E SE POI I MORTI SCHIACCIASSERO I VIVI?
di Gerardo Sangermano
Forse, è stato scritto, «un istinto ci dice che dimenticare è una necessità … per le società che vogliono vivere … [per] non lasciarsi schiacciare … dal cumulo inumano di fatti ereditati, dall’irresistibile pressione dei morti che schiaccerebbero i vivi ». Quindi dovremmo ritenere ancora valido il dimenticato ed invece inquietante interrogativo posto, a metà degli anni settanta del secolo scorso, da un altro storico francese, Du passé faisons table rase?. Interrogativo che io mi permetto di trasporre nel nostro “scordiamoci il passato”; del resto, è noto, così chiedeva – e magari ancora chiede – un antico detto napoletano, testimonianza di un modo di affrontare la vita all’apparenza alquanto disinvolto e rassegnato, però amaro e dolente, certo sentito, se ne è ricordo anche in qualche melodia partenopea di buon pregio, dove in più si consegnava all’oblio, con struggente sofferta equità, “chi ha avuto” e “chi ha dato” e quindi, di necessità, ci si appagava e ci si appaga, forse tuttora, in “quello che è stato, è stato”.
E allora? Cancelliamo la storia? Difficile, direte Voi? No, anzi, forse già fatto!
Infatti si scopre oggi, se non già ieri, che non era solo una canzonetta; l’animo popolare e l’autore della stessa ignoravano di aver anticipato, di quasi un secolo, il più recente abbandonarsi all’incultura della società civile e dell’attuale classe politica.
Ma, il colpevole?
Un Collega ed amico – il quale non a caso ama definirsi “un chierico traditore della corporazione” – non ha avuto timore neppure di chiamare in causa «una corresponsabilità primaria di noialtri storici e insegnanti di storia», perché «evidentemente non abbiamo fatto bene il nostro lavoro, non abbiamo ottemperato al nostro dovere che consisteva nel far capire sempre più e sempre meglio come senza memoria storica le società, e in particolare la nostra società occidentale, siano candidate alla distruzione». Mentre qualcun altro ha lamentato che «di disamore per la storia i nostri ragazzi si nutrono con l’aria stessa che respirano». Insomma questa «appare oggi una sorta di competenza secondaria, connessa all’erudizione e allo studio di eventi passati e dunque sostanzialmente inutili». Del resto stiamo vivendo un’età dove – e non sono parole di uno storico! – «non c’è più il tempo per saper le cose, c’è solo il tempo per fingere di sapere le cose».
Eppure basterebbe pensare che il termine “storia” è per così dire onnipresente e non limitato a qualificare soltanto quella cosiddetta istituzionale (politica, religiosa, economica che sia), se entra assai spesso, quale componente essenziale, nella definizione di tante discipline: storia della letteratura, dell’arte, dell’architettura, della scienza, del diritto, del clima, dell’alimentazione, delle tradizioni popolari, del teatro e dello spettacolo e via enumerando.
Ma poi, già nell’etimo greco della parola non vi è forse ed al primo posto il concetto di “racconto/raccontare”? Ed allora tutto è storia o possibilità di fare storia: il racconto di una giornata di lavoro fatto al ritorno a casa, quello di uno spettacolo visto, di una serata tra amici, di un libro letto, di un pomeriggio allo stadio, di una passeggiata, di un incontro di amore e di passione e, naturalmente, guarda il caso, quello di una mattinata in classe ad ascoltare la storia e tante storie.
Né, in questa prospettiva, dimentico il teatro e non solo per tener conto della sede che ospita questa noterella. Proprio la scarsa conoscenza del teatro medievale ci dovrebbe infatti stimolare ad occuparci del teatro, della sua storia e del suo destino. È infatti nella seconda metà del millennio medievale che nei sermoni di tanti predicatori (e non solo) il teatro, insieme al gioco e alla taverna, diventa l’emblema delle tentazioni mondane; ma il termine theatrum, in questo Medioevo che già muta, non va identificato con l’edificio teatrale, esso invece comincia ad essere impiegato, sempre più spesso, in senso metaforico, proprio perché il teatro come istituzione non esiste più e, almeno da artisti e letterati, si continua soltanto a rievocare l’immagine di quello antico.
E il “Medioevo-pretesto” di Dario Fo? Il grande teatrante aveva ragione, “la storia serve”.
Non a caso, è stato notato, «la straordinaria forza didattica del suo teatro politico» ha fatto o farà sì che, di tutto il suo vasto pubblico «almeno una parte ne ricaverà una visione meno trionfalistica e falsa della storia, più vicina alla realtà, e sentirà il desiderio di informarsi meglio, di leggere, di accostarsi con un più vivo interesse alla storia tout court» e sarà, di conseguenza, «spinto a guardare con occhi spregiudicati al suo passato, a conoscere “da dove veniamo”, per decidere “dove andare”».
