Ariele D’Ambrosio, “Tà-Kài-Tà” | Antonio Grieco, “Neiwiller a Procida”


Il punto di vista dei Soci.

Diamo spazio alla voce dei Soci dell’Associazione e pubblichiamo qui due importanti riflessioni sull’edizione di Tà-Kài-Tà (Ariele D’Ambrosio) e sul rapporto tra Neiwiller e Procida (Antonio Grieco).

PROCIDA CAPITALE: UNA PROPOSTA PER RICORDARE ANTONIO NEIWILLER


Nei giorni bui della pandemia, la nomina di Procida a Capitale italiana della Cultura 2022 è apparsa a molti commentatori come il segno di un profondo ripensamento negli indirizzi culturali (e politici) del nostro Paese; un orientamento, si è detto, più attento a ciò che è sommerso, fuori del nostro sguardo, non ancora violato dalle implacabili leggi del mercato. Speriamo sia cosi e che questa importante occasione per la più piccola isola del golfo di Napoli non si traduca, come è avvenuto per altre simili iniziative, in un caotico afflusso turistico con uno sfondo meramente economico, che metterebbe in discussione proprio quel suo incontaminato habitat naturale che ha spinto poeti, scrittori e artisti di periodi storici diversi (da Alphonse de Lamartine a Elsa Morante, da Alberto Moravia a Cesare Brandi), ad amarla e a trasferire nelle loro opere tutta la magia dei suoi colori insieme alla semplicità e affabilità dei suoi abitanti.
Fu questa silenziosa atmosfera oltremondana, a indurre anche un artista come Antonio Neiwiller – napoletano, regista, attore, scenografo, artista visivo, morto prematuramente nel 1993 – a eleggere Procida, dove è sepolto, a luogo dell’anima: lo spazio ideale fisico e umano, che avrebbe permesso alla sua comunità di giovani attori di sperimentare un linguaggio teatrale diverso, non subordinato ai tempi della produzione e del mercato. Neiwiller è stato un poeta della scena: un artista di frontiera (“perchè lì, spiegava, si può perdere l’identità ma si può trovare anche una realtà più vitale”), che negli anni Ottanta, con un gruppo di attori ai
margini della società dello spettacolo, contrastò anche nel teatro la spinta omologante del “ritorno all’ordine”, rilanciando in Italia, sulla scia del regista polacco Tadeusz Kantor, la figura dell’uomo di teatro interartistica, in cerca, attraverso la pratica collettiva e antiproduttivistica del laboratorio, di un altro immaginario, di nuovi e inediti territori della creatività.
Fu dai laboratori che l’autore attore napoletano tenne nell’isola che la sua scena – attraverso lo studio della vita e dell’opera di maestri tra loro molto diversi, come Pasolini, Beuys, Kantor – si alimentò di un nuovo sguardo, senza che in nessun frammento della sua opera – scrisse Claudio Meldolesi, suo grande estimatore prevalesse la maniera. E questo perchè Neiwiller riusciva sempre a tenere insieme un’idea totalizzante, utopica e spirituale del teatro, insieme a qualcosa di concreto, di materiale, inseparabile dalla nostra stessa esperienza umana.
Nella magica atmosfera procidana, sotto l’ombra di Terra Murata, il suo teatro povero iniziò a popolarsi di ombre, di esclusi, di marginali della vita e dell’arte, di nomadi, che indossando lacere coperte fuggivano dalla fame, dalla povertà, dalle guerre.
Il lavoro dedicato a Pasolini Dritto all’infermo, per esempio – parte di Trilogia della vita inquieta, un progetto ispirato anche a Majakovskij e Tarkovskij che non riuscì a terminare – aveva questo segno e prese forma proprio a Procida dove Neiwiller riunì la sua comunità teatrale per riflettere sulla la vita e l’opera del regista friulano, ma con uno sguardo drammaticamente rivolto agli sconvolgimenti epocali che, nonostante il crollo dei muri dell’89, continuavano a distruggere la vita di milioni di esseri umani: “il lavoro, scrisse, nasce dentro nuove deflagrazioni: l’immane, biblica tragedia tragedia degli albanesi, in fuga dalla loro terra verso l’Occidente”.
