, mentre il pubblico chiacchiera e prende posto. Lo sguardo dello spettatore risulta, così, “artificialmente” annebbiato, come l’udito, infastidito da casse poste sul pavimento della platea, oltre ad alcune sapientemente collocate sul palcoscenico. L’effetto è di un totale coinvolgimento e stimolo sonoro attraverso la ripercussione dei forti rumori e dei bassi nelle casse toraciche e nelle tempie di tutti gli spettatori. Il rumore è riprodotto, all’inizio, attraverso una sorta di sonar da aeroporto o da stazione spaziale che ricorda una mitragliatrice. Il suono è ossessivo, cupo e intenso, e la macchina da guerra, come quelle poste sui carri armati, gira minacciosa su se stessa, come se stesse analizzando ogni singolo spettatore. Ci ritroviamo davanti ad uno pseudo robot che ci osserva e ci giudica, pronto ad annullarci. Lo spettacolo prevede 22 attori che vengono prescelti prima delle repliche, ai quali viene affidato un “INDICE COMPORTAMENTALE CONSEGNATO AI PARTECIPANTI”, che riporta numerosi ordini, affinché essi eseguano azioni sconosciute e obbediscano ad esse. Gli attori, infatti, recitano indossando degli auricolari. L’intero spettacolo coinvolge l’uomo, inteso nel suo senso storico-culturale più complesso: come gli attori, che incarnano feroci poliziotti, sono sottomessi ad ordini “dall’alto”, cioè dal regista, così gli stessi spettatori subiscono la visione di un percorso caratterizzato da movimenti, suoni e immagini di forte impatto. La recitazione è limitata ad alcuni MOTTI che vengono pronunciati da una voce off, esterna alla scena: si tratta di citazioni in latino, composte da Claudia Castellucci e riportate sopra drappi scuri, ricordando iscrizioni funerarie o epigrafi in lettere romane. Se il motto per sua natura sembra essere qualcosa di ironico e pungente, in questo spettacolo le frasi definite “motti” sembrano moniti, forse davvero ironici o pungenti, ma in realtà rivelano una funzione di ammonimento all’umanità. L’unico vero momento di recitazione testuale è affidato all’attore rumeno Valler Dellakeza, il quale riempie il palcoscenico in apertura di spettacolo, illuminando, con la sua tunica e la sua barba bianche, la scena oscura e tumultuosa: questa immagine sembra trasmettere serenità sonora e visiva, attraverso una luce dolce che rischiara la notte, accompagnata dal rumore del mare in sottofondo. Le origini del mondo sono oscure, ma pacifiche, ma le parole dell’attore, però, non sembrano così serene. Utilizzando la sua lingua, l’attore recita degli estratti dal libro di Geremia, testo ebraico e cristiano, sottolineando in particolare alcuni passi dei capitoli I, XII, XXIII, XXXI, LI, in cui si descrive il rapporto tra umanità e divinità, mettendo in luce il passaggio tra i doni positivi della divinità e gli esisti disastrosi in cui si trascina l’uomo. La lingua è incomprensibile, pertanto gli spettatori sono forniti di un foglio nero in cui sono riportati sia gli estratti pronunciati da questo attore-profeta, sia i Motti, sia l’Indice comportamentale rivolto agli attori prescelti. L’unica parola che il pubblico riesce a comprendere, all’interno del discorso del profeta, è ORACULUM, in lingua latina, scelta questa che mantiene il collegamento con l’antichità ma si proietta verso un futuro che sarà frutto di ciò che è stato costruito dall’uomo nel corso dei secoli. L’elemento religioso sembra emergere costantemente all’interno dello spettacolo, sia esso pagano, sia esso cristiano, sia legato ad una religione politica, metaforica che incombe sull’uomo.  L’equivalenza religione-potere via via emerge sempre più prepotentemente, fino a materializzarsi al centro del palcoscenico attraverso una lunghissima (e mimata) scena di violenza, perpetrata dagli attori-poliziotti su un corpo nudo di un prigioniero e accompagnata da suoni e rumori che rimbombano violentemente nell’animo degli spettatori. Il pubblico appare fortemente scosso, soprattutto gli spettatori più anziani o meno preparati all’impatto con i lavori firmati da Romeo Castellucci. Una spettatrice, infatti, si affaccia da un palchetto, urlando ripetutamente “Basta!”: l’effetto previsto e l’obiettivo sembrano raggiunti. Questo lavoro è, infatti, fortemente antropologico e sociologico, perché nutre la riflessione sull’uomo