TEMPO CHE FU DI SCIOSCIA (presentazione) – di Paola Guida
Sorrento
Martedì 28 luglio 2015, alle ore 21.00, l’Associazione “Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo”, in collaborazione con l’Associazione culturale “Palma Cappuro” e con la Libreria Tasso di Sorrento hanno presentato il volume: Tempo che fu di Scioscia di Enzo Moscato (Napoli, Tullio Pironti Editore, 2014).
Interventi di Gius Gargiulo e Antonia Lezza, lettura di Enzo Moscato.
Libreria Tasso, Piazza Angelina Lauro, 18/19 – Sorrento.
Recensione della presentazione
Enzo Moscato narratore del Tempo che “non visse”
Come una tradizione estiva che ormai si consolida, questa sera siamo nuovamente ospiti a Sorrento della Libreria Tasso in occasione della presentazione del volume di racconti Tempo che fu di Scioscia di Enzo Moscato. A presentare l’evento Antonia Lezza, fondatrice e presidente dell’Associazione culturale “Centro studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo”, insieme con Gius Gargiulo presidente dell’Associazione Palma Cappuro.
I due studiosi intervengono a partire da riflessioni angolarmente diverse che focalizzano in maniera complementare l’attenzione sull’opera: «di un grande drammaturgo/scrittore, originale, raffinato e profondamente moderno», che volge lo sguardo indietro a quegli anni della città di Napoli, in quel momento particolare che ricordiamo essere stato la resistenza dei lazzari durante le Quattro Giornate del ’43.
Ci troviamo dunque: «in un luogo di incontro e di intelligenze che stanno insieme e pensano», così sottolinea Antonia Lezza, ed in questo “pensare” insieme ci ricorda che l’acquisizione di una determinata fisionomia culturale è il frutto sempre di un incessante lavoro di formazione, di studio, di lettura e di curiosità divulgativa. Il timbro didattico del suo intervento accompagna a seguire la riflessione di Gius Gargiulo sul rapporto dei posteri con la Storia e con il cerimoniale ingombrante richiamo alla Resistenza, che Moscato celebra nella sua opera con un profondo senso di commozione e di umanità. In tal senso sottolinea il professore: «l’intreccio di un’azione drammaturgica e la rappresentazione teatrale narrativa, possono e sanno esaltare quel qualcosa del possibile della storia di Napoli… che la storia stessa ufficiale non contempla».
Il volume di racconti è intitolato all’indeterminante Scioscia, “personaggio” storicamente non tracciabile, la cui vita si agita e si consuma nel tempo limitatamente eterno di un incipitletterario, e sembra riecheggiare nella citazione onomatopeica quel particolare Scioscia Popolo,testo che il grande Eduardo scrisse e che poi fu sapientemente musicato e interpretato da Domenico Modugno. “Originatasi” certamente a Napoli, in un istante sfuggente, di un’ora imprecisata, di un indefinito giorno, cadente un mese qualunque, diremo negli anni tra il ’37 ed il ’43, Scioscia…alita tra gli “intrecci” di questi undici racconti, ma il suo nome non verrà mai più chiaramente richiamato in essi, se non evocato nella sua profonda essenza di primordiale oralità: «Provengo da una cultura orale che diviene scrittura» afferma Moscato: «e sono ossessionato dalla storia… da quegli anni fondamentali nella storia e nell’immaginario di Enzo».
Non il vissuto dunque, ma l’immaginario di un bambino nato dopo la guerra, che vive quegli eventi drammatici attraverso il racconto orale delle voci familiari, narranti ed educande, care alla sua memoria. Negli anni a seguire poi il movimento di «Torno e ritorno» tra immaginario, coscienza e scrittura, si sostanzia nell’elaborazione prosastica e paziente di ciò che è stato compreso e riconosciuto come evento storico collettivo fondativo della storia contemporanea di Napoli, ed anche nell’evento formativo ed edificante della coscienza umana del drammaturgo napoletano.
L’immaginario sostiene la prosa con vigore, e anima i personaggi che partorisce: «questi partenoresistenti personaggi di cui la storia non si occupa», chiosa Gargiulo, ma che mettono in atto: «una resistenza diversa, creativa, che deve portare alla riflessione del lettore», e dirompono nella narrazione ancor più che se lo fossero. La vecchia cantatrice cieca, Palla di stocco, Mata Hari, Carraturo, Katja la danese, Rita la mandolinista, i Crucchi tedeschi, sfilano sul carro allegorico della vita e della morte: «disumanamente stanchi di dare e ricevere la guerra». Deprivati, derubati della loro esistenza, spogliati della vita dopo un’azione di guerra assumono fattezze altre, sono mutanti tra le dita del Moscato prosatore che sta dentro la storia e crea; fatti di squame, grondanti di carne, di umido terreno, di brace semifossile e di urine aromatiche.
Qualunque, poi è il punto dal quale Moscato, dandoci il privilegio di ascoltare la sua scrittura dalla sua voce, parte per accompagnarci nella riflessione sulla sua prosa: «intenzionalmente nascosta e teatralizzata», sfuggente al drammaturgo, il quale non sente di scrivere libri e per il quale: «nulla è più soddisfacente, di più grandioso, di più sacrificale del gioco e della sofferenza del teatro». Eppure: «una scrittura dal valore ineguagliabile» ribadisce la Lezza, che al pari di quella drammaturgica è luogo di sperimentazione testimonianza della cifra stilistica, del plurilinguismo e del pluristilismo tipicamente moscatiano. La lingua italiana amalgama nel suo tessuto appendici ed espressioni di tipo dialettale, di conseguenza: «la lingua dialettale diventa accrescimento della lingua nazionale, esprimendo in tal modo vari livelli di sentimenti e contenuti».
Fino all’ultima pagina con il fiato sospeso pronti ad esultare insieme a quel popolo sfigurato e vincitore. «Stamattina 1° di ottobre, mentre tutti gridavano e battevano le mani, perché finalmente erano giunti tanti inglesi e tanti americani….». Ma la guerra impari era finita un attimo prima dell’arrivo degli alleati, e Moscato lo insegna. Così Scioscia si ammutolisce un attimo abbracciando i suoi figli eletti, e se mai avesse avuto la consistenza del corpo di un fanciullo, il sogno suo ardito sarebbe stato quello di diventare la più grande leggenda vivente mai esistita.
Paola Guida