Guida Galattica per i lettori | Settembre 2022

Contenuti: 

AMICO ROMANZO

LA SIGNORINA E L’AMORE

a cura di Sara CARBONE

GIOVANNA MOZZILLO,
 La signorina e l’amore,
Cava de’ Tirreni, Marlin Editore, 2021.

Finalista al premio Morante 2002 e ripubblicato nel 2021 dalla casa editrice Marlin, La signorina e l’amore, è il romanzo dell’autrice e giornalista napoletana, Giovanna Mozzillo e narra la storia di un amore proibito, clandestino, battagliato – come scrive Mario Avagliano nell’introduzione alla nuova edizione – che si consuma, ai tempi del fascismo e della guerra, tra la giovanissima Rosella Benevento e il medico dalla carriera promettente, Leonardo Pavoncelli, ammogliato, con due figlie e apparentemente felice e appagato.

Sullo sfondo di una Napoli dalla bellezza intatta, assoluta, sublime, in cui la natura domina ancora incontrastata, si stagliano le azioni del vivere quotidiano di una folla di personaggi che conferiscono al narrato la marca di romanzo corale. Primeggiano le figure femminili che fanno da motore alla progressione della trama e che la dicono lunga su una società ancora sessista – quale quella italiana al tempo del fascismo – che separa anche gli spazi fisici: luoghi abitati da donne; luoghi per donne arredati con suppellettili e oggetti che, non solo caratterizzano lo spazio femminile, ma ne descrivono le stesse azioni, come il necessaire da toilette, per esempio, unico regalo che Leonardo fa a Rosella. Le donne della storia, inoltre, sembrano legate da un filo invisibile che consente relazioni speculari al di là dello spazio e del tempo: la zia Pipina rappresenterà per Rosella, anche dopo la sua morte, quello che quest’ultima rappresenterà per la nipote Giovannella.

Rosella è personaggio complementare di sua sorella Teresa e di Iris, la moglie di Leonardo.

Rosella e Teresa rappresentano, indubbiamente, il tentativo di riscatto del mondo femminile che si batte per affermarsi come realtà pensante e agente autonoma: la prima, creatura empatica, passionale ed emotiva con un sistema nervoso a funzionamento intermittente, persegue un riscatto emotivo e sentimentale e matura una consapevolezza di sé stessa e della Storia solo perché è una donna che ama; la seconda, tutta cerebrale, che non conosce malinconie, né sbalzi d’umore, né malesseri, ingaggia con successo una lotta contro la società del tempo per un riscatto intellettuale: grazie “allo studio e alla lettura del giornale”, comprende fin da subito che il fascismo ha soppiantato la legge con l’insolenza e che si risolverà in una penosa catastrofe. 

Rosella e Iris, invece, rappresentano per Leonardo, che non sarà in grado di scegliere tra le due fino alla fine e che si affiderà alla scelta della Storia al posto suo, “un unico corpo d’amore”, per cui, mentre la moglie è la donna che, attraverso le giuste relazioni sociali e la conoscenza delle etichette della società borghese e fascista degli anni Venti e Trenta, apre al marito le porte del successo professionale, l’amante incarna la figura del “demiurgo”, del “prestigiatore” capace di condurre l’uomo verso esperienze di vita autentiche. Con Rosella, Leonardo, l’esimio professore, depone la maschera, incontra sé stesso: i due amanti si ritrovano nell’appartamento in cui lui è vissuto da ragazzo, dove un presepe del Settecento resta esposto tutto l’anno; Leonardo cucina per la giovane amante e cura il piccolo orto di piante aromatiche. 

Nell’esprimere un giudizio su questo amore clandestino, la Mozzillo, narratrice onnisciente, assume, scevra da ogni desiderio di sopraffazione intellettuale esercitata dal romanziere, un contegno di non partecipazione. 

L’insistita presenza dei luoghi storici della città partenopea – San Potito, piazza Dante, piazza Carità, il bar della Scimmia, il bar Gambrinus dove si sorseggia un caffè rigoroso, senza fronzoli (…) – fanno del romanzo in un itinerario geografico della città. Una scrittrice, la Mozzillo, “nel ventre di Napoli”: impossibile non pensare alla Serao e alla sua «gran via», quella che «non ha rivali» quando Giovannella descrive via Toledo come il centro del mondo, la strada che metteva in fuga la malinconia. Il ricorso a figure e temi della cultura napoletana, d’altro canto – il monaciello mariolo che occupa i segreti suppegni delle case; la campana di vetro che protegge la statua di santa Caterina d’Alessandria; la capera; il presepe (…) –, fa de La signorina e l’amore una sorta di prontuario etnografico napoletano.