In Dritto all’inferno – quaderno edito nel 2003 nell’ambito del progetto Petrolio di Mario Martone – Loredana Putignani ricorda che le prove si svolgevano in un’antica casa procidana “nel punto più alto e crudele dell’isola, tra il carcere e l’abbazia di San Michele Arcangelo”. Qui Neiwiller aveva simbolicamente diviso l’appartamento (“Casa Parascandola”) in due spazi: uno per la rappresentazione, e l’altro dietro, dove gli attori cercavano un rapporto più intimo col dolente mondo del regista di “Accattone”; uno spazio, quest’ultimo, allusivo di un universo parallelo: di “qualcosa che sta ai confini della rappresentazione che non può essere rappresentato”. Quando Dritto all’Inferno andò in scena, nel 1991, sin dalle prime azioni comprendemmo che nel silenzio di Procida il regista attore napoletano aveva eliminato dalla rappresentazione qualsiasi elemento esteriore o ridondante: lo spazio scenico si era così come svuotato , mentre il suo sguardo cercava nel poeta di Casarsa una risposta ai drammi umanitari che dilaniavano il mondo nuovo: “Mi chiesi – scrive ancora Neiwiller – come avrebbe parlato oggi Pasolini se fosse stato vivo davanti al problema degli albanesi…Ma pensiamo anche ai popoli ai popoli dell’ex Urss, agli africani, a quelli che chiamiamo extracomunitari, alle genti che muiono e cercano la fuga verso i paesi felici dell’Occidente”. In Dritto all’inferno del mondo sognato da Pasolini ritornano solo frammenti di parole, di gesti, di corpi. Corpi inconoscibili nelle ombre della sera. Echi di una perdita. Sul filo di un delicato lirismo, “l’azione dell’Esodo”, dove uomini e donne attraversavano lo spazio semibuio rischiarando i loro volti con delle fiammelle; drammatica e crudelmente realistica, a tratti caravaggesca, anche la scena violenta di quell’uomo nudo, interpetato magistralmente da Maurizio Bizzi, che viene umiliato e torturato; un’azione che, oltre la morte del poeta, evocava anche tutta quella umanità respinta e umiliata dalla violenza della Storia. Dalla casa di Procida, tra inquietanti ombre pasoliniane, giunse con Dritto all’inferno un poetico messaggio di fraternità, di pace, di libertà, di rifiuto di ogni violenza.
Gli interpreti, bravissimi, che parteciparono ai laboratori nell’isola e allo spettacolo furono: Maurizio Bizzi, Giulio Ceraldi, Claudio Collovà. Antonello Cossia, Antonio Neiwiller, Loredana Putignani, Andrea Renzi. Altri laboratori tenuti a Procida – dai lavori su Majakovskij e Tarkovskij a L’altro sguardo, suo ultimo spettacolo – segnarono una radicalità nuova nella messinscena neiwilleriana, con simboli allusivi di universi in continuo movimento, mentre agli attori il regista non si stancava mai di raccomandare di “stare in scena naturalmente…senza dover assumere nessun personaggio”, in qualche modo mostrando la loro estrema fragilità esistenziale; uno degli elementi che caratterizzò questo processo d’interiorizzazione del comportamento attoriale fu il silenzio, che diventò un elemento fondante e imprescindibile del suo teatro. Chiarì molto bene quanto, soprattutto negli ultimi anni, nella sua messinscena sia diventata fondamentale la comunicazione non verbale, quando chi scrive, sollecitato da Stefano De Matteis suo amico, antropologo e scrittore, lo intervistò nel giugno del 1993 per la rivista “meridionalista «dove sta Zazà», diretta da Goffredo Fofi e di cui lo studioso napoletano fu tra i fondatori. L’intervista (pubblicata postuma nel 1994 col titolo Sogno un teatro visionario)si tenne in un clima di grande convivialità a Procida, in una piccola abitazione vicino al porto che, oltre alla sua compagna, Loredana Putignani, ospitava anche il pittore Giancarlo Savino e la scrittrice Silvana Maja. Neiwiller, che era molto bravo in cucina, preparò un classico e gustosissimo piatto napoletano: Vermicelli al sugo di “polpetielli”. Al termine del pranzo, gli chiesi subito perché il silenzio era diventato così necessario nel suo teatro, e la risposta, nella sua estrema lucidità, contribuì ulteriormente a convincermi che la sua drammaturgia sia stata essenzialmente una drammaturgia visionaria e poetica. “I dialoghi, la parola in sé, disse, non sono mai determinanti. La scena si presenta ai miei occhi sempre come un humus complessivo. Per questo il silenzio che sta tra le cose, tra le parole, è l’elemento più importante. Esso diventa un po’ il tempo della rappresentazione. Come trasformi questo tempo in luci, ombre, colori, gesti, tutto questo è la mia messinscena. Il silenzio è, dunque, fondante perché è ciò che ti fa sentire il tempo e dà peso alle cose. Ma il silenzio è anche l’ambiguita delle cose. Un attore che non parla, o parla per frammenti, ti apre un mondo che puoi recuperare solo in una dimensione più profonda, a livello di una nuova percezione e sensibilità dell’uomo”.
A Procida, dunque, con la sua comunità di artisti attori Neiwiller scelse di sfuggire ad ogni forma di spettacolarità e mercificazione dell’arte per un teatro informale, dove l’incontro tra linguaggi espressivi diversi dall’arte alla musica, dalla poesia alla filosofia – avvrebbe alimentato un nuovo immaginario. Un altro sguardo. “Il sogno , appunto, di un teatro visionario”. Ricordarlo nell’anno in cui la piccola isola sarà capitale italiana della cultura, sarebbe un giusto e doveroso tributo a un artista che con un gruppo di giovani, in anni di ripiegamento e di restaurazione culturale – ha resistito alle sirene del mercato e del pensiero unico, da “clandestino” del teatro e dell’arte. Una proposta molto interessante al riguardo viene da Loredana Putignani, attrice e regista, docente all’Accademia di Brera, che da anni continua la propria ricerca poetica nel segno di Neiwiller. “Sarebbe auspicabile e molto bello, ci dice, che Procida lo ricordasse realizzando un centro studi di memoria attiva a lui dedicato per la formazione di giovani attori, dove far confluire il tantissimo materiale documentario (quaderni, quadri, fotografie, video dei suoi lavori), custodito da compagni di viaggio, da amicianche da quelli che con lui hanno condiviso le fasi iniziali della sua sperimentazione – ed anche da istituzioni pubbliche come l’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa dove si conservano preziosi documenti della sua storia artistica e umana”. Un centro aperto dunque anche a giovani artisti ed anche a scrittori, attori di generazioni diverse, che potrebbero qui – nell’isola che ha vinto il titolo di Capitale Italiana della Cultura con il dossier “La cultura non isola” – continuare a sperimentare un’arte libera e inclusiva incrociando lo sguardo di un grande maestro. Una proposta molto bella e giusta, questa di Putignani, che facciamo nostra auspicando che venga favorevolmente accolta dalle istituzioni e condivisa dai tanti artisti che continuano in suo nome a resistere e a ridisegnare il volto e l’anima del nostro teatro.
Antonio Grieco


Enzo Moscato
TÀKÀITÀ
(Eduardo per Eduardo)
a cura di Antonia Lezza
Editoria & Spettacolo 2020 Percorsi
pagine 134
Euro 12,00
per info: info@editoriaespettacolo.it
disponibile all’indirizzo: www.editoriaespettacolo.it

TÀKÀITÀ è Questo E Quello, ed è un titolo, su questa copertina dalla grafica sobria di Francesco Cianciulli, che unisce la cultura greca ad un ritmo di percussione. E sì, perché, e ne riparleremo, il ritmo è ciò che unisce la scrittura alla musica, la poesia alla musica, il teatro alla musica. Questo E quello per dire del forte legame del di qua e del di là o dell’aldiquà e dell’aldilà, di una congiunzione che unisce, lega, in una commistione di elementi emotivi che diventano indissolubili. Enzo Moscato è l’autore, Antonia Lezza la curatrice di questo assai interessante libro. L’introduzione critica al testo della curatrice, la trovo ineludibile, assai significativa; necessaria premessa ad uno scritto drammaturgico da leggere senza la sua rappresentazione in vivo. Quando Antonia Lezza ci sottolinea subito una dimensione metateatrale, ci chiarisce anche di un teatro che riflette sul teatro, poiché Enzo Moscato scrive due Eduardo De Filippo, E.1 ed E.2 che in questa opera dialogano tra loro. Così facendo l’autore ci comunica anche della tradizione teatrale napoletana senza però esserne epigono, né epigonico seguace. Subito la storia del titolo che riprende quello del film che Pier Paolo Pasolini non riuscì a girare perché assassinato. E subito l’evidenza dei raccordi tra Enzo Moscato, Pasolini, Eduardo, Totò, che la curatrice ci comunica, tanto da rendere la sua introduzione-saggio a TÀKÀITÀ assolutamente necessaria, per apprezzarne poi la stesura drammaturgica, e tutto quello che pur non vedendosi, è carico di riflessioni emotive e di visioni espressive e dinamiche. Antonia Lezza sottolinea bene le sovrapposizioni dei drammi umani che Enzo Moscato stratifica in questa opera, con la morte di Pasolini ricordata dagli E. morto e quella accidentale di Luisella la piccola figlia di Eduardo. Le morti filtrate dai ricordi dell’autore sono il filo che ci conduce attraverso le vite. Totò che morendo non permise a Pasolini il film Le avventura del Re magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo, Pasolini che morendo non permise ad Eduardo di essere Epifanio. Insomma quello che poteva essere, ma che invece è sparito nel desiderio che si amplifica e si eternizza nella morte. I Tra-Passati sono passi tra le cose, ci pare di capire, che il teatro riflette in una trasparenza di vetro che si fa specchio tra materia e spirito, tra sparizione e realtà, come l’organo fantasma della psiche che pure è nella sua misteriosa e invisibile appartenenza ai neuroni. E Pasolini e Moscato sono insieme in una poetica lirica che richiama Napoli, città di vicoli vitali e maleodoranti, dei vivi e dei morti, che richiama all’unisono la libertà di espressione e la coerenza. Come bene ci dice la curatrice che s’immerge a sottolineare le 2 caratteristiche di questa scrittura drammaturgica con i suoi nessi: c’è un’alternanza di momenti descrittivi e lirici, di riferimenti cronachistici e di originali divagazioni […] vita /morte; poesia/prosa; realtà/fantasia. […] lingua e dialetto; ed ancora Luisella /la bambina; Pirandello/Eduardo; la morte di Eduardo Scarpetta; i fratelli De Filippo. […] Via Bausan, Piazzetta Ascensione. Penso che per una lettura drammaturgica di questa complessità sia sempre necessaria una introduzione saggistica come questa di Antonia Lezza, che ti permetta poi di entrare con maggiore consapevolezza al’interno di ciò che diventa oralità e di cui poi parleremo. Entrare nella dimensione visiva ed emotiva di una lettura che si fa ascolto. Un’altra caratteristica sottolineata è il vagare. Il vagare che è proprio della poesia. Il volo pindarico che è il viaggiare per poi riprendere il filo, sostare, improvvisamente riabbandonarlo, ricucire. Ma nel momento che si entra nel ritmo di questo fare, allora si comprende quanto l’emozione si dilati, i vissuti si confondano e l’occhio del lettore o dello spettatore a teatro vaghi nei propri ricordi che diventano tutt’uno con quello che l’attore è in quel momento, che non interpreta, ma è, e questo è il caso del nostro autore-attore. E qui cito il citato: la poesia è una ricerca incessante, una processualità, un pellegrinaggio, un esilio “sine die”, un andare e ritornare, senza posa e senza senso, su se stessa, all’infinito verso il mare e le sue onde, piuttosto che un approdo, una meta, un appiglio precisi. Altra cosa che mi pare faccia bene a sottolineare la curatrice in TÀKÀITÀ è la