di Ariele D’Ambrosio
Soli, solitari assoli
Rimettendo in ordine la libreria mi ritrovo tra le mani un libro di poesie. La copertina marrone ha assunto varie gradazioni nel tempo e in forme geometriche di rettangoli irregolari. Il titolo è Non ho tempo e serve tempo, l’autore è Antonio Neiwiller. Il ponte è presto fatto con l’ottimo intervento di Antonio Grieco che lega questo splendido artista all’isola di Procida, in questi tempi capitale della cultura, la cultura che appunto Newiller ha voluto donare a questa splendida isola col suo corpo accolto e sepolto nella sua terra.
“È stato un poeta della scena: un artista di frontiera” ci dice Grieco e dice bene di questo importante drammaturgo e sperimentatore sempre avanti nel tempo; ma ho piacere di definirlo poeta non solo nell’aggettivazione del suo fare teatrale, ma anche nella sua scrittura specifica di poeta.
Era in ospedale da me, non stava bene, e mi apparve mite e lieve, non per paura, ma per intensità. Volle regalarmi questo suo libro, edito da L’Alfabeto Urbano, ed ora lo risfoglio, lo rileggo e subito un nuovo ritrovamento, un foglio che non appartiene al volume, con una sua poesia intitolata Soli, solitari assoli. La copio per intero, sembra scritta anche per i tempi in cui siamo: Otto volte ho chiuso gli occhi / otto volte li ho aperti / intanto la matita scorreva / a volte felice / a volte pensosa / ogni apertura / mi offriva un ordine diverso / e subito dopo l’immediato disordine / un segno me ne suggeriva un altro / dei graffi / un colore / niente mi affascina di più / che la tensione che si crea / tra equilibrio e squilibrio / tra ordine e disordine / molte volte mi basta solo il segno / altre volte il colore ci vuole / io vorrei dipingere, suonare e recitare / contemporaneamente / tutti i tempi musicali / mi suggeriscono una composizione / non lo so se si può vivere / dipingendo tanghi / ma l’istinto che mi lega alla musica / è lo stesso che mi unisce alla pittura e al teatro / la teoria è tutta in questo rapporto / io vorrei espandermi / e un bel giorno sparire / ma tutto a suo tempo / tanto gli ultimi saranno i primi / e i primi gli ultimi / i medi resteranno i medi / e un virus è un virus
Tralascio per ora il libro con altre poesie significative per riflettere su questo testo che ha trovato un equilibrio raro tra emozione e riflessione, con la capacità di raccontare con lucidità la storia interiore dell’essere artista. Ma chi non lo è può ritrovarsi ugualmente, e non solo in questo tempo pandemico, può ritrovarsi in questi versi per tutta la irrequietezza del disordine, l’inquietudine della difficoltà, e nello stesso tempo per tutto il desiderio di unire le cose, il mondo col mondo, le varie espressioni della vita, ritrovandosi così nel senso della creatività, dell’armonia che costruisce l’amore per gli altri. Può ritrovarsi ugualmente per la melanconia romantica dell’espansione e della sparizione, per l’amarezza consapevole della mediocrità dei “medi”, per la profezia finale dell’ineluttabilità della natura: «… e un virus è un virus» che non potrà che restare tale col suo istinto di sopravvivere e nulla più.
«… non lo so se si può vivere / dipingendo tanghi …» è qui l’espansione e il desiderio del corpo che unisce nella sua grande sinestesia lo sguardo col suono, il suono col tatto, nell’unico momento che vede insieme nel luogo del teatro la musica, la pittura, la parola, in un dinamismo che abbraccia e non isola, che cerca e riprende un desiderio che mai si spegne, che rinasce ogni volta.
Il foglio con questa poesia lo rimetterò nel libro, sta bene con i frammenti di segni che lo interfacciano. Segni di bambini, dipinti in dei rettangoli crema di fogli che si spiegano all’infuori. Sono di una tenerezza profonda, segni a volte più grandi, a volte più piccoli in un angolo, per poi scoprirli tutti insieme in un meraviglioso quadro di Paul Klee intitolato Piazza dei giochi infantili del 1935.