Questo della Mozzillo si caratterizza come romanzo storico non solo per i richiami alla società e alla cultura fascista dell’epoca, quanto per le pagine dedicate alla guerra e ai bombardamenti, che in alcuni passaggi riportano alla mente le scene narrate nel romanzo La pelle di Curzio Malaparte.  A Napoli il palazzo dei Paternò è crollato è una delle prime frasi dell’ultima delle quattro sezioni in cui è organizzata la scrittura, distinte per anni – 1925, 1932, 1936 e 1942 – e che costituisce l’unica vera cesura, storica appunto prima che narrativa, della vicenda:la guerra ha travolto la città, i suoi abitanti e Rosella e l’intero racconto. 

La signorina e l’amore, romanzo anche sociale, descrive una società borghese tutta protesa al mantenimento delle distanze sociali, impegnata a salvare il decoro e rispettare le convenienze, una società che ama nascondersi, come la marchesa Vitolo, l’amante di don Mariano, che abbassa la veletta per nascondere la ragnatela delle rughe al funerale di Giulietta.

Trecentocinquanta pagine in cui si narra il necessario ma si descrive tantissimo, sorrette da artifici narrativi e retorici: da ampi flash forward, come quello tra le pp. 197 – 234, a sinestesie e troncamenti che avvicinano alla materia narrata – un grande amore – e che impreziosiscono il romanzo di una componente marcatamente romantica.

 Espressioni come piccirillo, vocella, camerierella, suppegno o quelle ancora più indicative come ingrassare con la mano del cuore e molte altre, fanno della Mozzillo un’autrice che scrive e pensa in napoletano e affida alla nipote Giovanella, dietro cui si cela spesso, riflessioni sugli aspetti più vari della vita, come quello sulla vecchiaia: ho capito che la vecchiaia è una maschera, una maschera grottesca – e a forza questa maschera ti viene calcata sul viso affinchè gli altri abbiano un alibi per fingere di non riconoscerti (…) io mi sono resa conto che, sotto l’ignobile maschera, in fondo al cuore, può succedere si resti giovani per sempre.

Sara Carbone



SIPARI APERTI

PAESE MIO BELLO – L’ITALIA CHE CANTAVA E CANTA

A cura di Paola GUIDA

Paese Mio Bello – L’ Italia che cantava e canta.
Lello Giulivo, Gianni Lamagna, Anna Spagnuolo, Patrizia Spinosi.
Michele Boné, Paolo Propoli (chitarre)
Etichetta Soundfly, Napoli, 2020