variabilità, per così dire, del testo/copione rispetto al testo per la messinscena (il copione di scena). E questo per capire quanto il libro sia da leggere e non solo un rimando drammaturgico ad un’opera teatrale da vedere ed ascoltare. E ci spiega come Moscato sacrifichi l’intreccio, il plot, al pensiero poetante, per semplificare il testo da rappresentare, rendendolo più fruibile ad un pubblico che non avrebbe il tempo per entrare nello specifico di una lettura. E mi chiedo, non avviene così anche per certa poesia contemporanea che esige una lettura lenta, se non uno studio, malgrado, a volte, s’”abbandoni” al dire, ad una oralità che può trasmettere solo parte di sé, tra frasi più o meno visionarie e ritmi più o meno percepiti? A questo punto ancora il saggio introduttivo è esaustivo nel dirci quanto la poetica drammaturgica del nostro autore-attore non rinneghi mai il passato, ma tagli, meglio sfregi con un rasoio tutti i luoghi comuni e le convenzioni di maniera, di un napoletanismo ancora troppo abusato dai media e reso oramai insopportabile. “Rasoi”, altra opera teatrale di Enzo Moscato; andai a vederlo a teatro tanti anni fa, con la regia di Mario Martone. Fu una straordinaria emozione per me che ascoltavo e guardavo. Insomma una drammaturgia che diventa anche una grande lezione di teatro, ci dice Antonia Lezza, fatta anche di autocitazioni, di segmenti di scrittura già usata in scena per precedenti lavori, ma che accanto a nuove scritture diventano nuova cosa per nuove “visitazioni” e nuove storie. Viaggio di Ulisse che scompare nel Nessuno, per ricomparire senza approdare, per nuove rive immaginate. Qui i “tra-passi” che tornano tra lingue e linguaggi confusi, costretti a ripartire per cercare traduzioni da ridare al senso. Antonia Lezza, ci dice che Moscato si sente appartenere anche a narratori e filosofi del novecento quali Dullin, Artaud, Byron, Màrai. Sapere questo significa entrare con maggiore consapevolezza anche emotiva all’interno del testo e della sua rappresentazione. Capirne la complessità – che sono i passaggi tra stilemi diversi perché appartenenti a strutture formali diverse, come quelle lessicali o quelle che navigano tra la poesia, la narrativa, la filosofia, la cronaca narrante – è percepire quella metariflessione necessaria ad approfondire il senso e l’emozione. 3 Ancora Ulisse e il suo Nessuno, per ritornare sempre alla lingua madre, alla città culla, dopo aver viaggiato per altre ed innumerevoli strade abbandonando la propria identità senza disperderla. Ed ora il testo che vado a leggere si collega al percorso già fatto, preso così bene per mano e condotto dalla curatrice del libro. I personaggi si snodano man mano, non li troviamo elencati all’inizio. Ci appariranno volta per volta come sorprese e ci sorprenderanno. Come è bello leggere le indicazioni di regia di un autore-attore che si fa teatro! Una premessa una N.d.A., una poesia di Byron. Si apre il sipario; “andiamo a incominciare senz’altro” ci dice Dario Fo, per questo dono di un drammaturgo attore come Moscato ad Eduardo De Filippo che lo ha preceduto nello scrivere e nel rappresentare. Poi ci accorgiamo che in quella premessa stampata c’è tutto il nucleo fondante, il coagulo profondo di questa opera teatrale e non solo: la speranza di un aldilà passaggio senza muri, col desiderio di ritrovare voci, pensieri, persone, tutte le cose a noi care, e che i trapassati del teatro restino sempre tra i passanti a continuare a fabbricare storie da dire e da far vedere. Qui sta tutto TÀKÀITÀ, qui Questo E Quello, qui “questo e quello per me pari sono”. Moscato ci avverte che la scrittura del libro rompe gli schemi della linearità di 4 sezioni dedicate alla rappresentazione e già ci dice dei personaggi fatti di Fantasmi, Giovani Spiriti, della coppia E.1 ed E.2 (Eduardo1 ed Eduardo2), Devota Attrice. E già siamo curiosi per scoprirne gli intrecci, le facce proiettate nel nostro interno, anche su una parete bianca in tetaro, ci dice. E poi il buio-luce. Chi può intendere meglio, sapere meglio quest’alternanza se non chi è nato e vive a Napoli, città di buio e di luce, di vicoli e d’orizzonte? Ed è Byron che introduce le prime indicazioni di scena. Ed ecco subito il flusso, i miei dormiveglia del mattino, i miei e di chi sa quanti altri: Stando così le cose… / gli assenti sono i morti, / che non ci fanno stare in pace, / e stendono un velario di tristezza intorno a noi, / e investono di cupe ricordanze i nostri / momenti di riposo, – hours of rest. Dove questo riposo diventa il rest, il restare in un gioco mentale tra l’inglese ed un napoletano italianizzato. Quale