Guida Galattica per i Lettori | Giugno

AMICO ROMANZO

Dalle parole di Giovanni Pozzi: “Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace”.
A cura di Federica Caiazzo e Carmen Lucia

Carl, la morte e la restituzione

Naja Marie Aidt, Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo. Il libro di Carl, Milano, Utopia Editore*, 2021

a cura di Federica CAIAZZO

Il titolo del romanzo è programmatico, è una vera e propria dichiarazione d’intenti e racchiude tre parole-chiave della storia: la morte, Carl e la restituzione. Naja Marie Aidt, autrice di poesie, racconti, romanzi e scrittrice danese ben nota al panorama della letteratura scandinava, racconta la struggente esperienza della perdita del figlio Carl; o piuttosto prova a raccontarla, perché un tale dolore non ha voce, si esprime attraverso silenzi e frasi spezzate, è illogico, disgregante, esplosivo.
Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo. Il libro di Carl è un racconto frammentario, nebuloso, incoerente, anacolutico, profondamente autentico e vibrante, che conduce il lettore negli oscuri sentieri della sofferenza del cuore umano.
Da un lato c’è la ricostruzione del tragico evento, una ricostruzione che procede a singhiozzi, si interrompe, viene ripresa e approfondita, ritorna silente, fino a quando non subentrano la forza e la chiarezza di raccontare. Dall’altro lato c’è il lutto che inesorabile mette una sordina sul cuore, come un velo che cala tra sé e il mondo e trascina alla deriva: «Alla luce la paura si diffonde intorno a noi come olio sull’acqua. E andiamo alla deriva. Siamo tronchi alla deriva, bastoni, frammenti d’ossa. Non siamo più noi. Non riusciamo a contenere noi stessi». Al centro c’è la scrittura che rifiuta le tradizionali forme canoniche, occupa i margini della pagina, è fatta di sogni e ricordi, annotazioni alla rinfusa, lemmi e definizioni dal vocabolario, che tentano di dare ordine ai fatti e ai pensieri e di trasformare la sofferenza in segni grafici dotati di senso: «Non è possibile scrivere in modo artistico del dolore. Non esiste forma adeguata. Scrivere del nulla reale, assenza di vita. Come? Scrivere dell’ignoto, muto, che tutti noi incontreremo, come? Se si vuole evitare il sentimentale, il dolore blocca le frasi a metà. Le parole sostano inadeguate e meschine sulle righe, le righe si arrestano da sole improvvisamente. La lingua, che sempre mi ha accompagnata ed è stata la mia vita, non può nulla». Per questo l’autrice cerca, nelle pagine della letteratura, quella lingua e quelle parole che da sola non riesce a trovare, ad esempio nei versi di Catullo dedicati al fratello scomparso, nelle riflessioni di Cicerone, Mallarmé, Whitman e Roubaud, che parlano di perdita e di vuoto e della medesima difficoltà del dire.
Eppure, a poco a poco, la lingua, all’inizio informe e impotente, restituisce al lettore la storia di Naja Marie e di suo figlio e ricompone i frammenti della vicenda sparsi tra le pagine del diario: apprendiamo così i dettagli della morte di Carl, precipitato dal balcone di casa all’età di venticinque anni sotto effetto di funghi allucinogeni, apprendiamo alcuni dettagli della vita dell’autrice, della separazione dal padre di Carl, della nuova famiglia a New York, della rete di affetti che si stringono intorno a lei e la sostengono nella disperazione più profonda. 
C’è una precisa identità tra la forma della scrittura e la storia, tra la frammentarietà della narrazione e la disgregazione dell’animo umano. La pagina si fa sofferenza, attraverso una grafica discontinua e disordinata che alterna stili e caratteri diversi, rappresenta il tempo immobile del lutto, l’angoscia dilagante, il dolore insopportabile, l’ubriaca follia, l’impossibilità di spiegare l’evento più tragico e innaturale che possa capitare a una madre: vedere il figlio che si è dato alla luce, privo di luce, privo di vita.   
Il lettore naufraga in questo mare di parole e di dolore; forte è la tentazione di chiudere il libro per non essere travolto dal flusso di pensieri e di angoscia, ma compassione, umano afflato e fiducia nel potere maieutico e catartico della scrittura lo spingono ad andare avanti e a sperare che «l’amore alla base del sentimento del lutto sia più grande del lutto stesso. Che l’amore crei amore e compassione».

