SE’ NÙMMARI – di Emanuela Ferrauto
SE’ NÙMMARI.
Un simulacro, un feticcio, una preghiera. La vita è una tombola, è un gioco, un tentativo, un’incognita, sia chiaro. Estraiamo i numeri, vinciamo, perdiamo, il bottino è magro, l’azzardo è enorme. E quando i numeri sono i figli, l’allegoria della vita è terribile. C’è qualcosa in questo spettacolo che trascina violentemente sul palco, che blocca gli occhi dello spettatore, che spegne la mente della quotidianità. Una voragine scenica da cui è difficile staccarsi, sin dall’inizio. Sono proprio i numeri ad accogliere il pubblico, ripetuti, biascicati, urlati, cantati, recitati, ingurgitati, vomitati, stillati attraverso le lacrime, attraverso la voce e i lunghi e profondi silenzi. Una follia dolorosa e profondissima che lacera sia l’anima che il corpo dei protagonisti. Il dolore è inevitabile follia, e folli sembrano i due, marito e moglie, all’inizio ed alla fine di questo spettacolo. Al centro la loro storia, in un circolo doloroso che è la vita stessa. Parliamo del testo di Salvatore Rizzo, spettacolo prodotto dal Teatro Stabile di Catania: Se’ Nùmmari, in scena presso il Piccolo Bellini di Napoli dal 29 gennaio al 1 febbraio. La regia è affidata a Vincenzo Pirrotta, la straordinaria interpretazione a Filippo Luna e a Valeria Contadino. Le musiche, inevitabilmente magiche, sono un dono prezioso di Giacomo Cuticchio. Rendiamoci conto di quanta Sicilia ci sia sul palco, attraverso questo spettacolo che bisognerebbe rivedere, rivivere, riamare periodicamente, perché osservarlo una volta sola è davvero troppo poco. Spettacolo profondamente amato soprattutto dal pubblico settentrionale, nonostante la lingua utilizzata, perché universale è il dolore, tragico, classico, sin dai tempi più antichi.
“Disturbiamo” gli attori nei camerini, ricevendo abbracci, strette di mano, sorrisi e ringraziamenti. Ci emozioniamo ulteriormente: abbiamo “invaso” i luoghi segreti degli artisti per ringraziare gli interpreti e, invece, ci ritroviamo nelle orecchie ulteriori ringraziamenti ai nostri visi sorridenti e ai nostri occhi commossi. Raro ritrovarsi lì, nel luogo – non luogo riservato agli attori, a parlare sulla soglia del camerino. Quale fortuna questa commistione di emozioni che unisce spettatore, attore, autore ( presente anch’egli) e giovani critici teatrali! Quale fortuna uscire dal teatro sotto un cielo napoletano piovoso e freddo e parlare ancora, per la strada, sotto gli ombrelli, in macchina, a casa, e il giorno dopo, e i giorni seguenti! Se il teatro creasse ogni volta questa magia, invecchieremmo respirando emozioni.
La storia di un marito e di una moglie che mettono al mondo un unico bambino, affetto da tetraplegia spastica. Non storcete il naso, non si tratta di teatro civile o di sensibilizzazione del pubblico, né di facile sentimentalismo. Niente di tutto questo. Ciò che viene raccontato, in una maniera ormai dimenticata, è la verità, ciò che potrebbe succedere in qualsiasi famiglia, ciò che succede a molti genitori.
Al di là del racconto, la profonda poesia di questo spettacolo è tutta lì, sulla scena. Dall’arido dolore espresso dalle semplici frasi, il prodotto testuale si “orna” di suoni, di voci, di viscere e sangue, di urla, di lacrime. Queste parole sembrano avere necessariamente bisogno di una spettacolarizzazione fisica, vocale e visiva, perché la semplicità della limitata pagina vive sostanzialmente, a volte, attraverso la poesia del teatro. I veli che caratterizzano la scena, bianchi ed utili a riflettere il gioco di luci, sono quelli che poi vengono annodati su se stessi dall’attore. Quante volte abbiamo guardato la realtà attraverso veli inconsci, quante volte abbiamo rifiutato di vedere. L’utilizzo di questi “sipari-velati”, permette di creare il vedo- non vedo che distingue le diverse zone del palcoscenico, poste in profondità e su diversi piani, e soprattutto indica la divisione netta tra i due protagonisti, tra il passato, il presente e l’incerto futuro.