scelta migliore per parlare di buio e di luce. Ogni sezione è preceduta da un numero: – 1 –, – 2 –, – 3 – e così via, e questo rende fruibile la lettura perché mette ordine, cominciando dalla premessa, alle indicazioni di regia, agli interventi degli attori. Mentre il libro si conclude con un glossario assai utile, – altra fatica della curatrice – una interessantissima nota all’edizione, e la opportuna biografia dell’autore. Compare Corp’Anima E, Figuretta scenica, ed io mi concentro sul clima e sul ritmo di questa intensa lettura. Non prescindo dall’immaginarla sulla scena, ma con il tempo lento di chi può tornare sui suoi passi per coglierne linee di congiunzione, anfratti, particolari che così non sfuggono; la lettura che si sofferma ansiosa a cercarne i nessi visivi ed emotivi. Il sottotitolo di TÀKÀITÀ è (Eduardo per Eduardo), da tenere presente per il già detto, così come si legge della prima rappresentazione dove insieme alla nota attrice Isa Danieli c’è ovviamente come interprete Enzo Moscato. Lo scrivo perché conoscendo l’attore a teatro non posso prescindere, mentre leggo, dal ricordo della sua voce, dal suo modo di emettere il suono. Mi soffermo sulle indicazioni di regia e di scenografia. La scena è sempre ampia con giochi minimali di luce e di buio dentro cui percepire figure. Ho detto minimali, eppure ne colgo ogni volta, all’interno, il barocco delle chiese napoletane, quasi un ossimoro visivo in questo luogo che sta ad indicare, tra l’esibizione circense dei costumi e le spirali nascoste 4 e oscure dei suoi riccioli luccicanti, le stratificazioni delle ombre, la morte che scompare e riappare in un moto circolare che non ha inizio né fine. Parlerò poi della disposizione dei Fantasmi e degli Spiriti, dei loro nomi che riempiono a tratti e in alternanza questa scena che si arricchisce di elementi metafisici, come luci di un albero a Natale – ci indica l’autore – di presenze sì festose, ma inquietanti. Non manca una torta con le candeline e il ricordo entra in tutti noi, quando spegniamo le luci in casa per vederne quelle piccole degli stoppini incerati e la canzoncina cantata dai parenti, così che non vediamo ma soltanto ascoltiamo. Qui tutti i Fantasmi e gli Spiriti del tempo che passa e che ritorna come disturbi di memoria melanconica e triste. La scena cambia, spariscono alcuni e le luci si stringono sul personaggio doppio, due specchi che risolvono una possibilità finta d’infinito. Due leggii per un maschio ed una femmina che non sono diversi, forse l’uno nell’altro. Lo sguardo ci guarda – ci dice l’autore – e guarda anche me che leggo. E in questo luogo s’immaginano le teche degli ossari, delle reliquie delle nostre chiese, fatte di vetri per scrutarci dentro, incorniciati da argenti matti con bagliori improvvisi solo a volte luccicanti. E man mano che giro le pagine ecco i protagonisti e le Tornate della I Parte. La Prima con i Fantasmi: Davanzati, Gurlando; e subito dopo con i Giovani Spiriti: Achille, Patroclo, Ettore; e la Tornata Seconda con nuovi Fantasmi: Battisonne, Sette-sé, Astorisio, Schlomes; spunta Liana Torres; di nuovo gli Spiriti con anche Paride, e così si va avanti con questi nomi nella Tornata Terza e nella Quarta. Gli Spiriti Giovani hanno i nomi altisonanti degli eroi di Omero, i Fantasmi nomi fantastici scoperti dalla fantasia di Moscato, ci precisa bene Antonia Lezza. Mi chiedo subito se saranno in scena o solo proiettati da qualche parte o voci fuori campo, e quali voci, ma non importa, serve entrare piuttosto nei loro dialoghi serrati. Ci si accorge subito che la lingua commista dei Fantasmi, pur essendo contemporanea, porta verso antichi lidi mentre si descrive il senso del teatro, la bellezza del sipario, le voci lontane del loggione e il Locus Solus che dipinge di nobile latino l’ironico e il grottesco di tutto l’impianto lessicale. Ebbene mentre le loro descrizioni in dialogo si dipanano, ecco sentire subito la capacità ritmica e musicale della scrittura dell’autore che si fa poesia. c’ ’o bàvero aizàto, canto. Ed ecco l’abbraccio immediato con la canzone. La “luna rossa” che diventa voce di fantasma, che ci fa spaesati persino nel ricordo. Arrivano gli Spiriti con i loro nomi di guerrieri meravigliosamente insieme a dialogare, e si continua a parlare di teatro nel teatro e non ci si aspetta il cambio di tono, il nuovo lessico fatto di un italiano preciso e non più commisto al napoletano: frasi da telegrammi di altri tempi, scritte su quelle striscioline incollate, e il tema diventa il sociale tra giustizie e ingiustizie, popoli, sdegno, ribellione, ipocrisie, e sempre per dire di cosa deve parlare il