*Utopia è una giovane casa editrice, fondata nel gennaio 2020, che accoglie nel suo catalogo libri di narrativa e saggistica contemporanee, europee e straniere, ben curati nella grafica e nella traduzione.



SIPARI APERTI

Il sipario aperto è un abbraccio simbolico e visivo che accoglie lo spettatore nella meravigliosa realtà irreale del teatro. Apriamo il sipario anche alla scrittura teatrale, sia drammaturgica che letteraria o saggistica, per godere profondamente di questo magico viaggio.
A cura di Emanuela Ferrauto

CHILLE DE LA BALANZA: da Napoli alla Toscana. Il teatro e la legge Basaglia

M. Brighenti, P.L. Clemente, F. Corleone, A. D’Arco, P. Dell’Acqua, C. Orefice, Famiglia Pellicanò, prefazione di G. Baffi, Pazzi di libertà. Il teatro dei Chille a 40 anni dalla legge Basaglia, Ospedaletto-Pisa, Pacini Editore, 2018.
M. Brighenti, C. Ascoli, prefazione di M. Marino, conclusioni di F. Corleone, Napule ’70. Chille de la Balanza, Ospedaletto-Pisa, Pacini Editore, 2020

a cura di Emanuela FERRAUTO

Questo mese ci dedichiamo alla lettura di due volumi, entrambi inviati dalla compagnia Chille de la Balanza, attraverso la mediazione del critico teatrale Matteo Brighenti, conosciuto in occasione di vari Festival teatrali italiani e attraverso gli incontri e gli eventi organizzati da Rete Critica.I due volumi, editi entrambi da Pacini Editore, sono stati pubblicati rispettivamente nel 2018 il primo, dal titolo Pazzi di libertà. Il teatro dei Chille a 40 anni dalla legge Basaglia, e nel 2020 il secondo, dal titolo Napule ’70. Chille de la Balanza. Attraverso la lettura di questi volumi emerge la volontà di uno studio approfondito e prolungato nel tempo, soprattutto necessario se consideriamo che gli unici studi sulla compagnia napoletana sono firmati da Costanza Lanzara (C. Lanzara, Teatro comunque. L’universo creativo dei Chille de la balanza da Napoli al “mondo” di San Salvi, Firenze, Morgana Edizioni, 2007) e dalla giovane critica e studiosa napoletana Antonella D’Arco che ha dedicato la sua tesi di laurea alla compagnia napoletana, autrice del saggio dal titolo In viaggio verso un’utopia possibile: il palcoscenico di San Salvi, inserito all’interno del primo dei due volumi di cui parliamo.
Questi volumi raccontano la storia della compagnia, descrivendo e analizzando gli allestimenti di spettacoli complessi e fortemente legati alla presenza e alla stimolazione della reazione del pubblico. Ancora una volta emerge una tendenza molto frequente, cioè la ricerca di testimonianze di artisti e di autori in vita, attraverso interviste, confronti, memorie cartacee e visive.
La struttura di ogni volume riporta al centro una cospicua collezione di fotografie, anche a colori, che funge da “spartiacque”.
Nel primo volume, in particolare, la sezione fotografica si apre con una foto che riproduce la coppia Claudio Ascoli – Sissi Abbondanza scattata nel 2008 e si chiude con la stessa foto scattata nel 2015. Nel secondo volume, dedicato esclusivamente all’analisi di Napule ’70, la sezione fotografica riporta foto di scena (fotografie di Paolo Lauri, Ivan Margheri, Salvatore Pastore, Renato Esposito), con didascalie, ossia una parte del copione o alcune battute che vengono riportate alla base di ogni foto perché pronunciate nel momento scenico immortalato dal fotografo. Questa sezione contiene anche i disegni di Enrico Pantani, i cartelli di Agnese Di Scala e addirittura un q-code che è possibile inquadrare per visualizzare il video dello spettacolo.
Il primo volume potrebbe essere letto partendo dalla conclusione, poiché gli interventi raccolti conducono per mano lo spettatore al cuore dell’attività della compagnia napoletana, la cui storia è introdotta nella prefazione firmata dal critico teatrale Giulio Baffi, Presidente dell’ANCT Associazione Nazionale Critici Teatro.