Paese Mio Bello: respirare “arie” di tradizione popolare

“Carissimi amici di gioventù” disse Gianni rivolgendosi ai suoi stimati compagni. “Sempre il mio impegno come artista in questo tempo presente sarà quello di trasmettere ciò che per me di più rappresentativo costituisce la tradizione popolare di cui siamo stati testimoni ed interpreti e che so condividere con voi essere il canto, il teatro, la poesia, la musica”. “Certo” gli rispose Patrizia “Siamo figli di una scuola napoletana che ha dato maestri illustri in tutta l’Europa e siamo allievi della disciplina millenaria dell’oralità”.  “Non soltanto” esclamò con orgoglio Lello. “Nessuna altra lingua dialettale italiana si adopera meglio alla musica quanto il nostro dialetto, con la sua propria autentica autonomia espressiva estranea ad ogni forma di disfacimento, ancorché ha fatto epoca e fa epoca”. “Allora questo è un sodalizio di intenti?” intervenne entusiasta Anna. “Ci siamo conosciuti quarant’anni fa e pur avendo percorso da un certo punto in poi strade diverse tra il teatro, la musica il cinema, non ci siamo mai persi di vista”. “Bene! La situazione è questa, ho una proposta per voi” pronunciò con vigore Gianni. “Durante le mie ricerche ho trovato casualmente una raccolta contenente registrazioni di canti popolari degli emigranti in America negli anni tra il 1911 ed il 1939. Il titolo della raccolta è Paese Mio Bello, l’Italia che cantava e canta, e mi piace molto. Se siete d’accordo questo sarà proprio il titolo del nostro primo progetto artistico”…. Lo scorso 22 Agosto il Festival dello Spettacolo Sorrento 2022 tenutosi a Villa Fiorentino ha ospitato il concerto a 4 voci e due chitarre dal titolo Paese Mio Bello…L’Italia che cantava e canta, ideato e coordinato da Gianni Lamagna, interpretato insieme con Lello Giulivo, Anna Spagnulo e Patrizia Spinosi. Strumentisti: Michele Bonè e Paolo Propoli. Un Recital/Concerto molto articolato e  dal carattere polistilistico, polifonico, poliritmico. Forte è la volontà dei nostri artisti di ridurre le distanze che intercorrono tra la cultura musicale popolare campana e la cultura “classica” in senso più ampio.  Gianni, Patrizia, Anna e Lello sono professionisti noti formatisi “tra le pagine”, per così dire, dei vecchi capitoli della storia della nostra tradizione popolare campana. Il loro privilegio rispetto alle più giovani generazioni di attori/interpreti è quello di aver potuto respirare nel vivo l’aria della Napoli anni ’70, anni in cui nacquero gruppi di ricerca con la ferma determinazione nell’affermare il carattere culturale delle loro attività artistiche interessate in modo particolare a quei fenomeni che di più decentrato e periferico potevano essere rispetto ai modelli culturali imperanti. Patrizia Spinosi lo ha testimoniato in una sua recente intervista: «Ci siamo conosciuti nel ’79 nella Compagnia del Maestro Roberto De Simone che in quell’epoca era proprio nel pieno della sua attività artistica e culturale…era un momento storico particolare di fermento…eravamo tutti ragazzini ci siamo formati insieme, e abbiamo avuto la fortuna di poterci muovere da subito in un ambiente musicale e teatrale molto alto». 

….Bella figliola ca te chiamme Rosa. che bellu nomme mammeta t’ha miso….