Questo sguardo precede l’ultima sezione del libro, memoria del lavoro, che contiene poesie dei suoi amici artisti e compagni di strada: Fruit tree del 1970 tradotta da Lello Becchimanzi, e poi una poesia di Maurizio Bizzi, una di Salvatore Cantalupo, di Dante Manchisi, di Marco Manchisi, di Loredana Putignani, di Giancarlo Savino. Ecco, questo libro si conclude includendo e sottolineando il rispetto per il lavoro di un gruppo di persone, il rispetto che da a questa parola entro cui si condensano l’emozione, la sensibilità creativa di un artista con l’impegno professionale di ricercare senza sosta e che fa di quella sensibilità, di quell’emozione per la vita, per l’appunto un lavoro.
La prima parte è intitolata da Paul Klee. Sono poesie brevi, molto incisive, quasi pensieri che si ribaltano scoprendo nuove angolazioni e possibilità: «A me solo la notte / può dare refrigerio / lì volo come una lucciola / e so subito cos’è / una piccola luce nell’oscurità»; «i miei volti umani / sono più veri / di quelli reali»; «un nudo / non può essere dipinto / secondo l’anatomia umana / ma con quella del quadro / anche lui / ha uno scheletro / muscoli / pelle»; «La linea / deve essere / un elemento figurativo indipendente»; «Disegni a penna / su carta spruzzata con acqua / applicando macchie / ora interne / ora esterne / a questa linea dai contorni ingenui»
Certo da Paul Klee derivano poesie per descrivere la ricerca di un drammaturgo che si fa pittore, ma io resto catturato soprattutto dalle parole, dalle frasi che ribaltano l’oscurità in lucciola; che distinguono l’umano dal reale; che danno vita a ciò che contiene: il quadro che è anch’esso forma e contenuto di un contenuto, come un verso in rima o un novenario dattilico; che danno ad una linea la figura; che danno alla linea contorni ingenui recuperando consapevolmente la spontanea ingenuità dell’infanzia.
La seconda parte è intitolata Non ho tempo e serve tempo. Versi che sembrano frasi incise, di una brevità assoluta tanto da farmi pensare agli haiku giapponesi pur non essendo canonici in quella forma di versificazione. Ma il loro essere netti, aeriformi, limpidi “costringe” chi legge ad approfondire il pensiero in uno spazio metariflessivo che stupisce ed incanta. Qui anche titoli, ma imprescindibili dai versetti successivi: «Il tempo veloce // un attimo di tempo / per sentire un altro tempo»; «Il tempo lento // il tempo in cui senti tutto il tempo»; «Il tempo che ti appartiene // il tempo in cui trovi il tuo tempo»; «Il tempo che non ti appartiene // un tempo contrario / che è anche il tuo tempo»; «Il ritmo del tempo // il tempo / a cui hai dato un tempo»; «Il tempo passato // il tempo a cui pensi all’altro tempo / che è in te»; «Il tempo che verrà // l’altro tempo in cui pensi di esserci»; «Il tempo del corpo // il tempo che scorre dentro di te / il corpo del tempo». Ed ancora altri tempi che ti agganciano al silenzio di una meditazione e che si fa corpo come «… il corpo del tempo» che si misura sempre con la vita dell’uomo, dell’essere su questa terra strana e ricca o piena di paradossi e di contraddizioni.
Concludo col desiderio di ricordare un grande artista non solo poetico nella sua drammaturgia, ma poeta di poesia con tutto il rischio che questa parola porta con se. Il rischio di affacciarsi al parapetto della parola con la possibilità di guardare più lontano ed il pericolo di precipitare. Antonio Newiller non è precipitato, ha guardato e guarda ancora lontano anche per noi.
Ariele D’Ambrosio
Napoli maggio 2021