Ben sette capitoletti, insieme alla sezione fotografica e alla prefazione, caratterizzano il volume Pazzi di libertà. Il teatro dei Chille a 40 anni dalla legge Basaglia, il cui titolo spiega il motivo della pubblicazione, in occasione dei 40 anni dall’entrata in vigore della legge Basaglia. Parliamo, dunque, di una compagnia che parte dal centro storico di Napoli, vive il terremoto dell’Ottanta e si ritrova in Toscana. Un’esperienza che inizia nel 1973, come racconta Baffi, e che vedrà Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza protagonisti di una storia straordinaria e di un genere teatrale complesso, articolato e in continua ricerca ed evoluzione.
La compagnia risiede a San Salvi dal 1997, quando l’ex Direttore del Manicomio, Carmelo Pellicanò chiuse l’OPG secondo la legge, dopo aver seguito per anni gli studi di Basaglia e le sue proposte; Pellicanò, calabrese trasferito in Toscana, intuì la forza del progetto di apertura di luoghi simbolo affinché la popolazione potesse usufruirne attraverso l’arte e il teatro.  “Teatro città aperta”, ricorda appunto Matteo Brighenti, autore e curatore del volume, e racconta attraverso un lungo capitolo la storia della compagnia, analizzando da un punto di vista visivo e dell’allestimento tutti gli spettacoli dei Chille de la Balanza. La scelta stilistica del primo e più esteso capitolo è evidente: l’autore lascia la parola ad Ascoli, riportando numerosi estratti di interviste e memorie, affidando alla propria scrittura solo piccole frasi che possano collegare i racconti dell’attore e regista.
Antonella D’arco, all’interno del saggio già citato, sebbene riveli di non aver mai visto dal vivo gli spettacoli della compagnia, recupera la sua approfondita ricerca e si sofferma su un elegante excursus critico che attraversa tutte le più importanti produzioni. In particolare, l’autrice si sofferma su Il viaggio. Artaud-Van Gogh. La follia, approfondendo anche il linguaggio glossolalico che gli artisti recuperano attraverso lo studio delle espressioni utilizzate dai pazienti internati, con espliciti riferimenti all’esperienza di Artaud, quest’ultimo elemento guida, oltre a Van Gogh, della ricerca dei Chille. D’Arco analizza anche lo spettacolo Casa di bambola, oltre ad accenni alla Trilogia della vita, progetto ben descritto da Brighenti nel capitolo più lungo del volume, attraverso le testimonianze dello stesso Ascoli.
La seconda parte del primo volume è affidata ad interventi più brevi, ma imprescindibili. Si potrebbe proporre una lettura diversa e differenziata, invitando i lettori esperti ad una lettura secondo ordine consueto, mentre i lettori che si avvicinano per la prima volta allo studio della compagnia ad una lettura che abbia inizio dalla seconda parte del volume, procedendo poi a ritroso.
Troviamo, infatti, contributi dell’antropologo Pietro Clementi che si sofferma sull’analisi della Passeggiata notturna di San Salvi, percorso di quasi due ore che Ascoli affronta come momento dello spettacolo e che coinvolge gli spettatori che osservano i luoghi dell’ex manicomio, raccontati al pubblico dall’attore, al buio della notte illuminata dalle torce. Clementi descrive questa compagnia attraverso un’immagine indicativa, cioè come «un varco aperto nella porta»; inserire un piede o un ostacolo per evitare che una porta si chiuda è la metafora che descrive l’operazione della compagnia dei Chille affinché non sia cancellata la memoria sulle sofferenze inferte agli internati dei manicomi, degli ospedali psichiatrici e delle carceri. Il lavoro dei Chille, quindi, sostiene l’approccio rivoluzionario, etico e di metodo, sostenuto da Basaglia.