teatro. Così il Fantasma Gurlando: Sbadiglio, m’assetto, oiccànne: / la porpore ’e sipario, manda fiamme, / barcaccia e boccascena, uno splendore… / in loggione, sussurrano impazienti, la tela si leva, cu ’e mosse aggraziate ’e na farfalla! Così gli Spiriti: Paride «il teatro muore quando si limita a raccontare fatti accaduti.» E gli risponde Achille: «Solo le conseguenze dei fatti accaduti…» ed ancora Patroclo «Possono raccontare un teatro vivo!» Ed Ettore «Vivo?» E Paride «Vivo, Vivo!» Achille «Siete sicuri?» E mi ritrovo tra l’emozione e la ragione, tra radici e rami, tra il terreno e l’aria. In questi dialoghi tra Fantasmi e Spiriti – che sembra siano testimonianza del momento storico pandemico in cui in modo ossimorico vive il teatro – è il dipanarsi del metalinguaggio, del meta teatro, di cui se ne sente l’assoluta urgenza e l’assoluto bisogno. 5 Riflessioni che si spostano sui luoghi, sui temi, sul pubblico. Trovo stupefacente quando l’autore-attore fa dire al Fantasma Astorisio «[…] Ecco il bàratro. Ecco l’attore.». Come non ricordare la lezione di Carmelo Bene, di Leo de Berardinis e quella assai prima di Luigi Pirandello, quando il Fantasma Schlomes dice «Beh, “I sei personaggi” di Pirandello mi avevano / letteralmente, scombussolato. Devo dirlo. / Ci pensai e ripensai non so quanti giorni. / Mi pareva quasi impossibile continuare a far ridere / la gente coi quadri delle riviste, quando, in altra sede, l’arte drammatica raggiungeva quella potenza e quella / originalità d’idee e di espressione…». Qui, in questo libro si concentra tutta la storia del teatro alla ricerca di un nuovo teatro rinnovato. E Davanzati «Mi hanno messo a scrivere, quest’è! / Però, così, mi sono impadronito della tecnica. […]». Ed è una lezione la consapevolezza che non si trasmette emozione senza la ragione, senza lo studio, senza la тέχνη che strutturi l’emozione del pensare. Emozioni e ricordi tra Fantasmi e Giovani Spiriti che vanno a formare un puzzle che ti spinge a cercare ogni volta il tassello irregolare che possa risolvere l’immagine, ma anche col desiderio che non avvenga per perdersi in quella mancanza. E Gurlando il Fantasma ci fa entrare nel silenzio in scena (il silenzio di Eduardo De filippo), per farci capire e sentire. Ce lo spiega, ed è così che ancora una volta parla di teatro ed il Vacante diventa il vuoto-pieno, quel silenzio “per cui soltanto la musica trova linguaggio”. Già ci fu detto da Edgar Lee Masters, ed ancora una volta il teatro diventa parola e pausa tra musica e poesia. Nei dialoghi, troviamo anche le riflessioni sulla scenografia ed il rapporto di questa con gli spettatori, e la rappresentazione come ponte che congiunge la finzione alla realtà. Lente d’ingrandimento che scruta e rende visibili anche gli angoli oscuri della vita e della morte. Ed un ricordo, leggiamo, dell’attore con la capacità del suo mestiere, pronto a risolvere qualunque problema improvviso, anche se il cuore si ferma. Se leggiamo i dialoghi senza separarli tra i personaggi, ascoltiamo un ritmo poetante che fa di Moscato uno scrittore di versi. Cito per un esempio. È un segmento di dialogo tra gli Spiiriti Paride, Achille, Patroclo, Ettore, Paride «Perché, se tocco con una mano, il muro / di un palazzo…» / «Lo faccio sempre con la sensazione…» / «Di avvertire sotto dita…» / «La superficie della carta…» / «O della tela dipinta.» E improvvisamente ci si accorge che i Fantasmi e gli Spiriti sono tutte parti di Eduardo De Filippo, angolazioni del suo pensiero, della sua visione, del suo impegno sociale. E ancora una volta è il teatro che parla del teatro. Gli Spiriti Achille, Patroclo, Ettore, Paride, Achille «Il teatro nasce dal teatro.» / «Puoi fare teatro…» / «Solo se tu sei Teatro!» / «Perché il teatro nasce…» «Dal teatro!». Pare anche che l’autore usi a volte una lingua napoletana vicina alla commedia dell’arte ed i fantasmi dialogano come fossero Pulcinella antichi ma colti, antichi ma saggi, senza alcuna caduta nella maschera abusata e confinata nei canoni di una sopravvivenza populista. Liana Torres «Nun me facìte l’obbrigo, cu la magia vosta, / a restareme sperduto ncopp’ a chest’isola sulagna…» e Battisonne «Dateme la libertade, da li legame mieie, cu lu signale de li sbatti mane, comm’ a cunsenzio favorevole…». Escono di scena gli Spiriti e i Fantasmi. Comincia la seconda parte e sono E.1 ed E.2. Due figure speculari, l’una nell’altra come già detto. Eduardo che parla ad Eduardo. Per ripetere il teatro che parla al teatro. E intanto una voce di vento che introduce e fa ponte tra il Golfo Naturale e il Golfo Mistico del teatro, mistico di morti, di spiriti e fantasmi che rimandano al mare, al camposantobagno e come sempre tra la luce e il buio. 6 Mi chiedo chi sarà il maschio, chi la femmina, chi E.1 e chi E.2 e a quale dei due attribuire la voce dell’autore-attore, che ricordo sottile, di una levità che penetra senza che te ne accorgi, e che da sempre ha abbandonato quella attorialità vistosa dei toni e dei gesti. Tutto per chiederti attenzione, concentrazione sia come spettatore che come lettore. I dialoghi sono brevi monologhi che si alternano, ed ogni monologo riflette il vivo-morto e il morto-vivo, l’insieme, l’anarchia – e sempre c’è l’ossimoro che spunta – e l’insondabile; la curiosità del capire; l’abbandono all’incomprensibile. Bellissimo io e l’ignoranza di altri “io”. E l’uso di parole poco in uso: Scusate. Forse parlo per pleonàsmo., che lo fanno barocco ma anche ironica ed iconica maschera che aggira e sovverte e ci scuote all’attenzione. Gli inneschi sono improvvisi, spiazzanti, vissuti. Ed Eduardo2 parla della morte di Pasolini: un uomo molto buono. Ed Eduardo1 parla di sé e dei suoi conflitti familiari. E Moscato fa buono chi riconosce il buono e il bene e lo difende – E.1 ed E.2 si difendono – dalle calunnie calunniose che sempre hanno circondato la figura di un maestro a cui sente di dedicare questa sua opera teatrale. I dialoghi s’intersecano, e le spiegazioni diventano il tribunale dell’accusa e della difesa e TÀKÀITÀ non poteva essere titolo e metafora migliore per quel suono ritmico che unisce e divide senza separazione alcuna. Pasolini, Eduardo, De Filippo, Pier Paolo ed è l’autore che li mette insieme in un’unica forma dialogante che li salva dalla maldicenza. Il ricordo di un film, di un titolo ucciso, e le invidie denunciate, e tutto diventa un parlare vivo tra le morti. Insomma, in questo monologo dialogante si dipana la storia di denunce e di difese, di salvezza e di condanna. Eduardo che parla di Pasolini, di se stesso, che ricorda le malelingue in un vociare esterno. L’abilità dell’autore, in questa sua drammaturgia è anche quella di essere riuscito a diventare un Eduardo anziano ma sempre vivo. La lingua napoletana e quella italiana fanno sponda e la narrazione spesso sfocia in un sistema che è della poesia, dove la voce di Moscato si fa strada nella mia mente, lieve per penetrare negli anfratti come particolari di linee che scopri nei dettagli di una parola che suona, si riposa, ti dà l’accento per quello che poi segue. Come non sentire ad esempio questo passaggio. E.1 che dice «[…] col nome di Battesimo ’e Giannina!» Ed E2 che risponde «Mi manca, m’è sempre mancato, il mare. […]». E mi accorgo a volte che anche gli accapo sono in forma di poesia per cercare pause ai ritmi che s’inseguono. A momenti sembra una confessione quella degli Eduardo, ma non di un morto tra i morti, ma di un vivo tra i vivi. Un autoritratto, un’autobiografia costruita da un altro autore-attore per la finzione reale della scena. Anche qui la complessità coinvolgente di questa scrittura. Un Eduardo che entra nei particolari della sua storia, del suo fisico già vecchio, ed invecchiato prima nella mente e nel trucco, del suo teatro, del rapporto con gli altri, con la gente: «[…] Ll’uocchie ’e ll’ate te scavano, te smangiano, rerùpano, con la loro insistente fissità. […]». Una confessione dicevo: «[…] non recito. O, meglio, non vorrei. Ma faccio ’o vero. Parlo seriamente […]». E comincia una digressione sull’avverbio seriamente e l’uso che se ne fa in teatro. E allora ti chiedi: è Eduardo che parla o l’autore che scrive? E qui sta il bello! E la devozione all’uso e all’attenzione della parola è ulteriore argomento su cui riflettere e dire. Ma non è un riflettere saggistico, è un riflettere poetico che si confronta con le suggestioni emotive del corpo e della natura. Mentre «[…] Parlano pe’ parlà. Anzi nun parlano neanche: sosciano, / scaracchiano […]». Qui altra gente ed altri attori di un teatro deteriore: «[…] E se tirano l’applauso: aria vana. Che s’ammocchia / ad aria vana. / 7 Boati ’e niente. […]». Per cui ci si chiede: è Eduardo che parla di suo padre Scarpetta o è Moscato che sottolinea un certo tipo di teatro? Ed ancora il teatro che parla di teatro. Ed anche la morte di Scarpetta è vera ed è finta come una morte teatrale, come la morte della città che la contiene. E mentre leggo mi sorprende il ritmo di scrittura, il TÀKÀITÀ interno come fosse quel ritmo incalzante di certi percussionisti orali della tradizione indiana. Qui il mio piacere di leggere a voce sussurrata almeno. Mentre scorre l’impasto delle miserie umane, delle gelosie tra i fratelli anche sul letto del proprio padre morente. Sarà stato così? Sarà stata la fantasia dell’autore? Beh, a noi ci sembra vero e qui sta il teatro, mentre un canto di canzone ci apre una finestra sulla luce dell’aria e del respiro. La poesia, credo unisca Moscato ad Eduardo, non il fare poetico, ma la poesia poesia. A fine recita il grande autore-attore di “Filumena Marturano” usciva sul proscenio per dirne qualcuna, lo ricordo bene, e ci si ritrovava d’improvviso seduti nel salotto buono della sua casa ad ascoltarlo in silenzio. Così mi capita ora con Moscato mentre leggo il suo libro sperando di nominarlo un giorno semplicemente Enzo, come parte di noi e della nostra storia. E Moscato-Eduardo continua a riflettere sulla vera Morte che è il Malinteso, altro pensiero imponente, altro teatro di pensiero. E il mare ancora il mare, il mare-orizzonte, il marefogna che contiene ’e Muorte! E tutto si mischia, si contagia coi miseri migranti dell’oggi, morti affogati nello stesso mare. Ed al – XIX – c’è il grande tributo del nostro autore-attore ad Eduardo e sempre per bocca di De Filippo che ci spiega attraverso Cocteau che essere celebri non vuol dire essere conosciuti. Per dire che Eduardo è morto ma non è morto, perché tanto c’è ancora da scoprire del suo teatro, perché solo «[…] quando si fermano alla lettera e non già all’essenza, lo spirito, ’a metafora, di ciò che ha messo fuori, può dirsi di sicuro nu cadavere. […]». E così il grande drammaturgo sembra volersi salvare, e Moscato sembra volerlo salvare da quelle ripetitività filodrammatiche che ci affliggono ormai da troppo tempo. Anche molto belli, qua e là, sono gli inserti di indicazione di regia, i movimenti, gli oggetti. E ci si commuove leggendo della teca di vetro che contiene un piccolo corpo di cera palpitante. Il dramma greco si fa colore vivo nel ricordo custodito della figliolina Luisella morta troppo presto. Eduardo mi copre col suo dolore silenzioso, pudico, nascosto e non meschinissimo egoismo del malinteso e della maldicenza. E Moscato mi copre con la sua voce sottile e dolorosa, con la sua scrittura che riverbera la gola afflitta dal singhiozzo trattenuto. Cosa sarebbe stata Luisella nel tempo? E siamo insieme su questo mondo di malefatte umane e di natura. E si conclude con la nenia triste che dalla Gracia mi trasporta in India: «[…] Anakatà, anakatà, Koré! Anakatà, anakatà, Koré! Anakatà, anakatà, Koré!». Abbiamo raggiunto la III Parte introdotta da una spiegazione scientifica, quella del Carbonio 14 che ci da la possibilità di capire quanti anni prima una componente organica ha cessato di vivere. Luisella ’a dint’ ’o vitro è il sottotitolo. Compare la Devota Attrice (Doppio adulto della Bambina Luisella), nuovo personaggio a riempire la scena con le sue parole rivolte ad Eduardo. Ed è un peana dell’attore all’attore, di un autore all’autore, attraverso un tempo senza tempo: una figlia bambina che diventa doppio adulto sulla scena. Ed anche qui la complessità che si snoda in un pensiero drammaturgico che cerca densità nelle ombre spiraliformi della filosofia del tempo. «[…] L’aggio ditto: è nu Cristallo. / Una sorta d’inorganico elemento – / Che non è misurato, / ma misura isso stesso ’o Tiempo, / evi chimici e ciclici, periodici, / aggrediti a Ci quattordici.». Nemmeno il carbonio 14 potrà definire la sua morte; perché non c’è. C’è 8 invece la figura, il fisico corpo di Eduardo, e a – 49 – è un’altra poesia, tra le tante, ad approfondire il senso e la misura etica di questo grande e geniale artista. A – 50 – Luisella dice: «[…] Certo che io, Devota Figlia, nessun amore, ho avuto, / né altra difesa, tranne che per Lui, me piglio.». E siamo giunti al finale cortese, ed anche qui la sapienza dell’autore a utilizzare un plurilinguismo che si spinge oltre la commistione per approdare a delle invenzioni lessicali che c’incantano. Ricompaiono E.1 ed E.2 quasi ombre e il gioco Ma jakovskij! ci trasporta nel gelo, discesi dalla “nuvola in calzoni”. E poi non c’è sipario né fine; ma BUIO. Così è scritto. A questo punto desidero soltanto correre a teatro, godermi la rappresentazione per poi tornare a casa e rileggere questo magnifico libro, che non è solo stesura drammaturgica, ma è libro che assolve anche la funzione di farci penetrare nella poetica di un autoreattore, Enzo Moscato, come pochi nel panorama contemporaneo. Che ci fa penetrare nella complessità del suo pensiero visionario, della sua ragione emotiva, per indicarci ogni volta qualcosa da scoprire, angolazioni che non ci aspettavamo e che ci avvolgono ogni volta con la silenziosa trepidazione della sorpresa e dello stupore.

Ariele D’Ambrosio
Napoli febbraio 2021