Dunque il concerto ha inizio: «con le parole dei due endecasillabi appartenenti alla più nobile delle tradizioni orali campane», adattate in forma di arioso sulla musica dell’Intermezzo Sinfonico della Cavalleria Rusticana (1890) di Pietro Mascagni (eccellente compositore verista, discendente in linea retta degli operisti italiani).  A seguire l’omaggio al Mº Roberto De Simone con la Tammurriata di Piedigrotta composta nel 1979 in occasione della rappresentazione della Festa di Piedigrotta del drammaturgo Raffaele Viviani. «Una Tammurriata senza tammorre, come piace a noi…specialmente a me», spiegherà poco dopo Lamagna. In effetti non ascoltiamo tammorre eppure la tecnica percussiva impostata sulle chitarre di Bonè e Propoli sortisce quelle stesse suggestioni ritmico- ossessive di antica memoria dionisiaca. Si percepisce chiaramente la sintonia, la buona armonia, la complicità tra le due voci maschili e le due voci femminili, sempre più serrate man mano che si sviluppa il canto; il ritmo aumenta ed il respiro è rapido, il fiato sempre più corto nell’inseguire i richiami onomatopeici che il testo richiede. Eppure non sembrano stancarsi, quei colpi di voce «quel testo apparentemente sconnesso ricco di significati simbolici e di frasi ai limiti del non-sense» rimbombano nella nostra testa, e siamo noi alla fine, ….noi pubblico, …e non loro interpreti, ad essere sopraffatti nel respiro, ci rendiamo conto che per tutto il tempo di quei tre interminabili minuti siamo rimasti in apnea  dimenticando di respirare. A questo punto i nostri amici consapevoli del forte impatto che il canto e la musica hanno avuto sulla psiche e sul “range polmonare” di tutti noi presenti, senza grandi pause o tracannanti bevute da bottigliette d’acqua minerale da 500 cl., assecondano il nostro bisogno di ossigeno intonando il terzo componimento che chiude questa prima parte del concerto preparandoci ad uno stato di catarsi attraverso la citazione poetica dell’amore eterno shakespiriano e ad una incitazione «a non cambiare mai fino all’urdemo respiro». ˊO Cientoessidice (sonnet 116) è il titolo del testo in versi tradotto in lingua napoletana e musicato da Lamagna a partire dalla raccolta dei 154 Shakespeare Sonnets (1590 cc). Nella seconda parte il gruppo presenta il suo secondo lavoro discografico dal titolo #Suite Napoletana 2: «Una successione di 20 frammenti di canzoni napoletane cucite insieme», secondo un procedimento di affinità di suono e di parola tra la coda della prima e l’incipit della seconda che segue, e così via dando il senso di un continuum melodico molto più esteso rispetto alla precedente Suite Napoletana (pubblicata nel 2018) e che, come auspica il portavoce del gruppo: «ci auguriamo possa acquisire l’ampiezza di una sinfonìa». Allora cerchiamo di cogliere le fonti di queste tracce datate tra la fine ‘800 e metà  ‘900: Bene mio Core mio!.. ʹE SurdatelleʹO Surdato ʹnnammuratoIo, ʹna chitarra e ʹa lunaNuttata ʹe sentimentoChioveEra de MaggioNapulitanataLuna NovaQuanno tramonta ʹo soleTarantella TaranteʹSanta Lucia luntana Vieneme ʹnzuonnoAddò me vase Rosa. Qui si celebrano le interpretazioni dei grandi Sergio Bruni, Roberto Murolo, della poesia di Salvatore Di Giacomo, le commedie di Eduardo, le citazioni da repertorio fonetico della Nuova Compagnia di Canto Popolare (Nccp). L’affiatamento e la gioia di essere sul palco e di condividere con chi ascolta l’idea di fondo che motiva “i nostri” nell’intento di: «restituire dignità alla canzone napoletana, in alcuni contesti talvolta calpestata perché in fondo la musica d’autore non ha nulla da invidiare alla musica classica».  L’ultima parte del concerto vede protagonista il ‘700 napoletano con i grandi Maestri compositori della commedeja pe’mmuseca: Leonardo Vinci e Giovanni Battista Pergolesi. In luogo Giulivo e Lamagna interpretano l’aria di Meneca e Colagnolo tratta da Li Zite ˈngalera (1722) su libretto di Bernardo Saddumene,  e  Chi disse ca la femmena tratta da Lo frate ‘nnamorato (1732) su libretto di G.A.Federico. In questo particolare momento si palesa la bravura degli attori di teatro.   Lieti di aver potuto godere dell’ascolto di questa collezione musicale dai tratti marcatamente diacrònici, e avendo ben chiaro il principio secondo cui la tradizione si rinnova ciclicamente ed è un bene condiviso e condivisibile, possiamo ora salire sul treno intercontinentale che dalla nostra terra ci porta “nell’ombelico della luna” con un  prisiénto che Anna, Gianni, Lello e Patrizia fanno alla cultura popolare messicana: i brani Cancion Mixteca e Cielito Lindo chiudono questo recital concertante sulla sfumatura di una nuance di Tango branduardiano.  

Un applauso accorato ai nostri stimati interpreti ed alla loro militante perseveranza. 

Paola Guida



COME SUGHERI SULL’ACQUA

DESIDERIO DI COSE LEGGERE

a cura di Ariele D’AMBROSIO

Antonia Pozzi
Desiderio di cose leggere
Salani Editore
2020, Seggiano di Pioltello (MI)
Pagine 192
euro 10,00
Info:
https://www.salani.it/libri/desiderio-di-cose-leggere-9788893817554

Il sole e il pianto dei mondi 

Il libro di poesie è tra le mie mani. Lo sfoglio, lo annuso. La carta stampata non ha sempre lo stesso odore, ma è come se cercassi da quella fragranza la verità dei suoi versi interni. È buona, spessa, matta. Mi piace toccarla, sfregarla tra il pollice e l’indice. In copertina una donna fatta di colori pieni, con le labbra rosse come la cravatta che indossa, il colore dei capelli bordeaux come il pullover, il colletto della camicia è tutt’uno con lo sfondo azzurro. Il volto è bianco come il titolo. Non ha occhi, non ha naso. Una testa che ha già guardato ed odorato, con l’aria di mare e di cielo che le penetra dentro attraverso quel colletto, una testa silenziosa che pensa ma che ancora può baciare con le sue labbra rosse. Una splendida copertina, uno splendido poeta Antonia Pozzi, per la cura di Elisabetta Vergani attrice e drammaturga e la prefazione di Eugenio Borgna psichiatra. 