Clementi riporta anche il significato del nome della compagnia, rivelato dallo stesso Ascoli nell’intervista di Brighenti inserita nel secondo volume: “Quelli della Bilancia”. Il nome fa riferimento al luogo napoletano in cui la compagnia diede inizio al suo percorso, il centro storico quindi, pieno di venditori che utilizzavano la stadera. Clementi sottolinea che la bilancia è anche simbolo della giustizia e dell’equità, obiettivi perseguiti anche da Basaglia, sebbene Ascoli affermi, all’interno dell’intervista riportata nel secondo volume, che «non devi trovare l’equilibrio, devi trovare un disequilibrio che ti orienti all’equilibrio, ma non ci arrivi mai fino in fondo». Il contributo di Clementi è ricchissimo di informazioni, legate non solo all’ambiente artistico, ma anche al contesto politico e culturale che ha circondato da sempre San Salvi e i Chille, pertanto approccio fondamentale per chi si avvicina per la prima volta alla conoscenza di questa compagnia.
Franco Corleone, deputato, senatore e Sottosegretario alla Giustizia, contribuisce a fornire informazioni che toccano, attraverso un taglio diverso, notizie di ambito politico e giuridico, apparentemente lontane dall’approccio critico artistico, ma importanti per comprendere le difficoltà dell’attuazione di questa legge.
Sembrano allontanarsi dal discorso teatrale anche i contributi conclusivi firmati da Peppe Dell’Acqua, psichiatra salernitano che nel 1971 iniziò a lavorare con Basaglia e che oggi ne racconta la modernità e il coraggio, e di Carlo Orefice, professore associato di Pedagogia Generale e Sociale presso l’Università di Siena, che offre il suo punto di vista sulla Legge, sulle condizioni degli ex manicomi e sul rapporto tra la compagnia e il pubblico.
Chiude il primo volume l’intervento della Famiglia Pellicanò, riportando, in particolare, le memorie della moglie del Direttore di San Salvi, testimoniando l’attenzione di Pellicanò nei confronti dell’operato della compagnia dei Chille.
Entrambi i volumi si concludono con delle piccole biografie utili per comprendere il percorso degli autori dei contributi e quindi le interferenze di vari ambiti.
Se il primo volume riporta in copertina tutti i cognomi degli autori dei contributi, il secondo volume presenta una premessa firmata da Massimo Marino e due autori predominanti: Matteo Brighenti e lo stesso Claudio Ascoli. In effetti questo volume contiene i prodotti di una lunga conversazione tra i due, che a volte si colora anche di toni confidenziali. Ascoli fa il punto della situazione, ricorda e, quindi, permette che la memoria si fissi e non venga perduta.
Nella premessa Massimo Marino ripercorre brevemente la storia dei Chille, affermando correttamente che il primo volume affronta approfonditamente tutto il percorso evolutivo della compagnia, e si sofferma su quegli anni Settanta, in Italia e soprattutto a Napoli, che caratterizzano il titolo di questo spettacolo e sugli elementi che hanno fortemente influenzato la compagnia prima della partenza dalla Campania. Se il primo volume approfondisce San Salvi e tutto il percorso fino al 2020, il secondo volume torna indietro, alle origini napoletane della compagnia. Lo stesso Franco Corleone, che conclude il volume, ci fornisce delle indicazioni ben precise: gli episodi importanti che hanno caratterizzato gli anni Settanta a Napoli, e quindi anche la compagnia Ascoli, furono la Festa nazionale de «L’Unità», Berlinguer e il suo discorso, il colera e poi il terremoto nel 1980. Ascoli e Brighenti parlano di “esilio volontario”, fanno riferimento a Eduardo De Filippo, alla Ortese e a tutti coloro che hanno invogliato gli artisti all’allontanamento da Napoli.
Se la prima parte del secondo volume è caratterizzata dall’approfondimento di Brighenti sullo spettacolo, capitolo impreziosito anche dalle partiture musicali, la seconda parte, dopo la sezione fotografica, è caratterizzata da una lunga intervista/conversazione con Ascoli, che inevitabilmente arriva alle sue considerazioni sul terribile periodo della pandemia, per poi proseguire e concludersi con un lungo capitolo dedicato alla storia della famiglia Ascoli, famiglia d’arte appunto, il cui racconto, ancora una volta, è affidato alle memorie dello stesso Claudio.