e su cosa abbia prodotto la libertà di decidere, stimolando costantemente tutti i sensi dello spettatore, spingendolo a riflettere, in qualsiasi modo o verso qualsiasi direzione, pur di renderlo vivo e attivo a teatro. All’interno della scena gli stessi poliziotti costruiscono numerosi tableaux vivant, riproducendo alcuni dipinti di Jaques Louis David, dal Giuramento degli Horatii a La morte di Socrate, da Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt a numerose deposizioni del Cristo Morto, per ricordare i più famosi. L’apparizione di dipinti viventi all’interno di una scena in movimento, caratterizzata da gruppi di attori-poliziotto che, a prima vista, appaiono identici tra loro, si rivela come un contrasto d’immagine e semantico, frutto di un enorme lavoro di costruzione che proviamo ad individuare dietro ad un tale prodotto artistico. Oltre alla costruzione scenica, curata nei minimi particolari, con doppia regia sonora, sia sul palcoscenico che in fondo alla sala, dobbiamo riflettere attentamente sulla costruzione drammaturgica, apparentemente assente nei dialoghi e nella struttura consueta del testo teatrale, ma prepotentemente affiorante nelle simbologie sceniche che avvolgono il pubblico e l’attenzione dello spettatore, il quale viene fagocitato in questo racconto che tale è, nonostante l’assenza frequente di parole. L’evocazione, infatti, le analogie, i rimandi, le simbologie, i riferimenti artistici, gli effetti scenici, creano una fitta rete che sostiene l’intero spettacolo e che, inevitabilmente, con vari esiti, produce nello spettatore delle riflessioni. Si giunge, dunque, all’individuazione del concetto di abuso di potere da parte dell’uomo, il quale in epoca biblica ottiene la possibilità di gestire il mondo e di ottenere, poi, il libero arbitrio, per poi equivocare e perdere le redini del controllo del potere nel corso dei secoli. Appare incredibilmente potente l’immagine dei BROS, di questi fratelli poliziotti uniti nell’abuso di potere contro l’uomo nudo che muore mentre sale il lamento di un neonato. Così come è inquietante l’immagine di tutti questi poliziotti che seguono le direttive di una “super marionetta”, memore del teatro della prima metà del Novecento, che cala dall’alto e che appena spalanca la bocca emette urla, rumori e grida.  Dopo uno sparagmòs di memoria classica, si arriva ad un momento di catarsi, attraverso l’uso di bombole di fumogeni che suonano realmente sul palco come un organo e che spruzzano vapore e acqua, creando un’immensa fontana che ricorda gli idranti delle cariche della polizia. L’acqua che purifica il mondo e che si eleva a cattedrale sul palco, per poi riversarsi  gocciolante dal proscenio verso il sottopalco attraverso un sistema di piccole grondaie. Finalmente il silenzio, colorato da un sottofondo di gocce e di rivoli d’acqua. Lacrime, acqua e sangue si mescolano e colorano il palcoscenico e le divise, i volti e le pistole a salve che stordiscono le orecchie degli spettatori. Il cerchio si chiude. Ultimo motto: DE PULLO ET OVO (Del pulcino e dell’uovo). Compare un bambino in tunica bianca, come il profeta apparso nelle prime scene. Si guarda intorno, osserva i poliziotti, ha un distintivo. Gli viene donato uno sfollagente. Comincia a muoversi come i poliziotti. L’errore dell’uomo si ripete ancora. Il pubblico applaude, dividendosi tra fischi, lamentele, stordimento e applausi ardenti. Esperimento riuscito.

Foto Luca Del Pia BROS Teatro Bellini Napoli 13-18 dicembre 2022 concezione e regia Romeo Castellucci con Valer Dellakeza con gli agenti Luca Nava, Sergio Scarlatella e con uomini dalla strada musica Scott Gibbons collaborazione alla drammaturgia Piersandra Di Matteo assistenti alla regia Silvano Voltolina, Filippo Ferraresi 

una coproduzione Societas, Kunsten Festival des Arts Brussels, Printemps des Comédiens Montpellier 2021, LAC Lugano Arte Cultura, Maillon Théâtre de Strasbourg – Scène Européenne; Temporada Alta 2021, Manège-Maubeuge Scène nationale, Le Phénix Scène nationale Pôle européen de création Valenciennes, MC93 Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis, ERT Emilia Romagna Teatro Italy, Ruhrfestspiele Recklinghausen, Holland Festival Amsterdam, Triennale Milano Teatro, National Taichung Theater, Taiwan