Guida Galattica per i Lettori | Maggio

AMICO ROMANZO

Dalle parole di Giovanni Pozzi: “Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace”.
A cura di Federica Caiazzo e Carmen Lucia

La notte dei due silenzi

La notte dei due silenzi
di Ruggero Cappuccio
Feltrinelli, maggio 2021, pagine 224

a cura di Carmela LUCIA

Nel mese di Maggio è stato ripubblicato in una nuova edizione per la Casa Editrice Feltrinelli La notte dei due silenzi, romanzo d’esordio di Ruggero Cappuccio (edito da Sellerio Editore, Palermo, nel 2007) e finalista al Premio Strega nel 2008.
La notte dei due silenzi è una storia sulle evocazioni simboliche dei luoghi della memoria, sui veleni della malinconia, sull’ambiguità, sull’incomunicabilità, sull’essenza stessa dell’amore che è spesso “mancanza”.

Immerso in una natura altamente evocativa e metaforizzata, che è sfondo e destino, memoria e luttuoso presagio, il romanzo, sospeso tra Amalfi, Napoli e Palermo, nel Regno delle Due Sicilie, tra il 1840-50, rappresenta la nostalgica epopea di un’età e insieme di un solitario aristocratico, Alessandro Altomare, che è alla ricerca dell’intima essenza della vita, di un’armonia esemplare, di arcane corrispondenze nella natura e nella memoria. Perduto com’è nell’intimo smarrimento degli abissi della solitudine e dell’incomunicabilità, in una dimensione di assolutezza, il nobile Alessandro, con le sue «smanie» e le sue inquietudini insondabili, costruisce mosaici di peripezie emblematiche, allucinanti ed effuse, a tratti fosche, ma anche colme di intensa luce. I luoghi di Amalfi, il chiostro, il salone della villa Altomare fermano in segni antichi e immutabili il ricordo della storia della famiglia, della storia che volge al tramonto come un’intera epoca, come nel Gattopardo. Gli anditi e gli intimi recessi di quella immensa domus adagiata sulla marina amalfitana nascondono meraviglie e penombre, oggetti gravidi di significati.

La notte dei due silenzi è un romanzo di difficile disambiguazione ed è tale anche per il sovrapporsi di più piani narrativi e voci. Non ha una struttura lineare, ma polifonica, perché ingloba nei suoi livelli compositivi un racconto, un intreccio di lettere, più voci narranti, segnalate anche con accorgimenti tipografici mediante l’adozione del corsivo. Apparentemente è un racconto labirintico, con ben sette narratori che si avvicendano nell’esposizione dei fatti. All’alternanza tra diverse voci, Eugenio Altomare, Descuret, l’Anonimo, la voce dell’Autore, si deve aggiungere poi la commistione tra i vari generi testuali, che vanno dal carteggio epistolare al diario, fino al racconto nel racconto e alla pièce teatrale (questo nell’epilogo del romanzo).

Il pàthos della distanza è la funzione dominante del romanzo, perché distanti sono i due amanti, distante è Eugenio Altomare rispetto al mondo e soprattutto distante è la lingua, che esibisce una “costanza dell’antico”, un’allure fonico-timbrica inusuale e una ricercatezza formale conferita dalla presenza di parole rare e peregrine, legate in una partitura sonora di grande intensità. Il “pàthos della distanza”, insieme a uno stile visionario, è dunque la cifra rappresentativa e stilistica che contraddistingue l’arcana bellezza di questo romanzo. Vi domina una sorta di contemplazione sospesa in una storia satura di richiami favolosi, smarrimenti, vertigini, costruita con un filologico recupero di un linguaggio che appare esemplare nella sua stupefatta cristallinità, nella sensualità della sintassi sonora e nella ricercatezza delle scelte lessicali. Il romanzo esibisce una lingua raffinatissima e satura di musicalità, uno stile immaginoso, visionario, deviante, che acquista densità, senso, suono e colore dai pigmenti di un espressionismo quasi barocco. Dal confronto delle due edizioni emerge il lavoro di Ruggero Cappuccio proprio sulla lingua che appare “più diretta e a tratti più acuminata”.