COME SUGHERI SULL’ACQUA

Da un verso della poesia Sera, in spagnolo Tarde, di Federico García Lorca. Sugheri sull’acqua le poesie ed i poeti che desidero presentare, distinti e visibili, sottratti alle tante cose amare che la risacca fa approdare sulle spiagge del mondo.
A cura di Ariele D’Ambrosio

Nella membrana elastica del vento

Monia Gaita
 
Non ho mai finto
poesie  
 
La Vita Felice 2021
pagine 80
Euro 12,00
 
per info:  https://www.lavitafelice.it/
                  https://www.lavitafelice.it/contattaci.html
info@lavitafelice.it

a cura di Ariele D’AMBROSIO

    Non ho mai creduto alla poesia al femminile, credo soltanto nei bravi poeti senza distinzione di sesso ed è questo il caso di Monia Gaita. Eppure esiste nei poeti donne, e non da ora, una sorta di drammaturgia antica che sottolinea una presa di coscienza, una testimonianza di genere rispetto a ciò che succede nei rapporti di “forza” che causano fughe, dolori, rincorse.    
    Oggi che spesso si digita, non si scrive, oggi che troppo spesso si producono testi isolati da un percorso di rigore e di ricerca, accolgo con molta attenzione e rispetto questo libro compiuto. Il titolo è: Non ho mai finto.
    Una copertina sobria lo avvolge, con un segno di fili sottili che si concentrano da un lato in un possibile squarcio, dall’altro in un volo nel vento mentre le curve ci riconducono all’onda.
    Vado subito all’indice. Tre sezioni per settantatre poesie. Le sezioni s’intitolano: Il ciclo del sentire, Confluenze, A colloquio coi luoghi. M’immagino subito che il sentire confluisca con i luoghi per una ricerca di armonia tra l’interno e l’esterno. E forse dire sezioni è come separare, sarebbe meglio parlare di stadi che percorrono una strada per approdare in un luogo dove ci si possa ritrovare e riflettere sul proprio vissuto.
    Mi soffermo sulla prima poesia: Provo a dimenticarti: una delusione che distanzia, il dolore del distacco ed il tema è frequente nella poesia, ma poi «… Svolto col vento / … sprofondo nelle ossa oziose della stanza … // … Io che ti raspo l’oro dalle labbra, / che mi riparo dalla pioggia con l’ombrello del tuo nome.» E mi accorgo subito di trovarmi di fronte a versi che tralasciano i ghirigori roccocò di una calligrafia che abbellisce nell’inutile, per restare precisa in un profondo d’immagine che riflette sul proprio stare e fa riflettere, meglio fa sentire cosa c’è oltre l’immagine, cosa c’è dentro il patire. L’immagine come metafora forte e che delinea con estrema netta crudezza quel patire. Le ferite riducono le distanze quando le si comprendono nel profondo, pure tra l’autore ed il lettore, ed alla poesia è dato anche questo compito e questa poesia lo assolve in modo certo.
    A volte mi sembra di assistere ad una piccola narrazione: ogni poesia un piccolo quadro, ma subito l’espressionismo prevale così com’è dato all’arte quando incide in questo nostro contemporaneo.
    Restiamo nel Ciclo del sentire per vedere il suono di queste parole che s’organizzano in versi: « è traslocare nella vecchia casa / del perduto, // guardare quella me di prima / che sibila, indelebile, tra i rami // e scruta da uno sbuffo della porta / quel che sono.»; « la borsa, il cielo, la sedia / il brusco fumigante degli spini. …»; «C’è un rumore nel tuo nome / che penzola dai corpi, … Eppure ti consegno quest’anima sbavata, / quest’anima mia incurva, incredula e feroce. …»; « Aspiro l’eco delle briciole, / mi semino dentro il granaio dei volti, / vado a capo. …»; «… E io perduta / e con la bocca ancora da sfamare, cercai una preda salda, un tetto / nel tuo nodo.»
    Le metafore si susseguono in disegni puntuali che lasciano uno spazio di equilibrio tra narrazione ed espressione, ma quello che ancora più mi prende, mentre leggo queste poesie a voce alta, è un ritmo che sembra srotolarsi, quasi una monodia che frena in qualche contrazione costante. Se poi andiamo ad analizzare i testi ci accorgiamo subito che spesso versi che si succedono sono anche isosillabici, con endecasillabi, dodecasillabi regolari ed irregolari e quadrisillabi, quinari, trisillabi, che a volte sono di chiusura alla strofa. E questa brevissima e frettolosa analisi ci fa capire quanto il versificare di Monia Gaita sia un versificare controllato, il controllo consapevole che solo un poeta professionista può adoperare all’interno del suo essere anche artigiano. D’altronde il verso libero di una poesia che si rispetti deriva sempre dalla conoscenza di un’antica metrica assorbita e rielaborata in nuova forma e non l’abbandono della forma stessa che non è libertà del verso ma soltanto mediocre casualità. Non manca una ricerca lessicale con vocaboli di minor uso comune, recuperati al dire ed altri posizionati in modo singolare tra di loro tanto da spiazzare e organizzare nuove angolazioni che costruiscono, come dicevo, una espressività forte e assai materica. Anche le parole ‘cuore’ ed ‘anima’ assai usate, persino abusate nella “poesia d’amore”, qui riescono a scrollarsi di dosso il senso mieloso di una retorica reiterata fino allo sfinimento. Non era cosa facile.
    Confluenze è il nuovo tratto del percorso, dove la narrazione sembra persino crescere nell’esprimere il sentimento del bisogno, la lotta per frenarlo, in una ricerca affannosa tra il momento e il ricordo. Ed allora assistiamo alle sfumature mimiche del pensare l’amore, il desiderio e il tormento che si fa carne nei pellicciai del volto, nei muscoli scheletrici, in quelli lisci e involontari degli organi interni e cavi.
     «… giungere nei paraggi dell’Io / che avrei dovuto essere e non sono. …»; «… Ed è fatica / pettinare tutti i giorni la speranza, …»; «… e vidi la ragione dalle costole incrinate / rotolare. …»; «… a pedinare il buio, / sfiancata alla linea del traguardo.»; «… vestire ogni caduta di coraggio, / accumulare raffiche di forza nella neve. …»; «… io che t’inchiodo al perno mobile del cuore / con la lingua.»; «… Come se fosse facile aprire le portiere / alla fatalità dell’universo / e retrocedere dove la cartilagine del senso / scoppia in fango. …»
     La divisione in ogni componimento vede di frequente strofe tetrastiche e terzetti alternarsi, anche solo due versi in coppia, ma il punto è capirne i respiri che lo spazio bianco ti permette, quel tempo anche piccolo che ti fa introiettare insieme al significato quel significante (parola assai abusata e me ne scuso) che sedimenta e si fa emozione. Ebbene anche in questo ne ravvedo un sapiente controllo da parte del nostro poeta.
    A colloquio coi luoghi, l’ultimo passaggio, e che preferisco per la forza che esprime, è un approdo, il luogo che protegge, in cui almeno cercarsi per continuare. Qui leggo, emozionandomi, il grido di Troppi secoli e di Sono partita, dove il sociale irrompe e mi spinge a ricordare Salvatore Quasimodo e il suo “lamento per il sud”: “un lamento d’amore senza amore” è il verso finale di quella poesia. Qui si avverte invece un lamento d’amore con un grande amore e che non lascia indifferenti per l’abbraccio protettivo che regala alla propria origine, alla propria terra d’Irpinia, malgrado la consapevolezza della sua storia e dei suoi drammi.
    Qui, in questo colloquiare con i propri luoghi nasce una rinnovata forza metafisica che origina dalla terra, dalla propria sostanza. Qui tutti i suoi alberi, foglie, cespugli, piante, insetti, rocce, animali, nuvole, vento. Qui questa poesia, Montefredane, che trascrivo per intero e che non a caso ha il titolo del paese dove Monia Gaita vive: «Anche il tuo corpo è da salvare. / Io sono in grado di comprenderne la lingua / dentro l’erba, / indovinare i segni / nella membrana elastica del vento, // chiudere la bottiglia degli sbagli con un tappo, / raschiare dai rizomi quel che accade. / Una è la terra, una soltanto. / Una la vena degli ulivi a trasportare il sangue. // Uno è l’atrio delle viti, uno il ventricolo dei fiori. // Tanta aderenza alle fratte e al cielo, / la lussazione di chi è andato, / la liquida matrice del contatto / che difendo. // Siamo due pezzi della stessa stoffa: / io ne rigonfio l’astro nella nebbia, / tengo perfettamente il centro, / lapido la paura nel bruno delle foglie. // E sorvegliarti con i cinque sensi le pareti // è riprodurmi nella scia precisa dei noccioli, // sfregare la polvere da sparo del deluso // e seppellirne il morto ancora vivo / nella terra.»
    Non è questo il tempo di gruppi e di ismi, ed è il motivo per cui sorge ancora di più l’urgenza di definire un singolo autore che possa essere riconoscibile in uno stile che ne identifichi lo spessore.
    La poesia di Monia Gaita appartiene ad una poetica eroica, quella dell’amore, assai difficile oggi da perseguire ed argomentare attraverso una forma distinguibile. Qui il valore, ritengo, di questi testi che avvolgono, affascinano, e che personalmente m’inteneriscono per la verità che esprimono. Il poeta è tale se non finge, almeno nello scrivere, e questo titolo, Non ho mai finto, ce lo conferma.