Diciamo subito che Antonia Pozzi è poeta noto e che in letteratura, oggi anche in rete, se ne potrà trovare subito notizia, insieme al suo volto di giovane donna raffinata, elegante, appena malinconica, anche decisa. È vissuta per soli ventisei anni, fino al dicembre del millenovecentotrentotto. Nel risvolto destro di copertina queste sue parole: «È terribile essere una donna e avere diciassette anni. Dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi».

È per queste parole che ho subito voluto citare i nomi di un’attrice drammaturga e di uno psichiatra. La Poesia tra il Teatro e la Psiche, la Poesia con il Teatro e la Psiche. Il miglior modo di collocarla. Perché la poesia ha sempre, di diritto, abbracciato il Teatro con la sua oralità e col desiderio di donarsi a chi vede e ascolta, ed ha sempre cercato compenso, senso, casa, abbraccio da donare alla Psiche da cui è scaturita. Resta ancora un’ultima cifra da riunire alle altre: la Filologia, il corso di laurea in Filologia Moderna a cui Antonia Pozzi approdò nel millenovecentotrenta. Filologia che è anche storia della parola, percorso, strada, viaggio in cui scoprire profondità assolute e anfratti improvvisi, per ridare ai nomi delle cose e dei pensieri, il valore vivo delle emozioni da trasmettere a chi le leggerà mentre si scrive. 

… inserendoti ancora una volta di colpo / nella schiera delle leggende giovani. Così due versi di una poesia di Boris Pasternak per la morte suicida di Vladimir Majakovskij. Così per la stessa morte di Antonia Pozzi. Così per quella che eternizza l’amore, anche quello dei poeti sofferenti e fragili in quel pazzo desiderio di donarsi, «… per la paura del tempo, / per la fretta / di vivere. …».

Desiderio di cose leggere è il titolo e il verso di una sua poesia, è il titolo del libro che forse cerca un equilibrio alla condizione di una donna di quel tempo: colta, passionale, inquieta, attenta alla natura, a quella umana e sociale degli ultimi, nel difficile e contrastato rapporto con il mondo maschile, come ci dice il risvolto sinistro di copertina. Poesie comprese in dieci contenitori di tempo: dal 1929 al 1938 precedute dalla prefazione: Antonia Pozzi e la poesia ferita, e concluse da qualche notizia anche biografica:  Antonia Pozzi e la poetessa milanese.

Una poesia al femminile? Non mi piace dirlo, preferisco parlare di un poeta che guarda ad un aspetto della storia e della condizione dell’essere umano, dell’essere donna del suo tempo, e che arriva fino a noi, al nostro contemporaneo, con la verità che ha scavalcato i confini di quel tempo. L’età dell’occidente in cui è ancora consentito il grido, la riflessione, il movimento d’opinione che cerca leggi eque per comportamenti equi, mentre in altre parti del mondo tutto è ancora silenzio ammutolito, mummificato, con la voce della poesia sepolta nell’oblio o che rischia la morte dei poeti stessi, uccisi o suicidi, come è sempre avvenuto.

È bello leggere le date a fine poesia, a volte anche i luoghi, ti fa stare con lei in quel tempo ed in quel luogo, con lei che assapora il sole ed il mare, il vento e la luna, il cielo e il tramonto: Sorrento, 2 aprile 1929; Milano, 10 aprile 1929; S. Margherita, 23 giugno 1929; Carnisio, 3 luglio 1929; Pasturo, 18 luglio 1929; Palermo, 20 luglio 1929

Così scrive a diciassette anni, e trascrivo per intero questa poesia: «C’era uno straccetto celestino / sopra il muro / tutto sgualcito di ditate rosa / tenuto su da due borchie di stelle / ed io lì sotto / come un cencio cinerino / in cui la gente incespica / ma che non val la pena di raccogliere / – lo si stiracchia un po’ di qua e di là coi piedi / e poi / a calci / lo si butta via –». Sì, ha ragione Eugenio Borgna a parlare di una grazia straziata, di una tenerezza ferita, di innocenza e di gentilezza. E mi viene alla mente un altro poeta infinito, e mi si conceda, per una volta, la retorica di questo aggettivo misterioso: Forugh Farrokhzàd e pochi sui versi da dedicare ad Antonia Pozzi: …una finestra che come pozzo rotondo / raggiunga il cuore della terra / e s’apra sulle vastità / di questa lunga gentilezza azzurra. La gentilezza, che connota lo scrivere di questi poeti, ed il mondo si lega, si unisce. E la poesia diventa un ponte che abbatte muri, un arcobaleno che ci svela i colori del suo bianco, e ci aiuta e ci cura.

Non entro nelle vicende delle dinamiche familiari che pure avranno contribuito ad una sua depressione patologica forse già insorta in età adolescenziale, m’immergo nel suo fragile desiderio di morire, nella sua nostalgia della morte, nelle sue alte maree della malinconia, nel suo desiderio di amore assoluto, nella sua sognante, bruciante, dolorosa malinconia, nella sua sconsolata tenerezza, nella sua struggente dolcezza e nostalgia, nel suo destino di dolore e di solitudine, così come dice bene uno psichiatra dell’umano. E su tutto questo mi soffermo, ma cosa sarà la nostalgia della morte? Ed allora: «Ieri sera le stelle / erano fitte come i battiti del mio orologio. / Questa sera sono cadute tutte nella strada: / ingigantite dalla vicinanza, noi le chiamiamo lumi. /… / il cielo è cieco e stupito / come una tazza vuota. / Ed io guardo all’azzurro irraggiungibile, / per non guardare a quello che ho compiuto, …». Sarà così che mi spiego la calzante definizione: l’impossibilità di racchiudere l’immenso quando l’amore si espande, e il cercarlo non può che andare oltre la vita, oltre il proprio corpo. 

Già a diciassette anni lo scavo profondo di sé, in una dimensione diaristica che ce la fa abbracciare per la sua tenerezza lieve fatta di piccoli racconti: la classe, la scuola, l’amica del cuore, il suo grande amore d’innamorata estrema, i luoghi di vacanza. Basta “poco”, veramente “poco” per diventare montagne e valli nella mente di un poeta che oltrepassa il tempo, e non è mai giovane e non resta mai vecchio. E Guido Gozzano, Sergio Corazzini, a cui il poeta a momenti mi riporta, diventano ancora più leggeri, aeriformi, in questa poesia del tramonto che appare volare come l’effimera dell’ora. 

Poesie anche con versi liberi e con spezzature che già sanno di pause interiori e di silenzi necessari al pensiero da comunicare. Un talento insomma, con i suoi endecasillabi sciolti, che a quest’età già si dipanano e si susseguono certi e decisi come un canto libero che sa di A Silvia perché lei stessa è Silvia: «… Vedi come incavato ho il ventre. Incerta / è la curva dei fianchi, ma i ginocchi / e le caviglie e tutte le giunture, / ho scarne e salde come un puro sangue. / Oggi, m’inarco nuda, nel nitore / del bagno bianco e m’inarcherò nuda / domani sopra un letto, se qualcuno / mi prenderà. E un giorno nuda, sola, / stesa supina sotto troppa terra, / starò, quando la morte avrà chiamato.». Έρως Θάνατος, o anche per un soffio di speranza ο’ θάνατος τόν βίον γεννᾷ, la morte che genera la vita; ma qui è la vita con tutta la sua forza sensuale che cerca l’assoluto dell’amore, e ’l naufragar m’è dolce in questo mare. La vita che cerca l’assoluto come solo può cercare una giovane diciassettenne liceale al suo professore di Latino e Greco: «… Io resterò sul greto, fra i cespugli, / dove l’acqua non giunge, fra le pietre / chiare, rotonde, immote, come dorsi / di una gregge accosciata. Col mio pianto / vitreo, pari a lente che non pecca, / io specchierò e raddoppierò le stelle.». E noi non vogliamo interrompere questa ricerca di libertà e di vita, anche se naufraga nel mare profondo e oscuro della speranza: «… Nel mio ricordo stanco, disperato, / tu ti frantumi d’ombra e di silenzio.».

Poesie postume; sempre quando la vita si fa breve. Eppure leggendone notizie vedo Antonia Pozzi camminare tra nomi illustri: la grande italianista Maria Corti che la conobbe all’Università e ne disse con intensità, Vittorio Sereni coetaneo e di cui fu fraterna amica, Eugenio Montale, poi, che scrisse assai bene della sua poesia e la svelò. Ma perché cito questi nomi? Non per dare lustro ad un poeta che risplende da sé, ma semplicemente perché ho sempre pensato che gli incontri importanti e profondi, anche solo sul piano intellettuale, avvengano sempre sulla base di affinità elettive, di visione del mondo, di approfondimenti e ragioni metafisiche. 