SIPARI APERTI

Il sipario aperto è un abbraccio simbolico e visivo che accoglie lo spettatore nella meravigliosa realtà irreale del teatro. Apriamo il sipario anche alla scrittura teatrale, sia drammaturgica che letteraria o saggistica, per godere profondamente di questo magico viaggio.
A cura di Emanuela Ferrauto

Tributo (dovuto) a Renato Carpentieri

Grazia D’Arienzo,
Renato Carpentieri. L’attore, il regista, il dramaturg,
Napoli, Liguori, 2018,
238 pagine,
€ 22,50

a cura di Emanuela FERRAUTO

Ho conosciuto Grazia D’Arienzo all’Università degli Studi di Salerno, all’interno del Campus di Fisciano. Io dottoranda, lei lo sarebbe diventata successivamente: i nostri percorsi sono differenti ma affini, confluenti nel teatro. Il primo vero incontro e confronto con l’autrice del volume intitolato Renato Carpentieri. L’attore, il regista, il dramaturg, edito da Liguori nel 2018, avviene, in realtà, nel 2014, durante la partecipazione alla XIX edizione di Linea d’Ombra – Festival Culture Giovani, come membri della giuria di questa rassegna salernitana, insieme al collega e amico Vincenzo del Gaudio, anche lui giovane studioso dell’Università di Salerno, luogo caro a Renato Carpentieri.

D’Arienzo, che ha studiato attentamente Bertolt Brecht e gli adattamenti dei suoi testi, in questo volume approda ad un colloquio importante con uno dei più famosi attori napoletani, negli ultimi anni conosciuto e riconosciuto anche dal grande pubblico italiano e dagli spettatori più giovani grazie a fortunate produzioni televisive e cinematografiche. Non dimentichiamo che Renato Carpentieri rappresenta la memoria storica della sperimentazione artistica napoletana, momento artistico che ha tracciato un importante segmento della storia del teatro italiano.

L’autrice ha dimostrato l’importanza di lasciare ai posteri una testimonianza caratterizzata da quella tendenza contemporanea che ha una sua ragione imprescindibile: il dialogo con l’artista in vita, la trasmissione di memorie e di pensieri dalla viva voce, l’osservazione della sua produzione artistica in scena. Non solo, dunque, lavoro di recupero delle fonti, lavoro di archivio, osservazione del vivo, ma anche analisi degli archivi privati, oggi più che mai preziosi forzieri ricchi di tesori in via di estinzione, oltre all’utile e indispensabile intervista, punto di partenza su cui costruire una ricerca importante e originale.

La premessa al volume, firmata da Isabella Innamorati, docente di Drammaturgia presso il  DAVIMUS, Dipartimento delle Discipline delle Arti Visive, della Musica e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Salerno, evidenzia l’importanza e la natura del lavoro:  « […] l’ampio saggio monografico di Grazia D’Arienzo dedicato alla ricostruzione integrale dell’esperienza artistica dell’uomo di teatro napoletano, provvedendo, in tal modo, a colmare una lacuna degli studi che finora non sono mancati, ma che sono stati prevalentemente centrati su singoli aspetti».

Attraverso l’introduzione, l’autrice elenca la suddivisione dei capitoli o sezioni, guidando il lettore e informandolo sui contenuti delle varie parti del volume; approfondisce, inoltre, i passaggi che hanno portato alla ricerca delle fonti e, poi, alla scrittura, passando attraverso il dialogo con l’artista.

La struttura del volume, forse a tratti eccessivamente rigida, ricalca quella delle tesi di laurea o di dottorato e appare utile per il lettore che, in effetti, può scegliere di inoltrarsi nella lettura di un determinato capitolo, tralasciando quelli precedenti. Mi preme consigliarvi, però, di intraprendere una lettura ordinata e cronologicamente coerente, perché il taglio prevalentemente storico dell’intero volume ripercorre la vita artistica di Renato Carpentieri, attraverso un percorso trasversale che tocca vita privata, storia della sperimentazione teatrale italiana, nomi noti e meno noti. È opportuno, dunque, “viaggiare” attraverso gli anni di formazione dell’artista e attraverso le fasi della sua vita, evitando di tralasciare alcuni momenti importanti.

Il volume si articola attraverso quattro capitoli, rispettivamente intitolai: Profilo biografico di Renato Carpentieri, L’attore, Il regista, Il dramaturg: Museum.

In particolare, vorrei soffermarmi sul capitolo dedicato al Carpentieri attore: qui l’autrice riporta l’analisi dei vari ruoli interpretati dall’artista, suddividendo in sottoparagrafi che analizzano il filone comico, i ruoli seri, i ruoli da antagonista negativo, da servo-filosofo, fino alle interpretazioni cinematografiche. Un contenitore, dunque, che riporta un’accurata e ricca ricostruzione storico-artistica, attraverso fonti inedite, osservazioni di filmati e indicazioni ricevute dallo stesso attore.

D’Arienzo non tralascia neanche l’analisi del testo drammaturgico, dedicando ampio spazio, all’interno del capitolo dedicato a Carpentieri regista, alla descrizione del lungo percorso di realizzazione della drammaturgia dello spettacolo La nascita del teatro: nato dalla collaborazione con l’amico e studioso Amedeo Messina, il testo trae ispirazione dall’antica opera di teoria teatrale della cultura Hindu. L’autrice riporta una tabella attraverso cui si confrontano parallelamente le sequenze del testo teatrale inedito, i distici del I capitolo del testo sanscrito Baharata Nātyaśāstra e gli elementi narrativi estranei al testo fonte. Analizza con scrupolo critico tutte le sequenze dello spettacolo, soffermandosi soprattutto sugli elementi partenopei che vengono inseriti all’interno dell’opera creata da Carpentieri-Messina, dalla lingua ai personaggi della tradizione. L’attenzione iniziale nei confronti del processo di commistione e di derivazione del nuovo testo drammaturgico sembra, però, sfumare per ritornare incessantemente all’analisi della creazione scenica e della regia, analisi sicuramente supportata da appunti, copioni, relazioni stilate da Carpentieri-Messina, ricco materiale a cui la giovane studiosa ha avuto fortunato accesso. Appare, invece, eccessivamente lunga la digressione in cui si approfondisce filologicamente e linguisticamente la fonte in sanscrito.         

L’ultimo capitolo è dedicato all’operazione importantissima Museum, esperienza che oggi non è più attiva. Carpentier veste il ruolo di dramaturg, dedicandosi ad una “rassegna” che si è svolta dal 1999 al 2001 presso la Certosa del Museo di San Martino di Napoli. Parliamo di storia contemporanea del teatro: chi ha vissuto Museum ricorda gli spettacoli, le drammaturgie interessanti, le giovani promesse attoriali, il dialogo e il confronto con gli spettatori ed anche l’ottima organizzazione degli eventi.

Il volume si conclude con un apparato bibliografico monumentale che si aggiunge a tutte le note che riportano approfondimenti bibliografici trasversali e riguardanti non solo Carpentieri, ma Napoli, le sperimentazioni teatrali, la storia artistica dell’Italia in un determinato periodo, l’antropologia, la nascita e l’evoluzione della figura del dramaturg, gli autori europei letti e amati da Carpentieri, la letteratura italiana e straniera e le recensioni teatrali e cinematografiche.

Le ultime sessanta pagine prima dell’appendice fotografica (unica “pecca” è l’assenza dei riferimenti in nota che rimanderebbero alla foto in appendice di uno spettacolo citato in capitolo), riportano il risultato di una profonda ricerca e il frutto della fortunata “amicizia” tra l’autrice e il grande artista: Teatrografia, Filmografia. Cinema, Filmografia. Televisione, Interventi della Lega del Vento Rosso, Produzioni radiofoniche, Fonti inediti, Fonti edite, Recensioni scelte. Teatro, Interviste, Bibliografia, Webgrafia, Appendice fotografia.



COME SUGHERI SULL’ACQUA

Da un verso della poesia Sera, in spagnolo Tarde, di Federico García Lorca. Sugheri sull’acqua le poesie ed i poeti che desidero presentare, distinti e visibili, sottratti alle tante cose amare che la risacca fa approdare sulle spiagge del mondo.
A cura di Ariele D’Ambrosio

Nessuno cercò un corpo che gli desse l’ombra

Elmerindo Fiore

amnesie

Progetto grafico e interventi manoscritti di
Antonio Poce
Fotografie di
Giovanni Poce

Keiron Network Edizioni 2020
pagine 110

Info: +39 328.180.38.00

a cura di Ariele D’AMBROSIO

C’è da dire subito che in questo libro di poesie di Elmerindo Fiore si uniscono molte arti. Il poeta non solo è un letterato ma è anche un artista, il grafico calligrafo Antonio Poce è un musicista ed infine Giovanni Poce è un valente fotografo. Quante storie e quanta creatività in un libro da sfogliare con grazia. Da leggere con attenzione per il piacere delle parole, delle immagini che sottendono sempre a suoni e a riflessioni profonde. Il titolo è amnesie.

Sulla prima pagina un buco di bruciatura dentro cui è colata una goccia d’oro. Si sfoglia e sulla seconda quest’oro tondo rilevato al tatto è circondato da un rigo fluido in calligrafia, e così ci dice:

«il corpo del poeta è corpo minore un corpo per sentito dire ha mani di sibilla e gli occhi di anice nell’acqua»

Basta questo per cogliere subito la complessità e la bellezza del libro. E mentre lo si sfoglia, le fotografie dell’Académie Vitti di Atina, la pelle vissuta dello stesso poeta e confusa nel fumo di una sigaretta nebbiosa, la sua nuca di capelli canuti isolati nello spazio oscuro come di una testa senza volto, fanno da contrappunto a versi nuovi. Versi mai letti, che hanno la capacità di muoversi tra una dimensione surreale e metafisica che, attraverso una visione paradossale, si concede anche all’ironia improvvisa, inaspettata, anche amara nel “gioco” ossimorico di un’assenza scritta e incisa nel desiderio della carne. Le amnesie d’altronde sono le assenze dei ricordi, le sparizioni che fanno dei corpi pur vivi, dei contenitori vuoti, ma in cui cercare ancora il senso che ancor più si nasconde.

E leggendo mi incontro subito con questo verso: «… per via di quel capello da Pessoa …» Lindo mi dice che capello è cappello, un refuso di stampa su cui il musicista calligrafo Antonio Poce, ha aggiunto a mano una P rossa da cui partono puntini ancora rossi di colore e che incidono, come passi luccicanti di formica, una strada che da una pagina approda all’altra per uscirne e andare chissà dove. Mi piace immaginarla una P di capello liberato nel vento, in una trasparenza d’immagine come il nome Pessoa ci dice, perché nell’altalena tra il portoghese che lo traduce “persona” ed il gioco francese personne, che vuol dire “nessuno”, nel gioco eteronimo di Ferdinand Personne, c’è l’io indefinito, c’è quel capello-cappello che così bene Elmerindo Fiore ci canta.

La breve introduzione di Sergio Zuccaro, che parla da poeta al suo amico poeta, condensa in modo incisivo il percorso che stiamo affrontando: la scrittura che amplifica il sentire con la finzione, la metamorfosi che riconsegna il linguaggio all’origine.

È bene dire che nella nota biografica a fine libro, l’autore ci fa sapere che queste amnesie sono un breve capitolo del Poema infinito dal titolo Esercizi di scomparsa, che riassume tutto il suo lavoro visivo e poetico. E qui ritroviamo tutta la coerenza di un artista che consapevolmente sa di lavorare a temi reiterati, a rovelli imprescindibili, che fanno della propria esperienza mentale e fisica, della propria esistenza, un unico titolo.

Cinquantotto poesie, mi pare di contare dopo averle lette, gli ultimi titoli fino a Fine, in corsivo, gli altri in carattere bold. Ci sono quelle contenute in Memoriale dalla valle, quelle contenute in Tredici poesie per Gianna, altre dedicate ad amici, altre ad altro. Ma ho l’impressione di leggere un’unica lunga poesia, che si dipana in un percorso di senso che costantemente sottolinea la contraddizione del vivere tra immagini e riflessioni che non sono mai consolatorie, mai retoriche, ma hanno una magia di tenuta che tenta, lega, affascina, stupisce ogni volta.

«quando nacque da un utero di carta / Nessuno / fu chiamato Steve / nome disperso lungo gli argini del fiume / in una notte di sirene e gin / uomo rinato trasparente / Nessuno / cercò un corpo che gli desse l’ombra / e sognasse i suoi sogni …»ed ancora «la casa di François / è casa di nessuno / ,nei pressi della porta … / ,la casa di François / è casa di due donne e amnesie …» ancora «… .Susy Rrose fu veramente nuda quando si vestì / annunciò la primavera morente / e attraversò la porta senza aprirla / Steve si ritrovò / avvolto nella sciarpa / che lo aveva assassinato»

Chi leggerà questo libro di poesie le guarderà anche per la sapienza di come sono usati gli accapo e i versi posizionati in modo scalariforme, qui, si badi bene, il lavoro musicale, ma anche visivo del poeta, il ritmo che fa di una poesia sempre un canto. Lo scendere e il salire che diventa respiro di fisarmonica e ventaglio. A volte, poi, troviamo il punto, i due punti, il punto e virgola che precedono il verso, e questo per comunicarci che il pensiero mai finisce, inizia soltanto, per poi continuare a dire nell’immaginario emotivo di chi legge e guarda e ascolta e sente.

Steve e Susy Rrose, li ritroviamo spesso protagonisti in queste poesie che sono sempre storie collegate e che descrivono spesso percorsi fatti di specchi e trasparenze, come a dire che il riflettere, il riflettersi, sono sempre una presenza-assenza che scava ed inquieta con il suo retro vuoto e pieno d’aria. Un’aria che contiene sempre una sparizione concreta.

 I fili si dipanano tra Thomas Stearns Eliot, James Joyce, Ezra Pound, Marcel Duchamp, per ricordare un po’ del mondo che appartiene al nostro autore, mentre Steve è come un alter ego che viaggia alla scoperta di un invisibile che pure è. Ma l’invisibile è l’interno che solo un certo tipo di poesia riesce ad esprimere. E mai si spezza il suo flusso continuo che ritorna e ricomincia.

«… – lo specchio è la fine della terra – sentenziava Paul / che aveva visto l’angelo in Bretagna e annodato corde / – è cadavere in un fiume – … / oculistico il mattino / fra gli strilli del venditore di aringhe …» ed ancora «… ;dietro gli occhiali a specchio / ho visto il corpo dei fantasmi / e i ciechi / ho visto l’arrivo delle rondini / gli occhi delle pietre / le porte / guerrieri contro draghi / il grido di battaglia / e ho visto l’aria / … .dentro gli occhiali a specchio / ho visto ciò che non ho visto / e il volto di due ombre»Ebbene vorrei poterle scrivere per intero queste poesie, non darne solo testimonianza. Anche l’infanzia ritorna insieme alla sua favola, insieme alle sue fiabe.

Così Enzo Moscato, drammaturgo napoletano, definisce la poesia: una ricerca incessante, una processualità, un pellegrinaggio, un esilio “sine die”, un andare e ritornare, senza posa e senza senso, su se stessa, all’infinito verso il mare e le sue onde, piuttosto che un approdo, una meta, un appiglio precisi. Ed è in questa definizione che mi accorgo quando una poesia, una poetica è di valore, ed è questo il caso di Elmerindo Fiore.

Il titolo è per il matrimonio di Daniele e Chiara e così si conclude «… si scambiano i nomi con gli anelli / e li infilano al dito / poi piangono / i presenti si accecano» Qui l’ironia surreale e sorridente che fa capolino, ed ancora «quando Susy e Steve / capirono d’essere fatti per volare / pensarono a Chagall / in aria si baciarono / ma non avevano le labbra / poi si accorsero di essere dipinti / e furono astuti nel precipitare» In quest’ultima poesia intitolata Chagall, che ho scritto per intero, è condensata una così profonda metafisica amorosa che esprime in modo pieno tutta la tenerezza dell’assenza, quella di chi cerca un infinito irraggiungibile e che fa suo precipitando.

Concludo col dispiacere di un libro che ho finito di leggere, e che rileggerei mille e mille volte in attesa del sempre nuovo da scoprire nel Poema infinito