L.L. COME LINGUA LATINA
di Mirella Saulini
Molto tempo fa, erano gli anni Settanta ed io ero un’insegnante alle prime armi, convinta di poter cambiare il mondo, o forse soltanto infatuata dell’idea di poterlo fare, un giovane studente, il quale era più di me, data anche l’influenza dell’età, convinto, o infatuato, dopo una mia spiegazione, mi domandò: “Ma a che cosa serve studiare Petrarca?”. Insegnavo in una classe terza del liceo scientifico di un paese non molto distante da Roma, lo studente era ‘bravo’, riflessivo al punto da arrivare all’elucubrazione, portato al confronto tanto che, grazie a un suo suggerimento, lessi per la prima volta Lo straniero di Camus. La mia risposta di allora non fu, come si suol dire, tutta farina del mio sacco; ripresi infatti una frase che, tra il serio e il faceto, usava dirci il prof. Antonio Cretoni allorché si accingeva a spiegare, da par suo (questo glielo devo), un canto di Dante: “Almeno non andrete girando per il mondo senza sapere neppure chi ha scritto la Divina Commedia”. Petrarca! Pilastro della letteratura italiana, umanista, conoscitore della lingua latina al punto che oggi sarebbe definito bilingue, sarà rabbrividito alla domanda dello studente? Forse avrà compreso le sue perplessità, non so quanto abbia apprezzato me che, ignorando il suo amore per le humanae litterae, ma convinta di ciò che dicevo, risposi al ragazzo: “Certamente non ti servirà a fare la rivoluzione, ma almeno non andrai girando per il mondo senza sapere neppure chi ha scritto il Canzoniere”. Lo studente non mosse alcuna obiezione; non so se perché convinto, per rispetto o, ed è l’ipotesi più probabile, soltanto per quieto vivere. I tempi sono cambiati; l’idea di far la rivoluzione appartiene soltanto a pochi nostalgici ed io, dal canto mio, mi sono resa conto che la risposta, appropriata per i tempi, fu comunque parziale. Ma non è tutto da buttar via, dal momento che oggi, rispondendo a quella domanda, inizierei allo stesso modo; parimenti farei rispondendo alla domanda che, spesso da studenti interessati, qualche volta da opinionisti in vena di polemizzare, e simili, viene posta con l’intento di ‘suscitare un dibattito’ e che riguarda il Latino e l’opportunità di studiarlo: “A che cosa serve studiare il Latino?”. Premesso che il Latino non è un’antipatica materia curricolare, bensì una lingua fatta di parole dalle innumerevoli sfumature, di regole dalla logica stringente, di un’evoluzione e di un’influenza arrivate fino a noi, ad uno studente risponderei: “Certamente non servirà a qualcuno che voglia fare la rivoluzione, ma almeno quel qualcuno non andrà girando per il mondo senza essere neppure in grado di decifrare e di capire una delle tante iscrizioni in lingua latina nelle quali potrebbe imbattersi”. Non mi fermerei a questo, pronta a riprendere, al momento opportuno, un discorso che qui sintetizzo. Nel nostro universo linguistico, che appare preda d’una smania inglesizzante, diciamo così, ci s’imbatte in ben altro che in iscrizioni; nei data base, per esempio, e sarebbe bene sapere che data e datum, rispettivamente plurale e singolare, sono parole latine. E che dire d’un problema che tocca tutti, quello dell’inquinamento, in inglese pollution, dal verbo to pollute, a sua volta dal verbo latino polluere, il cui primo significato è insozzare, imbrattare, per cui d’un civis Romanus non si poteva di certo parlare come d’un pollutus! E perché chiamare cohort, i gruppi campione scelti per le statistiche, quando la cohors era una parte dell’esercito di Roma? Il Francese è stato ‘mediatore culturale’ tra le due lingue, d’accordo, ma non stiamo a sottilizzare. Il punto è che al Latino sono debitori non soltanto gl’Italiani. Tornando a noi, la risposta che di solito viene data alla domanda: “A che serve…?”, è che il Latino “aiuta a ragionare”. Non lo contesto di certo, per carità! Faccio però notare che i non ‘antichizzanti’ potrebbero facilmente, e con ragione, obiettare che esistono altri supporti al ragionamento, a noi più vicini, accessibili e quant’altro. Ferma restando comunque la logica stringente delle costruzioni, nonché la sintesi espressiva che oggi, purtroppo, abbiamo dimenticato. Credo d’essermi spiegata a sufficienza, dunque vengo al punto che mi coinvolge in prima persona: la resa in Italiano (traduzione!) dei testi latini. Tutti, insegnanti e non, sappiamo che esistono persone, studiosi o appassionati che siano, in grado di esprimersi correttamente in lingua latina. Allo stesso modo siamo consapevoli del fatto che il Latino non si può insegnare nelle scuole come se fosse una lingua in uso: penso che proporre di farlo sia fuori della realtà, forse ipocritamente ideologico. Non solo, ma come spesso accade nel caso di posizioni e/o proposte estreme, anche questa aggira l’ostacolo senza neppure affrontarlo. Di certo il mio punto di vista è parziale, essendo io una traduttrice e per di più non di opere del Latino classico, bensì di tragedie gesuitiche latine cinque-secentesche, dunque di testi del cosiddetto Neolatino (ai quali, è triste per noi eredi constatarlo, molti studiosi europei dedicano un’attenzione maggiore della nostra). Con il Neolatino non siamo certamente di fronte a una lingua altra da quella classica, ma soltanto a una fase di quella evoluzione che tutte le lingue subiscono nel tempo. Devo dire che i cambiamenti, non moltissimi in verità, sono soprattutto lessicali. Le costruzioni conservano il proprio rigore; ma forse questo dipende soltanto dalla grande cultura dei tragediografi. Il lessico, i sinonimi che in realtà non sono tali perché hanno sfumature di significato che li diversificano; da qui la necessità della scelta d’un termine, sulla base d’una preferenza non arbitraria bensì motivata, razionale, frutto d’una ricerca che può essere molto lunga e, perché no, anche snervante. Per una parola? Sì, per una parola. Riferendomi agli studenti, e non a studiosi, ad appassionati e simili, credo che sarebbe il caso di riuscire a trasmettere questo ai ragazzi che frequentano le nostre scuole: quando si è di fronte a un testo latino, è necessario leggerlo con attenzione più di una volta con l’intonazione e le pause giuste, capirlo, farlo proprio al punto di sapersi muovere con disinvoltura anche nella selva dei congiuntivi. Al momento di renderlo in Italiano bisogna dare di esso una versione che non tradisca il significato originario, ma che sia al contempo bella, vale a dire piacevole da leggere e comprensibile. Chissà che il farlo non aiuti tutti noi, studenti e non, spingendoci, anche nel parlare e nello scrivere quotidiano, dove i tradimenti, chiamiamoli così, della lingua italiana si contano a non finire, ad essere più attenti e dunque ad esprimerci meglio!? Potremmo essere invogliati, per esempio, a scegliere sempre termini ed espressioni appropriati, a recuperare quel congiuntivo che sembra ormai soltanto un ricordo, a non sbagliare la posizione degli accenti commettendo errori che talvolta addirittura ci ridicolizzano. In tal modo, con una sorta di ribaltamento dei ruoli, il Latino insegnato si trasformerebbe in insegnante; non sarebbe questa un’ottima ‘attualizzazione’ della nostra lingua madre?