La difficile sfida di Salvatore Emblema

a cura di Franco Betteghella

Lo splendido parco della reggia di Capodimonte in una mattinata di sole napoletano, schietto e nostalgico di una estate non rassegnata, dispone nel migliore dei modi ad approcciare il senso di una mostra che attrae e intriga, quella di Salvatore Emblema. Le opere esposte al terzo piano del museo, nella loro francescana essenzialità sono della fine degli anni sessanta e possono essere annoverate, secondo me, a quel movimento sapientemente teorizzato da Filiberto Menna che va sotto il nome di ARTE ANALITICA. Menna ed Argan erano a quell’epoca grandi sostenitori di un’arte -Argan parlava di ricerca- che fosse più vicina ad un metodo di analisi delle componenti costitutive dell’opera d’arte. Salvatore Emblema raccoglie la difficile sfida e si lancia coraggiosamente nella ricerca.

Le opere di Emblema sono essenziali, monocromie che alludono ai timbri cromatici delle facciate delle case dei contadini del suo paese, Terzigno nel vesuviano. Questi dipinti che lasciano sempre intravedere la tela grezza di juta, sono segnati da tracce appena vagamente materiche, corredate da qualche enigmatica grafia. La ricerca di Emblema va avanti per sottrazioni. Con grande temerarietà arriva ad indagare la tela juta: la tinge, a volte, la detesse, sfilando dalla trama e dall’ordito. La detessitura lascia trasparire telaio e parete sottostante, creando coralità e fusione dei vari elementi.

La tela non e’ più sopporto, è diaframma  spaziale fra la parte anteriore e posteriore del quadro, che a questo punto diviene integrato in una totalità spaziale. Aver portato a tali estreme conseguenze una ricerca estetica non è cosa di poco conto. L’artista a questo punto immagino si sia trovato nell’impossibilità di proseguire in una ulteriore ricerca di sottrazione. Non si scoraggia, le opere si arricchiscono di campiture cromatiche che alludono a paesaggi, altre offrono grovigli segnici gestualmente eleganti che ammiccano a forme antropomorfe. Mi vengono in mente i giochi dell’infanzia, nei quali la creatività deve riprendere, non si arresta.

Concluso il percorso museale, vengo conquistato da un’opera ambientale: un enorme rettangolo sospeso nello spazio, un diaframma che lascia intravedere il paesaggio della città velato da quello stesso diaframma che interpreto come la volontà di dipingere l’aria.

Altre opere legate alla stessa matrice ispirativa troviamo nel cellaio, fra cui una macchina di scena del 1975 per la rappresentazione teatrale di PADRONE E SOTTO per la regia di Gennaro Vitiello nell’ambito della manifestazione del GIUGNO POPOLARE, pubblicato già nel quaderno dal Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo a cura di Rosaria De Angelis, Dante e Descartes, Napoli 2013.

FRANCO BETTEGHELLA