COMPLEANNO – di Antonio Grieco

“Compleanno” di Enzo Moscato

Difficile trovare un’opera come Compleanno di Enzo Moscato – riproposta, agli inizi di Agosto a Sorrento, nel suggestivo spazio del Museobottega della Tarsialignea, nell’ambito della rassegna “Teatro d’estate Sorrento 2016”, promossa dall’Associazione “Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo” in collaborazione con l’Associazione “Palma Capurro” – in cui sia così struggente e vivo il ricordo di un amico con cui si è condiviso una parte decisiva della propria esperienza artistica e umana.
Il testo – un intenso monologo dedicato ad Annibale Ruccello, autore attore di Castellammare di Stabia, scomparso giovanissimo – evoca l’universo visionario di uno dei più originali autori del teatro contemporaneo europeo, e possiamo considerarlo uno dei momenti più emblematici del teatro del drammaturgo napoletano. È da trent’anni che va in scena Compleanno, e tutte le volte che viene ripreso – come qualche anno fa all’Asilo Filangieri – è accolto sempre con grande entusiasmo da un pubblico di tutte le età.
  Con piccole variazioni, la partitura dello spettacolo, è molto simile a quella che, nel 1986, debuttò al Nuovo, nel corso della rassegna “Colpi di teatro”. L’azione si svolge ora all’aperto con il pubblico immerso nel verde di un giardino, non distante dai movimenti scenici, dal corpo e dalla voce dell’attore. Luci dai colori vivaci, come il rosso, l’azzurro, il bianco, contribuiscono a dare un’immagine gioiosa della scena dove sono sistemati una sedia vuota e un tavolino su cui sono poggiate una bottiglia di spumante e alcune rose rosse; segno inconfondibile del teatro di Ruccello. Tutto sembra pronto per ricevere alcuni ospiti ad una festa di compleanno. In alto, dei palloncini bianchi accrescono la sensazione di trovarsi in un luogo dove di lì a poco alcuni amici si incontreranno in un’atmosfera di spensierata allegria. Quando, in un elegante kimono, l’attore entra in scena con un vassoio che reca delle candeline accese e una torta, si rivolge a una signorina invisibile che le sta accanto (“auguri fraulé”, le dice, ma la donna è tedesca e la pronunzia esatta – gli ricorda una inesistente voce amica al suo fianco – è “fraulein”), ripetendo una frase che allude all’assenza dell’amico di una vita: “Lo sai di chi è il compleanno oggi? Lo sai di chi è? Chi è?”. Da qui, attraverso una lingua che mescola idiomi diversi, ogni piccolo gesto, suono o gags di Moscato, richiama alla mente Ruccello, con le sue storie di personaggi estremi, fragili e innocenti, calati in sordide e desolate periferie senz’anima. In Moscato, questo mondo sotterraneo, invisibile, che cerca invano un’altra possibilità di esistenza, ritorna – come, per esempio, Cartesiana, una trans operata a Casablanca e “maritatasi con Cha-cha-cha” – come  metafora del viaggio e, insieme, come allusione a una sofferta condizione umana. Soprattutto quando vengono evocate figure e momenti simbolo del teatro di Ruccello – da Franco a  don Catello – la voce dell’autore-attore napoletano sembra assumere quasi il tono di una disperata un’invocazione: “Che ora è della notte, che ora è della notte, che ora è della notte?”, ripete tra sé o rivolgendosi a personaggi  che, come Rusiné o Ines, sono solo parte del suo immaginario.  
  Rivivere questa sorta di rito collettivo del ricordo, è come condividere un’altra idea del teatro, perché tutto in Moscato – a cominciare da quella phoné che diventa corpo, respiro, lieve soffio di vita  – si trasforma  in un’intima poesia della visione.
Compleanno convoca fantasmi: ombre stritolate dall’inferno di un mondo ostile, talvolta simbolo, come il killer dei travestiti Pagnottella, di profonde aberrazioni e lacerazioni del corpo sociale; altre  volte, espressione di un potere che distrugge tutto ciò che incontra nel proprio cammino e non lascia che “resti”, una umanità ai margini senza più alcun sogno da inseguire.
 Ruccello capì, forse prima di altri, l’abisso dei nostri giorni. E, oggi, quei suoi personaggi fantasmatici, sembra dirci Moscato, ci spingono a interrogarci sul mondo che abitiamo per sottrarci a una inarrestabile barbarie che ci fa respingere e negare l’Altro.
 La drammaturgia, tutta drammaturgia, di Ruccello, decostruiva il rifiuto dell’Altro come da un microscopio puntato sull’estrema dissoluzione del corpo sociale. In questo senso, lavori come Le cinque rose di Jennifer – e, negli anni successivi, Piéce noir di Moscato – possiamo in qualche modo considerarli come un’indagine spietata sulla disgiunzione del nostro tempo. Teatro visionario, questo del drammaturgo napoletano che incontra Ruccello, con quella sedia desolatamente vuota, quasi ad indicarci l’urgenza di rielaborane l’assenza nella dimensione collettiva del teatro. Perché il teatro è innanzitutto spazio della memoria, il solo luogo del mondo dove è ancora possibile riconciliarsi con noi stessi, incontrando i fantasmi del nostro vissuto.
 E, difatti, qui i fantasmi della scena ruccelliana ritornano a splendere, illuminando quella labile linea di confine che separa il mondo della vita dalla sua illusoria rappresentazione. In margine, è utile forse ricordare, a proposito dei testi di Ruccello qui evocati – da LeCinque rose di Jennifersino a Ferdinando – che essi, nei primi anni Ottanta, rappresentarono uno strappo all’interno di un’area della sperimentazione teatrale che non contemplava nella sua ricerca la possibilità di riattivare la pratica teatrale a partire dalla  nostra lingua e dalle nostre radici. Non a caso, qualche autorevole personalità del tempo, sconsigliò le nuove generazioni di dar credito alla drammaturgia “decadente”  di Moscato. Ruccello e Moscato – che oggi possiamo tranquillamente considerare il più importate autore-attore italiano ed europeo – dimostrarono invece che era possibile seguire un’altra strada; mescolando tradizione e avanguardia, contaminando la propria scena con le più audaci esperienze artistiche e culturali del Novecento – come il cinema, la poesia, la filosofia, l’arte, lo stesso teatro contemporaneo (da Genet a Pinter, da Artaud a Strinberg, a Pasolini); un’innovazione profonda che in un procedimento autoriflessivo dell’esperienza scenica, riuscì ad esaltare, in modo singolarissimo, le potenzialità espressive della nostra tradizione e della nostra lingua, evitando di ripetere in modo acritico la lezione di Eduardo.
 Anche per questo, crediamo che, per Moscato, riprendere Compleanno rappresenti sempre un gesto di assoluta verità umana e artistica. Un gesto come segno di un lascito, di un’eredità; di quella eredità che – come ci ricorda Jaques Derrida – richiede sempre di confrontarci con qualcosa di spettrale. E gli spettri di Ruccello che Moscato, ancora una volta, ha evocato a Sorrento, ci dicono che è ancora possibile far vivere, attraverso la memoria, come in un sogno, tutta la magia del nostro teatro.
Antonio Grieco