Qualche titolo: Cencio, Solitudine, Vuoto, La discesa, Vertigine, solo per sottolineare un lessico netto, conciso, che nella sonorità dei testi non si concede mai a sbavature retoriche, ad ovvietà abusate, mentre si concentra a definire nella geometria del nitore, nella sostanza densa delle storie, riflessioni ed emozioni. Qui, a mio avviso, la sua ricerca di poeta già maturo: «… il silenzio che dondola a ondate … »; «… in un azzurro fresco, veemente. …»; «… vedo / i brividi lanciarsi verso me; …»; «… in triangoli bianchi di vele / che m’accennano / l’alto.»; «… come una notte rorida di stelle, …»; «… questo zampillo estatico di rupi, …»; «… qualche grido di verde e di scarlatto, …». Termino questi esempi con gli ultimi cinque versi della poesia Solitudine: «… No: sono sola. Sola mi rannicchio / sopra il mio magro corpo. Non m’accorgo / che, invece di una fronte indolenzita, / io sto baciando come una demente / la pelle tesa delle mie ginocchia.». Quanta modernità, direi contemporaneità senza tempo, e quanta intensità che si racchiude nei gesti veri di un momento!

Dal ’30 al ’38, dieci anni che sono un’ultima vita. Il tempo per riflettere emotivamente sul suo amore infranto, e che sempre più dilata in un tutt’uno con la natura che la circonda. Una contemplazione che cerca un infinito impossibile da definire in un amore umano, ma che la espande fino a lacerarla, e che la muta in montagna e lago, mare e vela, erba e neve, raddoppiando le stelle   cadute come fossero lumi, come fossero disperate luci terrene, e non fuochi fatui di chi è sparito ed è restato solo una tortura del tempo già spento. E intanto mi sono restati nella mente le stelle ed i bambini che la guardano «… per vedere come è fatta / questa cosa curiosa che son io. / … / e di colpo sento / che ho io di loro assai più vergogna / che non essi di me. / … / mi sento morire, mi sento morire di vergogna / davanti ai loro occhi tondi di passeri / che mi guardano di là dalle sbarre; / davanti alle loro animette / di passeri liberi, avvezzi / ad entrare, ad uscire / dagli uscioni sgangherati / delle vecchie cascine, senza smuovere mai / l’enorme catenaccio arrugginito…». 

Antonia Pozzi, giovane donna di famiglia agiata, nella sua prediletta villa settecentesca a Pasturo, che non si fa distrarre né dal suo benessere, né dalla “cultura” di potere, ma resta, con questi versi, ancorata alla sua “aristocrazia” culturale, che guarda e non dimentica quella parte di mondo povero e diseredato: «Pesano fra noi due / troppe parole non dette // e la fame non appagata, / gli urli dei bimbi non placati, / il petto delle mamme tisiche / e l’odore – / odor di cenci, d’escrementi, di morti – / serpeggiante per tetri corridoi // sono una siepe che geme al vento / fra me e te. …».

Vorrei ancora poter trascrivere per intero quattro poesie, a scandire il ritmo di questi nove anni di vita compiuta. Ne cito i titoli: Largo del 1930, Limiti del 1932, Non so del 1933, Cose del 1933. Quattro poesie che mi hanno commosso, perché ci appartengono, perché sono l’eredità dell’umano profondo che non fugge né occulta la verità della vita, e si lacera mentre ne coglie la stupefacente bellezza e le insidiose e dirompenti brutture: «… Già troppo soffersero / del mio rancore / le cose: e vivere non si può / a lungo / se silenziosamente piangono / le cose, su noi. …».

Ma voglio concludere con un abbraccio, l’abbraccio tra due poeti di tempi e luoghi lontani e pur vicini. Antonia Pozzi che stringe le mani a  Forugh Farrokhzàd e le sussurra i suoi versi: «… E quando per le strade – avanti / che sia sera – m’aggiro / ancora voglio / essere una finestra che cammina, / aperta, col suo lembo / di azzurro che la colma».

Ariele D’Ambrosio  Napoli agosto 2022