La presenza di una malattia così impegnativa divide una coppia nata da un profondo e semplice amore, sgorgato nella Terra del Sud. Il ragazzino del campetto, la ragazzina con la gonnellina a fiori, storie semplici che da tempo caratterizzano e colorano la nuova drammaturgia meridionale, dolorosa pur nella sua semplice poesia. Genitori e figli ritornano ancora una volta sul palcoscenico, ma i primi, ormai, sopravvivono sempre ai secondi. L’allestimento scenico evidenzia la forte distinzione tra i due protagonisti, poiché è inevitabile l’allontanamento della coppia a causa della malattia del figlio. Se da un lato il padre rappresenta il ricordo del passato e, quindi, l’inconscia “cecità” nei confronti del presente – ulteriore simbologia dei veli in scena-, la madre incarna invece la tragica consapevolezza del difficile vivere nel presente e dell’inutilità del futuro. La dolcezza del marito si alterna alla disperazione, caratterizzate entrambe da una recitazione poetica, melodiosa, rassegnata. La tragedia della madre è corporea, viscerale, oltre che psicologica, e il corpo dell’attrice diventa Utero personificato che grida il suo dolore in scena, che risuona sotto i pugni che la donna si infligge violentemente sul ventre, mentre la recitazione scorre attraverso un’ossessiva metrica. Non si tratta di dramma esasperato, volgare o volutamente plateale, bensì di elegante e composta tragedia umana che si svolge, incessante, nell’intimità di una piccola vita come tante altre. La ripetizione di parole e frasi, attraverso le sonorità della lingua siciliana – palermitana per lui e catanese per lei-, incastrando climax e chiasmi, diventa oceano di musica recitata, con picchi sonori acuti e pungenti, come è il dolore, e mollezze ritmiche come molle è la rassegnazione. Corpi che strisciano sul palcoscenico, raramente eretti, riversi, sdraiati: la sensazione è di uno sgretolamento delle membra. Quelle membra che vengono appese come feticci ( piedi, gambe, mani) su un palo, albero della cuccagna e altare sacrificale insieme, davanti a cui si inginocchiano i due coniugi. Polistena, Medea, Giasone, Clitennestra rivivono nella tragedia contemporanea in cui un piccolo padre del Sud invoca il suo Dio, poco cristiano e più vicino all’immagine mitologica dell’amato ed odiato Zeus maligno. Ed improvvisamente appaiono le processioni ed i funerali con le prefiche che dondolano sulle parole cadenzate, o la descrizione della suocera come una gallina, ma senza la maschera della commedia antica, lasciata chissà in quale angolo del tempo. Squarci di immagini che non appaiono realmente sul palcoscenico – così come il figlio, immaginato e rappresentato semplicemente attraverso una radio che risuona di un rantolo umano- ma che si aprono inaspettati nella mente dello spettatore, attraverso la semplicità di un piccolo grande racconto.
E quale regalo più bello potrebbe donare uno spettacolo al pubblico? Per questo motivo è bene tacere sul colpo di scena, per lasciare ancora la possibilità di rivivere e vivere questo spettacolo a coloro che non lo hanno ancora amato.
EMANUELA FERRAUTO
SE’ NÙMMARI
PICCOLO BELLINI
NAPOLI 29 GENNAIO- 1 FEBBRAIO 2015
di
Salvatore Rizzo
con Filippo Luna e Valeria Contadino
musiche
Giacomo Cuticchio
regia, scene e costumi
Vincenzo Pirrotta
produzione
Teatro Stabile di Catania