E la famiglia? Come è stato scritto essa «per lunghissima fase è stata addirittura la cellula da cui si generava la necessità della ricostruzione storica», in quanto «i nuclei familiari, dotati di un cognome e di un patrimonio da trasmettere ai discendenti, per secoli hanno fondato il loro potere ed il loro prestigio sulla conservazione e trasmissione della memoria storica». Ma non solo; questo ruolo è stato «rilevante anche quando sono apparsi sulla scena politica e sociale quei nuclei familiari che non avevano né ricchezze né blasone da tramettere … ma avevano attraversato lo svolgersi dei secoli come numeri anonimi, buoni solo per offrire agli storici venturi cifre per la statistica».
Insomma: «la storia non serve soltanto a divenire un po’ più colti, quindi un po’ meno ignoranti. La storia … serve a farci sentire e ad essere in realtà più liberi. … In questo senso la storia è una disciplina evidentemente politica che serve alla convivenza civile». Per fare appena un solo esempio, che però assai tocca le Regioni del nostro Sud e da secoli, un Amico e Maestro – il quale, pur con trasognato scetticismo, amava ripetere che “la storia non insegna, non ha mai insegnato niente a nessuno” – ci avrebbe invece ripetuto e chiarito, nelle attuali congiunture, le vere origini storiche della cosiddetta “questione meridionale” e le vere ragioni della (per Lui) plurisecolare arretratezza delle Regioni del nostro Mezzogiorno e dell’infelicità delle sue genti, tanto più ora mentre riprendono vigore – quasi a fare pendant alla mai del tutto sopita albagia socio-economica dell’altra Italia – le rivendicazioni neoborboniche, “pseudo cultura storiografica ridicola”, fatte circolare, appunto, dalla diffusa non conoscenza della storia, sostituita dalle accattivanti incolte bufale del web.
“Parole, parole, parole, soltanto parole” cantava la grande Mina; soltanto parole anche queste di un vecchio studioso (ma, certo, anche di altri, più o meno vecchi), perché di questi tempi il sapere, qualsiasi sapere è sospetto, in quanto indizio sicuro di inganno, secondo il pensiero, oggi à l’honneur, di tanti nostri Connazionali e di gran parte della compagine politica alla guida del paese pro tempore. Storico vecchio, ma non del passato, tuttavia, io continuo il mio viaggio, ormai sghembo, attraverso le testimonianze del passato con gli strumenti di sempre, antichi e ad un tempo rinnovati e, come il poeta, «non, rien de rien, non, je ne regrette rien».
Ma se si è deciso, per secondare il pensiero dominante – del quale, peraltro non poche volte si è partecipi e convinti, fosse anche per non apparire ‘del passato’ – che storia e storici vadano pure alla malora, forse, resta soltanto, magari per consolarci, il vero, semplice significato della conoscenza storica – proposto però or sono ottant’anni – la quale è in fondo «come la conoscenza di un’altra persona, come quella di sé, un caso particolare della conoscenza umana … conoscenza dell’uomo. Incontro dell’altro. La storia è amicizia: sì, è tutto qui».
Purtroppo neppure l’amicizia oggi ha bisogno della storia, ma è veicolata, insieme ai saperi, da sua maestà il web, in tutte le sue diverse espressioni social (Facebook, Flickr, Google Plus, Instagram, Linkedin e via enumerando), dove non c’è più spazio per la memoria, soprattutto quella di vecchi ed anziani, perché «nelle società evolute il mutamento sempre più rapido ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio diventa sempre più colui che non sa rispetto ai giovani che sanno …».
E sarà senz’altro così, se nella ricerca storica e quindi nella sua fruizione ultima si è di recente aggiunta, è stato scritto «una straordinaria fioritura di nuove fonti strettamente connesse al “secolo breve”, fonti che, in sostanza, appartengono tutte alla sfera dei media, in particolare di quelli audiovisivi … ma si pensi anche alla musica, alla canzone, che proprio nel Novecento diventa un vero e proprio mezzo di comunicazione di massa, grazie alle possibilità offerte da altri mezzi (la radio e i dischi) che ne dilatano enormemente il pubblico» .
E non è tutto. Aggiungiamo pure che «oggi risulta difficile per chiunque valutare l’età di una persona». Infatti la cura del corpo, l’abbigliamento giovanile, il linguaggio, gli stessi atteggiamenti rendono ormai simili giovani e anziani, genitori e figli ed anche professori e studenti. Allora «ad un certo punto l’età non conta più ed è quasi impossibile indovinarla».
È fatta; allora, fatalmente, «la storia non serve più. Perché mai dovremmo attardarci a studiare il passato, se la vita umana non ha più età?».
Gerardo Sangermano