BESTIE DI SCENA – di Emanuela Ferrauto

Ph Masiar Pasquali

Teatro Bellini, Napoli

BESTIE DI SCENA

Analizzare questo spettacolo è un’operazione delicata, da un lato perché tante sono le recensioni e le firme che ne hanno approfondito la lettura, dall’altro perché è un prodotto che genera in ogni spettatore una personale interpretazione, talmente profonda e variegata da doverne, se possibile, tener conto. In questo spettacolo, infatti, è apparentemente assente la guida del testo drammaturgico, ma esiste un’aura solida che sostiene la struttura intera della perfomance e che rivela costantemente la firma di Emma Dante. Ideato e diretto dalla regista palermitana, in scena dal 5 al 10 febbraio presso il teatro Bellini di Napoli, questo spettacolo appare come un profondo studio sul pubblico, il quale finalmente reagisce perché è volutamente e opportunamente stimolato attraverso la particolare performance degli attori. Pur allontanandoci dalla visione descritta da numerosi critici e, forse, ribaltando assolutamente il punto di vista dell’analisi più diffusa, sarebbe opportuno soffermarci in particolar modo su come ci osservano questi attori, ossia attraverso azioni esasperate e reiterate: noccioline masticate, sputi, sudore, acqua, respiri affannosi, membra sottoposte ad un continuo sforzo. Appare evidente che i performer, i personaggi, dialogano realmente con gli spettatori. Sarebbe, dunque, opportun osservare da dietro le quinte, ribaltando il fuoco della visione, perché la massima espressione di questa allegoria si manifesta attraverso una fusione, visiva e semantica, tra scena e platea. Le luci di Cristian Zucaro evidenziano questo meccanismo: alternanza tra platea illuminata, sebbene la luce sia soffusa durante quasi tutto lo spettacolo, e platea spenta e tagli di luce intensi e funzionali quando, invece, il gruppo numeroso di attori arretra sul palco e diventa omogeneo e unito. La costruzione dell’intero “racconto” scenico si basa, infatti, su un movimento perpetuo che, ripetutamente e alternativamente, unisce il gruppo e lo allarga, con repentini distacchi di singoli performer che attivano un profondo discorso con lo spettatore, il tutto attraverso il corpo e la mimica. Le bestie di scena di Emma Dante sono costrette ad esibirsi all’interno di un’arena/circo che è il palcoscenico: considerato spesso un’allegoria della condizione degli attori, in realtà questo spettacolo va oltre una visione che, in questo modo, ne limiterebbe l’osservazione e il potenziale comunicativo ed espressivo. Gli attori si presentano già in azione sul palcoscenico, mentre il pubblico entra e si accomoda. Il ritmo è sostenuto da movimenti cadenzati, caratterizzati da un’attività costante, da corse e galoppi che aumentano vorticosamente la velocità per poi rallentare improvvisamente e brevemente. La stessa evoluzione degli attori è evidente nel corso dello spettacolo, dalla svestizione, al denudamento effettivo, all’imbarbarimento animalesco. Il discorso, infatti, si evolve attraverso un meccanismo comunemente involutivo, ma profondamente significativo proprio perché tale. Alcuni accorgimenti registici dimostrano scelte ben precise, utili a non interrompere la ritmicità angosciante e persistente, ma soprattutto funzionali alla cucitura delle varie scene e alla ripulitura del palcoscenico. L’utilizzo di oggetti della quotidianità è efficace proprio perché la loro semplicità aiuta l’immediata comprensione del gesto, caricandosi poi di significati importanti. L’intera compagnia dimostra grande professionalità e intensità, pur diversificando le personali caratteristiche e interpretazioni. Ogni attore è “manovrato” da una volontà superiore che lo costringe ad esibirsi a tutti i costi, ridicolizzandosi e logorandosi. Come gli attori, ognuno di noi si offre in pasto alla società, esibendosi e dimostrando qualità utili e necessarie per la sopravvivenza: ecco, dunque, il passaggio ad un livello più profondo.
Gli attori si denudano sin dall’inizio, cominciano a coprirsi le nudità in un gioco di incastri di movimenti che rendono i vari corpi membra di un unico essere scenico. Quando gli occhi vengono coperti con un gesto veloce della mano di un altro, l’attore sembra non avere più sostegno corporeo. Il non vedere la propria nudità e ciò a cui si è costretti rappresenta una delle molteplici sfumature, spesso impalpabili, tessute all’ interno dello spettacolo. Rivolto ad un pubblico attento e capace di osservarne i vari livelli espressivi e comunicativi, rivela grande eleganza, arricchita da momenti ironici, anche se l’intero spettacolo si evolve verso una tensione fortemente malinconica. Le scelte registiche creano quadri pregni di simbologie visive e semantiche, arricchiti attraverso tagli di luce che fanno emergere improvvisi squarci di memoria su immagini pittoriche famose, dalla Zattera della Medusa di Géricault alla Cacciata dal Paradiso Terrestre di Masaccio, fino alle Deposizioni di Bellini e di Caravaggio. L’immagine della deriva dei corpi, che oggi affiora nelle menti degli spettatori per motivi ben noti, è poeticamente rappresentata da corpi bagnati che scivolano sul palco, fino ad arrivare al proscenio/riva, bloccati da un’asse di legno su cui sono montati numerosi carillon. I corpi si offrono agli spettatori, sebbene esausti, staccandosi e scivolando dal gruppo, recuperando così un’immagine di evidente memoria dantesca. La fusione tra palco e platea, citata prima, nell’ottica di un’osservazione che tenga conto della reazione del pubblico, sembra interrompersi ad un certo punto dello spettacolo, attraverso la presenza fisica dell’asse, non a caso piantata dagli stessi attori, con martelli e chiodi, come a delineare una demarcazione tra loro e la società circostant. Forse è meglio, dunque, una prigionia forzata in cui si dimostri la propria essenza? Gli attori ripetono ruoli ed azioni, alcuni ricordando la marionetta, nel parallelismo con la bambola parlante lanciata sul palcoscenico, altri attraverso le movenze dei pupi siciliani, elemento, quest’ ultimo, che ritroviamo in altri spettacoli di Emma Dante, come per esempio Le sorelle Macaluso, in cui ritroviamo anche la divisione tra realtà e finzione attraverso il posizionamento di scudi e ritratti mortuari sul proscenio, e la messinscena della tragedia Eracle.
La limitazione dello spazio è direttamente proporzionale all’involuzione degli attori che degenerano in forme animalesche, caotiche e, a tratti, verbalmente volgari: man mano che lo spazio si chiude, attraverso anche scelte registiche inaspettate, come la presenza di lunghissime scope che cadono dall’alto e diventano sbarre di una prigione, gli attori aumentano il ritmo e degenerano in un caos collettivo.
Gli oggetti di scena vengono lanciati dalle quinte laterali, ma sono legati a catene, come ad animali in gabbia che si adattano, nelle loro performance, a ciò che gli si offre e gli si toglie, così come gli uomini si adattano pur di sopravvivere.
Lunghi applausi richiamano ripetutamente in scena l’intera compagnia, mentre il palcoscenico è ricoperto da centinaia di abiti lanciati, in conclusione, alle bestie di scena. La scelta di rimanere nudi è evidente a tutti: per sopravvivere è necessario, alla fine, anche ribellarsi.

Emanuela Ferrauto

BESTIE DI SCENA
Teatro Bellini Napoli
5-10 febbraio 2019
ideato e diretto da Emma Dante

con Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli, Marta Zollet e con Daniela Macaluso, Gabriele Gugliara

luci Cristian Zucaro
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico, Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo, Festival d’Avignon coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma